giovedì 20 luglio 2023

La crisi del sistema liberal-democratico






La crisi del sistema liberal-democratico secondo Padre Antonio Spadaro, con delle correzioni di Cuoco e Prezzolini.





Di Silvio Brachetta, 13 LUG 2023

In certi casi è quasi obbligatorio affidarsi al relativismo. Specialmente dopo le parole di Antonio Spadaro sulla crisi del modello liberal-democratico, su La Civiltà Cattolica [qui].

Sullo sfondo del solito e stracitato «mondo che cambia velocemente», Spadaro ha sentimenti di nostalgia per quel «trentennio dei boomers» (esplosione demografica), parallelo al boom economico post-bellico (1946-1964), che ha visto imporsi la liberal-democrazia e la social-democrazia in Europa. Spadaro, con una certa ragione, ne parla come di un’epoca d’oro. È durante il secondo dopoguerra, scrive, che s’è imposto «l’equilibrio verso un welfare inclusivo, esteso».

E poi? Poi la crisi che, secondo Spadaro, ha una sola causa: la rottura dell’equilibrio tra liberalismo e democrazia, la rottura della «tensione liberale e democratica». Sì, ma perché l’equilibrio si è rotto? Qual è la causa della causa? Sempre e solo questa: la «realtà che muta», il «mondo che cambia velocemente».

Tutto ciò è un po’ astratto, anche se di colpo l’autore riacquista (per brevissimo tempo) un certo senso della realtà, a proposito della questione del traffico dei clandestini. Ci eravamo illusi – confessa – di usare i migranti per risollevare l’economia. E invece «rendere società complesse autentiche società omogenee è estremamente complicato, come dimostrano i fallimenti dell’assimilazionismo e del multiculturalismo e le resistenze opposte all’interculturalità». Stupefacente.

A questo fallimento Spadaro ne aggiunge altri (notissimi), dei quali fa l’ennesimo e noioso elenco: crollo della natalità, allungamento dell’età pensionabile, ostilità crescente dell’Asia, danni a seguito della primavera araba, impoverimento diffuso, neo-liberismo galoppante.

Arrivati a questo punto (cioè alla fine del breve articolo), il lettore non ha ancora capito perché il sistema liberal o social-democratico si sia dissolto e perché mai Spadaro abbia vergato questa pagina.

Torniamo allora al relativismo, che forse può vedere un po’ più a fondo di quanto abbia visto il direttore de La Civiltà Cattolica. Non un relativismo generico, ma il relativismo di Vincenzo Cuoco, lodato da Giuseppe Prezzolini nel suo Manifesto dei conservatori (Rusconi, 1972). Testo datato, ma menti attuali.

Il «principio del relativismo, applicato alla politica», di Cuoco – spiega Prezzolini – è molto semplice: così «come le scarpe non si posson ordinare d’una sola misura per gente dal piede diverso», allo stesso modo un sistema politico non può essere applicato identico per ogni popolo o nazione.

Il sistema democratico, ad esempio, non va bene per tutti. Dice Cuoco: «Finché non si capirà che Islanda, Svizzera, Inghilterra sono popoli che nacquero democratici non si capirà nulla della politica, come accade ai professori di scienze politiche». Così anche «per gli “innocenti” americani (come bene Mark Twain li battezzò), la democrazia è buona tutta, da per tutto, per tutti», così come pure «il porco è tutto buono».

L’ingenuo americano non capisce cioè che la democrazia, al contrario, non è per tutti. E non solo la democrazia: «Tanto la monarchia, quanto la dittatura, quanto la democrazia sono sistemi che non posson esser giudicati per sé, ma soltanto in relazione alla storia». È la storia che decide, non l’ideologia o l’imposizione artificiale di un regime. Cuoco lo dice senza fronzoli: «Creder che basterebbe modificar la legge elettorale per fare degli italiani un popolo democratico è un’assurdità in cui posson credere soltanto i professori di scienze politiche».

Stesso discorso per il liberalismo. Su questo gli fa eco Prezzolini. Ovvero, «conseguenza diretta del relativismo è che la libertà e una delle sue componenti, il sistema parlamentare, sono semplici “momenti storici” e non già forme “ideali” ed “assolute” da applicare a qualunque popolo in qualunque momento del suo sviluppo».

Queste forme politiche non sono qualcosa di francese, d’italiano – o si potrebbe dire di russo o di cinese – ma «sono prodotti della civiltà anglosassone, legati alla storia, alla razza ed alla potenza inglese o americana». Tutto qui. E, allora, «trasportate il liberalismo e il parlamentarismo nell’America del Sud o anche in Italia, ed ecco caricature risibili e dannose». Il regime liberale, in fin dei conti, è «un “accidente” della storia europea irripetibile, inapplicabile e innaturale fuori di pochi paesi come l’Islanda, la Svizzera, l’Inghilterra, la Finlandia, l’America del Nord e… San Marino».

Così Prezzolini e Cuoco. Non che la loro parola sia da considerare sacra, però non va dimenticato che la stessa Dottrina sociale distingue i fini della politica dai mezzi. I fini sono assoluti, i mezzi relativi. Partiti politici, sistemi politici, costituzioni, leggi positive – non dovrebbero mai essere assolutizzati o fatti uscire dal recinto degli attrezzi.

Silvio Brachetta





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