lunedì 9 gennaio 2023

Anteprima. Quando e come Francesco ha disfatto la pace liturgica creata da Benedetto






Settimo Cielo

09 gen 2023

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No, che papa Francesco abbia “spezzato il cuore” di papa Benedetto con la sua messa al bando del rito antico in lingua latina proprio non è scritto da nessuna parte, con queste precise parole, nel libro “Nient’altro che la verità” in cui Georg Gänswein racconta la sua vita al fianco del papa defunto, d’imminente uscita in più lingue, in Italia per i tipi di Piemme-Mondadori.

Ma nelle quattro pagine che nel libro descrivono che cosa accadde in quell’occasione c’è tutta l’amarezza che Benedetto provò il 16 luglio del 2021, quando “scoprì, sfogliando ‘L’Osservatore Romano’ di quel pomeriggio, che papa Francesco aveva reso noto il motu proprio ‘Traditionis custodes’ sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970”, col quale limitava fin quasi a cancellarla la libertà di celebrare la messa in rito antico consentita nel 2007 dal suo predecessore col motu proprio “Summorum pontificum”.

Benedetto “lesse con attenzione il documento” e “quando gli chiesi un parere” – racconta Gänswein – disse di aver riscontrato “un deciso cambio di rotta e lo ritenne un errore, poiché metteva a rischio il tentativo di pacificazione che era stato compiuto quattordici anni prima”.

Il papa emerito “in particolare ritenne sbagliato proibire la celebrazione della messa in rito antico nelle chiese parrocchiali, in quanto è sempre pericoloso mettere un gruppo di fedeli in un angolo, così da farli sentire perseguitati e da ispirare in loro la sensazione di dover salvaguardare a ogni costo la propria identità di fronte al ‘nemico’”.

E non finì lì, anzi. “Dopo un paio di mesi, leggendo quanto papa Francesco aveva detto il 12 settembre 2021 durante la conversazione con i gesuiti slovacchi a Bratislava, il papa emerito corrugò la fronte dinanzi a una sua affermazione: ‘Adesso spero che con la decisione di fermare l’automatismo del rito antico si possa tornare alle vere intenzioni di Benedetto XVI e di Giovanni Paolo II. La mia decisione è il frutto di una consultazione con tutti i vescovi del mondo fatta l’anno scorso’”.

“E ancor minore apprezzamento – prosegue Gänswein – riscosse in lui l’aneddoto raccontato subito dopo dal pontefice”. Un aneddoto così trascritto da “La Civiltà Cattolica”, su cui era pubblicata l’intera conversazione di Francesco con i gesuiti della Slovacchia:

“Un cardinale mi ha detto che sono andati da lui due preti appena ordinati chiedendo di studiare il latino per celebrare bene. Lui, che ha senso dello humour, ha risposto: ‘Ma in diocesi ci sono tanti ispanici! Studiate lo spagnolo per poter predicare. Poi, quando avete studiato lo spagnolo, tornate da me e vi dirò quanti vietnamiti ci sono in diocesi, e vi chiederò di studiare il vietnamita. Poi, quando avrete imparato il vietnamita, vi darò il permesso di studiare anche il latino’. Così li ha fatti ‘atterrare’, li ha fatti tornare sulla terra”.

A Joseph Ratzinger “apparve incongruo” – scrive ancora Gänswein – soprattutto “quel riferimento alle sue ‘vere intenzioni’”, a cui Francesco aveva detto di voler andare incontro, quando in realtà il motu proprio “Traditionis custodes” era proprio all’opposto della volontà di Benedetto – così riassunta nel suo libro-intervista del 2010 ”Luce del mondo” – di “rendere più facilmente accessibile la forma antica soprattutto per preservare il profondo e ininterrotto legame che sussiste nella storia della Chiesa”. Questo perché “in una comunità nella quale la preghiera e l’Eucaristia sono le cose più importanti, non può considerarsi del tutto errata quella che prima era ritenuta la cosa più sacra. Si è trattato della riconciliazione con il proprio passato, della continuità interna della fede e della preghiera nella Chiesa”.

In più, dopo aver letto che papa Francesco rivendicava la sua decisione come “il frutto di una consultazione con tutti i vescovi del mondo fatta l’anno scorso”, a Benedetto “restò misterioso il motivo per cui non vennero divulgati i risultati della consultazione”. Tanto più che lui, da papa, dopo la pubblicazione nel 2007 della “Summorum pontificum”, “aveva chiesto regolarmente ai vescovi, in occasione delle visite ‘ad limina’, come procedesse l’applicazione di quella normativa nella loro diocesi, ricavandone sempre una sensazione positiva”.

Fin qui ciò che riferisce di questa vicenda il racconto di Gänswein. Ma va anche ricordato che nel 2009, due anni dopo la pubblicazione del motu proprio “Summorum pontificum”, Benedetto XVI attraversò uno dei momenti più tempestosi del suo pontificato, quando tentò di sanare lo scisma con la lefebvriana Fraternità San Pio X anche grazie alla pace liturgica tra i due riti antico e nuovo, con tanto di revoca della scomunica ai quattro vescovi della Fraternità.

