di Francesco Agnoli
Il papa bacia un bimbo disabile
Quello che si dice, insistentemente, è che questo papa non abbia a cuore i “principi non negoziabili”, perché, al contrario di Benedetto XVI, non li cita mai. Con un modo di esprimersi meteorologico, classico per i media, ma un po’ odioso per i credenti, su Repubblica si è scritto recentemente: “Non è più tempo di fulmini bioetici”. A Repubblica, ne sono sicuro, si stappano le bottiglie e si brinda. L’idea è che il “rompiballe” tedesco, il moralista che criticava il nichilismo contemporaneo, senza tema di farlo anche di fronte al sindaco Veltroni o chicchessia, sia finalmente archiviato. E che quindi la guerra sia vinta.
Forse bisognerebbe andare più cauti. Non so se la ricostruzione che segue sia solo una mia personale speranza, o se abbia qualcosa di vero, però, in attesa di conferme o smentite, proverò a proporla.
Anzitutto, prima di parlare, da qualunque parte lo si faccia, di discontinuità sostanziale, bisogna ricordare che Benedetto XVI e Papa Francesco hanno una storia e un’indole molto diverse. Il primo è un teologo, che ama la filosofia e che ha sempre considerato il rapporto con il mondo laico molto importante. Dialogare con i non credenti, per mostrare loro la razionalità della morale cattolica, è stata una delle sue precipue missioni. Basti pensare al discorso sul gender, che prendeva spunto dalla lezione di un non cattolico, il gran rabbino di Francia, per parlare a tutti gli uomini disposti ad ascoltare e a ragionare su dati certi e concreti (l’essere figli è condizione universale). Se voglio esporre una morale, quella cattolica, ad un mondo che cattolico non è, partirò, come è ovvio, non dai dogmi, né dalla Rivelazione, ma dalla natura umana in sé considerata.
Questo ha cercato di fare Benedetto XVI, perché a questo lo portava la sua formazione e la sua storia. D’altra parte, scendere sul piano della razionalità della morale, parlare di diritto naturale, comporta evidentemente affrontare di petto la questione bioetica, cioè, in fondo, la prova del nove della bontà o meno di una morale. Se la morale cattolica è vera, diciamo così, allora “funziona”; realizza l’uomo; porta al raggiungimento, per quanto si può in questa vita, dell’eudaimonia. Se così è, nel contempo, la morale laica, quando è aperta ad ogni scelta del singolo, quale che essa sia, porta alla liberalizzazione dell’aborto, del divorzio, dell’eutanasia…. ma anche, nello stesso tempo, all’autodistruzione del singolo, della comunità, dell’umanità.
Una volta intrapresa questa battaglia, non si può che portarla avanti. Per esempio in occasione del dibattito su una legge. Per questo Benedetto XVI stava, giustamente, al passo con l’attualità.
D’altra parte, invece, papa Francesco ha una storia, una formazione, un’indole, come dicevo, ben diverse: è un gesuita, cioè, sostanzialmente, un missionario; viene, inoltre, da una realtà differente da quella dell’Europa nichilista e neo-giacobina. Una realtà in cui nichilismo e secolarizzazione prendono sempre più piede, sì, ma più per la via del materialismo di fatto, del consumismo e dell’individualismo, che per la via, più pericolosa, perché più terribilmente coerente, dell’ideologia.
Nella sua Argentina, Bergoglio appoggiava le battaglie morali (così come in Italia ha benedetto la marcia per la vita e la giornata in onore dell’Evangelium vitae), ma preferiva, oltre ad andare incontro ai bisogni materiali dei più poveri, sovvenire ai bisogni spirituali più “primari”: di qui l’impulso da lui dato a pellegrinaggi, adorazioni eucaristiche, confessione, preghiera… L’America latina cattolica è infatti minacciata da una parte dal materialismo di fatto, dall’altra dallo spiritualismo protestante ed evangelico, che ottiene grande successo promuovendo soprattutto un ricorso più forte alla fede semplice, popolare, fondata sulla preghiera (nelle più svariate e stravaganti forme).
Un papa teologo, in dialogo-scontro con il mondo, prima; poi un papa missionario, attento a riorganizzare il suo gregge, a nutrire il popolo, nelle sue esigenze più “concrete” come in quelle più spirituali. Due papi, che, forse, hanno anche una visione leggermente differente della modernità: se da una parte Ratzinger appariva a molti più conservatore, dall’altra la sua critica alla modernità non era sempre radicale. Questo potrebbe far pensare ad un papa intento a cercare di fermare il declino di una civiltà cristiana, che riteneva necessario puntellare, sorreggere difendere, per ciò che, appunto, rimaneva di cristiano.
