di Stefano Fontana
È in libreria il libro scritto dal Cardinale Müller, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e dal teologo padre Gustavo Gutierrez (“Dalla parte dei poveri. Teologia della Liberazione, teologia della Chiesa”, si tratta di una coedizione tra le Edizioni Messaggero e l’Editrice Missionaria Italiana). L’Osservatore Romano ha dedicato al libro due pagine nel numero del 4 settembre scorso. Molti si chiederanno se la Teologia della Liberazione, come si dice in gergo, sia stata “sdoganata”. Come in ogni questione complessa ed articolata – la Teologia della Liberazione è un plesso di posizioni varie – bisogna procedere con cautela e precisione.
Prima di tutto va ricordato che negli anni Ottanta la Congregazione per la dottrina della fede ha pubblicato due Istruzioni sulla Teologia della Liberazione, molto critiche su alcuni elementi di questa teologia. Il 6 agosto 1984 è uscita l’Istruzione Libertatis nuntius su alcuni aspetti della Teologia della Liberazione. Il 22 marzo 1986 veniva pubblicata l’Istruzione Libertatis conscientia su libertà cristiana e liberazione, quasi un’enciclica sociale nel suo precisare la differenza tra Teologia della Liberazione e Dottrina sociale della Chiesa. Questi documenti segnalano carenze nel metodo teologico e significative incertezze dottrinali. Alcune opere di teologi della liberazione sono state espressamente condannate dalla Congregazione, ma a parte questi casi evidenti, bisogna chiedersi se ci sia nella Teologia della Liberazione in quanto tale, un nucleo problematico o addirittura non accettabile. Alcuni autori di Teologia della Liberazione erano atei e marxisti, per esempio Alfredo Fierro. Ma molti altri no. Può allora accadere che, una volta tolti dal mazzo i teologi dichiaratamente fuori della dottrina cattolica, si pensi che il resto della Teologia della Liberazione possa venire accettato ed accolto senza la necessaria cautela.
A mio modo di vedere, nella Teologia della Liberazione c’è un nucleo che, al di là delle diverse versioni che di essa danno i singoli teologi, rimane problematico. Mi riferisco alla nota tesi dell’ortoprassi che dovrebbe sostituire l’ortodossia. A teorizzare questo principio era stato proprio Gustavo Gutierrez nel suo libro “Teologia della Liberazione”, pubblicato in Italia nel 1974. Nell’accusa rivolta alla teologia europea di essere astratta e deduttiva, egli proponeva una teologia che partisse dalla prassi storica di liberazione dei poveri, che diventava quindi il luogo teologico primario, il punto di vista dal quale pensare la fede. La prassi politica balzava in primo piano come elemento di liberazione e come punto di vista da cui pensare i contenuti della fede. È su questa base che si innesta il rapporto equivoco col marxismo: se si parte dalla prassi politica si parte anche dalle scienze sociali che ce la fanno conoscere e il marxismo era allora considerato una scienza, non solo teorica ma pratica. Se si conosce facendo, sembrava che il marxismo fosse lo strumento più adatto, dato che proprio esso proponeva questo concetto di verità, non teorica ma relativa alla prassi politica. La Teologia della Liberazione ha incontrato il marxismo come conseguenza logica del principio dell’ortoprassi.
Nel 1996 il cardinale Ratzinger tenne una conferenza a Guadalajara (Messico) ai Presidenti delle Commissioni per la Dottrina della Fede delle Conferenze episcopali dell’America Latina [“L’Osservatore Romano”, 29 ottobre 1996, p. 7]. In quell’occasione egli disse che «Quando la politica vuole essere liberatrice, promette troppo. Quando vuole sostituirsi a Dio nel suo agire, diventa non divina ma demoniaca». Ora, «Il venir meno dell’unico sistema che proponeva una soluzione dei problemi umani su base scientifica [il marxismo, crollato nel 1989, ndr] poteva lasciare spazio solo al nichilismo, o per lo meno ad un relativismo totale». L’ortoprassi aveva avuto un effetto non previsto di favorire la secolarizzazione e il relativismo in America latina.
Nel discorso pronunciato ad Aparecida il 14 maggio 2007 davanti ai vescovi latinoamericani, Benedetto XVI aveva detto che «Solo chi riconosce Dio conosce la realtà e può rispondere ad essa in modo adeguato e realmente umano» (n. 3), sostenendo che il punto di vista da cui partire non è la prassi o i poveri ma la “tradizione apostolica”.
Il tema dell’ortoprassi comporta che la verità “si faccia”. L’Osservatore Romano del 4 settembre titolava, infatti: “Fare la verità e non solo dirla”. Ma non è che l’uomo prima agisca e poi conosca. Questa è una concezione storicistica e pragmatica della verità. “Fare la verità” significa fare il bene, che è la verità stessa quando è oggetto della volontà. La ragione teoretica, che conosce, non deriva da quella pratica, che agisce, ma è essa stessa che si estende alla ragion pratica, senza mai cessare di conoscere anche quando orienta l’azione. La prassi non è fonte di verità, piuttosto nella prassi si può e si deve fare la verità, ossia il bene.
Il tempo passa. Le posizioni personali possono cambiare. La teologia della liberazione oggi non è più quella degli anni Settanta. Però è altrettanto vero che alcuni nuclei teorici rimangono e non vanno sottovalutati. E poi c’è l’esperienza: in America Latina spesso la Teologia della Liberazione è ancora insegnata e vissuta in contrapposizione alla Dottrina sociale della Chiesa, che viene ancora accusata di essere “europea”, deduttiva e moralistica. L’ortoprassi, sotto sotto, agisce ancora.
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-il-vero-problema-della-teologia-della-liberazione-7330.htm
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