La scomunica in effetti fu revocata, Quando però uscì la notizia – del tutto ignota in precedenza al papa – che uno dei quattro vescovi aveva rilasciato dichiarazioni pesantemente antisemite, fino a negare l’Olocausto, la pacificazione fallì e un’ondata universale di accuse si rovesciò su Benedetto XVI, il quale addossò su di sé la colpa, ma nello stesso tempo riaffermò le ragioni del suo operato, in una toccante lettera ai vescovi di tutto il mondo.

Ma appunto, quali erano le sue ragioni? Erano decisamente di sostanza, anzi, erano il suo “metodo”, sostiene il professor Pietro De Marco, nell’analisi pubblicata qui di seguito, ripresa da una raccolta inedita dei suoi scritti sul pontificato di Benedetto XVI.

De Marco è affermato studioso della vita della Chiesa, già docente di sociologia della religione all’Università di Firenze e alla Facoltà teologica dell’Italia Centrale. Questo suo scritto è del 2009, di poco successivo alla vicenda analizzata.

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IL METODO DI BENEDETTO



di Pietro De Marco

Niente di più ottuso del giudizio ritornante che addita nella lezione di Ratisbona di Benedetto XVI nel 2006 il primo di una serie di suoi incidenti da colpevole imprudenza – in quel caso nei confronti del mondo islamico –, l’ultimo dei quali sarebbe ravvisabile nella remissione della scomunica ai vescovi della Fraternità di San Pio X.

Osservavo, già allora, come vi fosse un tratto inconfondibile nella importante lezione di Benedetto XVI nell’aula magna dell’Università di Ratisbona: la decisione di non evitare la “pars critica” entro un disegno dialogico.

Che la denuncia e la sanzione dell’eccesso dovessero essere intesi come leale, fattiva, premessa alla volontà di incontro è risultato dagli atti successivi di Benedetto. Poiché la storia cattolica precedente il Concilio Vaticano II è il vitale orizzonte dello “spirito” del Concilio stesso e della sua realizzazione, gli atti di pace iniziano necessariamente da quelle aree di sofferente ortodossia tradizionalista, anche se troppo esibita, che si richiamano alla storia preconciliare. Solo un uso politico del Concilio, non la sua dottrina, ha declassato sotto il pretesto della “rottura” conciliare, e respinto ai margini della vita cattolica, i secoli di vitale, autentica Tradizione cui i tradizionalisti cattolici si richiamano.

Dico subito che, come la sollecitudine per l’integrità della storia liturgica, anche il gesto di apertura alla Fraternità di San Pio X è stato finalizzato, in Benedetto, a ricondurre la vita cattolica alla sua essenziale natura di “complexio”. La riabilitazione di stili, sensibilità e forme della storia cristiana intende agire come paradigma stabilizzatore delle derive centrifughe, della frammentazioni soggettivistiche, che operano non solo nelle sperimentazioni avanzate, ma anche nella pastorale corrente.

La stabilizzazione esige, però, che quello che ho chiamato “uso politico” del Concilio divenga consapevole del proprio eccesso squilibrante, della propria parzialità; e ne tragga conseguenze autocritiche. Così l’obiettivo della riconciliazione interna nel seno della Chiesa diviene parte di un più ampio intervento medicinale per la Chiesa universale.

Già le stesse reazioni negative al motu proprio “Summorum pontificum” del 2007 che autorizzava la celebrazione della messa in rito antico confermavano l’urgenza dell’azione medicinale di papa Benedetto. Nelle sue pazienti pagine di chiarimento degli intenti del “Summorum pontificum” egli affermava che il rito antico non è un altro rito, che la sua presenza nel popolo cristiano è memoria costruttiva, e la sua celebrazione legittima e opportuna. La ricchezza longitudinale, storico-tradizionale della “complexio” cattolica è, dunque, il dato primario cui attingere; e così deve intendersi di conseguenza la “moderatio sacrae liturgiae” affidata a ogni vescovo.

L’azione del pontefice si confermava, dunque, rivolta contro una lettura ideologica e sostanzialmente “rivoluzionaria” del Concilio, che era data da élite teologiche e pastoralistiche cattoliche ed era lentamente penetrata nei laicati parrocchiali. Slittamenti che hanno una preoccupante rilevanza “de fide”. Si trattava sempre, per Benedetto XVI, di assumere il rischio di indicare “opportune et importune” l’eccesso, quando dottrine e condotte oltrepassassero soglie estreme di tollerabilità.

Da ciò sono sorti più volte, nel pontificato di Benedetto, degli “scandali” previsti e non previsti, ma opportuni nel disegno di Dio. Che si trattasse dell’intenso confronto con l’Islam, o della dedizione al dialogo con gli ebrei, o della cura per l’unità della Chiesa nell’unità della tradizione vivente, i contingenti “scandali” e il loro sofferto superamento portavano a prendere coscienza, nelle parti in causa, proprio delle soglie critiche che il cammino di Pietro, e la sollecitudine di Roma, si trovano ad attraversare.