Forse, si badi bene, perché non ho alcuna presunzione di aver capito, forse, ripeto, papa Francesco ha una visione della modernità ancora meno ottimistica. Non inganni il suo ottimismo caratteriale, la sua bonomia: non vi è alcuna contraddizione tra una grande apertura agli altri, al mondo, e la consapevolezza che questo mondo di oggi è sempre più incredibilmente corrotto. Pensiamo al Demonio: non mancava, questa figura, così concreta, personale, nella predicazione di Benedetto XVI; ma diventa molto più concreto, visibile, operante, nelle prediche di papa Francesco. Direi quasi che se la veste teologica del discorso di Ratzinger, finiva per rendere meno evidente la presenza demoniaca, agli occhi dei più, mentre la predicazione più popolare, semplice, da fioretti di san Francesco, di papa Francesco, porta a percepire più chiaramente il suo pensiero sulla reale presenza ed efficacia del Maligno. Per papa Francesco, a mio giudizio, questa più che una civiltà da puntellare, è una civiltà distrutta: è ora di mettere da parte i cocci (non c’è quasi nulla da salvare, se non le persone), e ricostruire, da capo. Anche nella Chiesa.
Papa Francesco saluta a lungo la marcia nazionale per la vita del 2013
Ma da che cosa si parte, per ricostruire? Certamente una nuova evangelizzazione ha bisogno di tutto: dell’apporto del clero e di quello dei laici; dell’apporto dei filosofi e di quello dei giuristi; della ragione e della preghiera; dei convegni e dei pellegrinaggi…
Ma ciò che precede, ciò che fonda, è la Fede. Predicare Cristo morto e risorto, è ciò che, per me cattolico difensore dei principi non negoziabili, sta alla base di questi stessi principi. Pensiamo a Gesù: la sua predicazione tocca senza dubbio i problemi etici del tempo, ma in verità lo fa, per lo più indirettamente. Mira più in alto, o, più in basso, che dir si voglia, alle fondamenta.
E il fondamento di tutto, è, appunto, la Fede. Per secoli i cristiani non hanno mai sentito l’espressione “principi non negoziabili”; né all’epoca del paganesimo, né dopo la conversione dell’Europa. Perché la fede in Cristo, la preghiera, i sacramenti, sono il vero sostegno ad una vita morale cristiana, portano ipso facto ad un certo rispetto dei principi non negoziabili. L’uomo che si inginocchiava di fronte al confessore e al crocifisso, sapeva di essere peccatore; sapeva di avere dei doveri; sapeva di avere dei limiti e un compito. Sapeva che la vita non è sua, ma di Dio. Anche se avesse abortito, mai gli sarebbe venuto in mente di aver fatto bene. Proprio perché da Dio si sentiva creato e guardato.
Cosa significa, questo? Che partendo da questi presupposti, si butta a mare il concetto di diritto naturale? Niente affatto. Si riconosce quello che è un fatto storico: certi principi di diritto naturale, come il non uccidere i bambini, sono stati compresi anche nel mondo antico, ma solo da qualcuno. Possiamo tirar fuori Ippocrate, alcuni passi di Cicerone, ecc., e troveremo persino la condanna dell’aborto.
Ma la ragione di Ippocrate e quella di Cicerone, sta qui il fatto, non ha cambiato il mondo antico, che era assai malvagio, perché considerava i bambini, come gli schiavi, nella stragrande maggioranza dei casi, delle cose di cui fare ciò che si voleva.
La ragione è stata veramente illuminata solo dalla conversione. Solo con la conversione dell’Europa, piano piano, sono scomparsi i giochi gladiatorii, i sacrifici umani, la schiavitù, l’infanticidio come realtà accettabile e diffusa… Prima dai cuori, poi nelle leggi.
Allora, posto che in ultima analisi stanno insieme, è più vero l’ “intelligo ut credam” o il “credo ut intelligam”? Credo che per papa Francesco sia più vera la seconda proposizione. Conta di più la ragione o la fede, per una vita morale? Il primato spetta alla ragione, che vede ciò che è bene e ciò che è male, o alla volontà e alla grazia?
Personalmente, ho la stessa idea di Dante che vuole che Virgilio, simbolo della ragione, lo accompagni sino alla cima del Purgatorio, ma che sia Beatrice, la Grazia, la Rivelazione, a portarlo in Paradiso: la Fede, la volontà, la Grazia sono al primo posto. Dove c’è un barlume di idea di trascendenza, per intenderci, cioè dove c’è un briciolo di fede in Dio, un briciolo di volontà di cercarlo, la ragione è capace di aprirsi, di uscire dal chiuso bozzolo dell’orgoglio e della superbia umana.