Questo cammino di Pietro è a vantaggio di tutti. Vana e un po’ indecente, rispetto al movimento profondo del pontificato, è stata quella “ostilità pronta all’attacco” che papa Benedetto ha denunciato nella sua lettera ai vescovi del 10 marzo 2009, quel gusto di inimicizia e piacere di aggredire la sede di Pietro che attende solo l’occasione per manifestarsi senza responsabilità e, davvero, senza intelligenza.

Il percorso di reintegrazione dei vescovi della Fraternità di San Pio X nella comunione ecclesiale costituiva, alla luce di quanto detto, un ulteriore profondo e coraggioso atto sovrano, complementare al “Summorum pontificum”.

La speranza che mi parve allora di cogliere nella decisione di Benedetto XVI era quella di essere, di persona e costantemente, la prova della essenziale presenza della Tradizione tra noi, presenza che valga da medicina al contemporaneo disorientamento, pastorale e dottrinale, delle comunità cristiane. E non vi era dubbio che procedere in questa direzione fosse importante e urgente. Di più urgente, diceva la lettera, di prioritario, per il successore di Pietro vi era il “confirma fratres tuos” (Lc 22, 32), che ha un contenuto sovrano: “aprire agli uomini l’accesso a Dio, non a un qualsiasi dio, ma quel Dio che ha parlato sul Sinai, a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto fino alla fine in Gesù Cristo crocifisso e risorto”.

Basti pensare che la non accettazione del magistero del Concilio o la più contingente disapprovazione degli atti ecumenici di Benedetto XVI, da parte dei membri della Fraternità di San Pio X, sono almeno simmetriche per gravità, sulla sponda opposta, alle interpretazioni del Concilio come rottura e nuovo inizio, eversive della tradizione dei Concili antichi.

Colpiscono, non positivamente, i modi della reazione di alcuni episcopati alla revoca della scomunica ai vescovi delle Fraternità di San Pio X. Di fronte a quali loro indiscutibili ricchezze certi episcopati pensano che si possa lasciare andare alla deriva il patrimonio di fervore, carismi e probabilmente santità, “quell’amore per Cristo e volontà di annunciare Lui, e con Lui il Dio vivente”, racchiuso negli uomini e nelle donne della Fraternità? Si deve dire con franchezza che alcune gerarchie nazionali meglio farebbero ad analizzare le proprie presenti incapacità: la loro tolleranza, o impotenza, verso teologie devianti e programmatici abusi disciplinari e liturgici, come verso la permeabilità di cleri e laicati qualificati a ideologie e politiche secolarizzanti.

È forse la difficoltà, la dolorosità, di questa analisi per molte élite cattoliche mondiali che le spinge – con un meccanismo tipico dell’intelligencija di ogni epoca – a isolare la Fraternità come “un gruppo al quale non riservare alcuna tolleranza, contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio” (così nella lettera di Benedetto). Un capro espiatorio fatto tabù, che non può essere avvicinato neppure dal papa senza divenire immondo agli occhi di quella stessa intelligencija.

La domanda provocatoria, elevata dai critici contro Joseph Ratzinger: “Ci dica il papa se dobbiamo ancora seguire il Concilio o ritornare alla Chiesa del passato” è in sostanza una conferma di questa riduzione a tabù del preconcilio e dei suoi difensori. Ma che i “segni preferenziali per la selezione della vittima” siano il catechismo di Pio X o la messa tridentina, indica quanta falsa scienza sottende la violenza e il disprezzo di cui sono stati fatti oggetto i membri della Fraternità.

Cito un altro passo decisivo della lettera di Benedetto XVI ai vescovi: “Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962: ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio, deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive”.

Si è subito provveduto, in Italia, a dare benevolmente dei contenuti innocui e riduttivi alla sollecitudine per questa fede professata nei secoli e che è per Benedetto la priorità suprema della Chiesa e del successore di Pietro: “condurre gli uomini verso il Dio che parla nella Bibbia”. Tale sollecitudine dovrebbe promuovere, si è scritto, non “inimicizia verso l’umanità di oggi, ma il desiderio di impegnarsi giorno dopo giorno per migliorare la convivenza civile, combattere l’idolatria sempre rinascente, frenare il decadimento nella barbarie, favorire pace e giustizia”.





Fonte 



Ma non si vede a che serva “l’intera storia dottrinale della Chiesa” se si finisce col risolvere così l’assiduità con la Parola di Dio e l’originalità cristiana: in istanze di ordinaria moralità pubblica, buone a tutti gli usi, anche a contingente polemica politica. Basterebbe il residuo cristiano della religione civile di Rousseau, magari equivocata con il messaggio “traente e rivoluzionario” del Concilio.

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