Invece l’uomo intelligente, ma orgoglioso, cioè chiuso a Dio, caparbiamente bloccato nella volontà, duro di cuore, è capace delle peggiori irrazionalità, di farle e di difenderle. Tra i laici che amano il diritto naturale e che sono aperti alla discussione, che non sposano a priori il principio irrazionale secondo cui “ciò che è possibile, è sempre lecito”, quanti sono quelli che, prima che dalla domanda “cosa è bene e cosa è male?”, sono attratti, più o meno esplicitamente, dalla ipotesi: “e se Dio esistesse?”. Penso, i più, se non tutti…
Se è chiaro ciò che ho detto, dei principi non negoziabili se ne può parlare in vari modi; non solo a seconda dell’indole, della propria storia ecc; ma anche a seconda del proprio ruolo: non avrebbe senso che oggi, in Parlamento, i cattolici argomentassero in nome di Dio, e non invece a partire dal dato di ragione. Così come non ha senso che i laici cattolici impegnati dimentichino di utilizzare nel dibattito pubblico le armi filosofiche del diritto naturale.
Ma un papa che parla di perdono, di peccato, di Demonio, di tentazioni… utilizzando cioè un linguaggio familiarissimo ai cattolici pre-conciliari – molto meno a quelli post- non solo attira, perché sono parole che hanno, di per sé, una presa enorme sull’uomo, quasi colpissero corde profonde, ma altro non fa che difendere, con altre parole, i principi non negoziabili cari a Benedetto XVI. Non fa altro che piantarli, piano piano, come frutti che nasceranno dai semi, nel cuore di chi ascolta.
E’ il demonio, infatti, il grande Negoziatore, rispetto al quale papa Francesco ha dichiarato: “Il dialogo è necessario fra noi, è necessario per la pace. Il dialogo è un’abitudine, è proprio un atteggiamento che noi dobbiamo avere tra noi per sentirci, per capirci. E deve mantenersi sempre. Il dialogo nasce dalla carità, dall’amore”, ma “con il principe di questo mondo non si può dialogare. E questo sia chiaro“. Insomma, con il serpente, il primo a mettere in dubbio che ci sia qualcosa che non si può fare, non c’è, per un cattolico, dialogo. Sempre papa Francesco, in un altro passaggio, ricorda ancora che sovente il peccato nasce proprio dal negoziare: «Davanti al peccato, fuggire senza nostalgia. La curiosità non serve, fa male! “Ma, in questo mondo tanto peccaminoso, come si può fare? Ma come sarà questo peccato? Io vorrei conoscere…”. No, lascia! La curiosità ti farà male! Fuggire e non guardare indietro! Siamo deboli, tutti, e dobbiamo difenderci».
Quale è allora il problema principale, per chi difende i principi non negoziabili? Che molti sacerdoti ne parlano poco o nulla? No: il problema sta nel fatto se la loro fede perde la sua verticalità, il senso della trascendenza, finisce per divenire solo una morale, destinata piano piano a smarrire le sue ragioni più profonde. Dio, l’Incarnazione, la tentazione, il peccato, la grazia, il perdono… così si capisce l’uomo; così la battaglia morale, la lotta interiore, acquista un senso soprannaturale. Così la follia di un mondo che viola ogni limite, per auto-salvarsi, per auto-redimersi, mentre invece precipita, diverrebbe chiara ai più.
Leggi buone e rispetto del vero diritto naturale nascono da cuori liberi, veri, la cui ragione non sia intorbidita dal capriccio e dalla superbia; da cuori che desiderano il bene e che, per questo, sanno intravederlo; da cuori il cui sforzo di cercare il bene incontra lo sguardo benevolo di Dio, che illumina la ragione e la rende potente. Quos Deus perdere vult, demendat: così si diceva un tempo, per spiegare come mai la malvagità del cuore rende inferma la ragione.
In conclusione, se, semplificando, il pontificato di Benedetto XVI era, per certi aspetti, più ad extra, probabilmente questo pontificato vuole essere più ad intra: si propone cioè come priorità il risveglio della fede e della moralità nei credenti e nel clero, nella convinzione che da ciò derivi poi ogni slancio missionario, anche nel campo politico, anche nel campo della valorizzazione dei principi non negoziabili. Su questo, credo, andrà “giudicato” e compreso questo pontificato, e lo si potrà fare quando sarà chiara la direzione data alla Chiesa, anche per ciò che riguarda il suo governo.
Fino a quando, tornato cristiano, l’uomo potrà dire al Diogneto del terzo millennio, che i cristiani “mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo”
Il Foglio
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