domenica 27 maggio 2018

Sconfitta la vita in Irlanda






di Carlo Manetti

Il 25 maggio 2018 è veramente un giorno storico
, nel senso che verrà ricordato sui libri di storia: è la sconfitta della vita e della natura nella sedicente cattolica Irlanda. Al momento in cui scriviamo non siamo ancora in possesso dei dati definitivi, ma, a giudicare dagli exit poll, il risultato del referendum irlandese non lascia spazio a grandi speranze: gli elettori dell’Isola di Smeraldo hanno, a larga maggioranza, cancellato l’VIII Emendamento della Costituzione, che prevedeva l’illegalità quasi assoluta dell’aborto, con l’eccezione del caso di pericolo per la vita della madre a continuare la gravidanza.

Si tratta di un’ulteriore importantissima vittoria dell’Unione Europea e di tutte le forze tese alla disgregazione della vita secondo natura. Questo successo segna un alto grande avanzamento sulla strada della scristianizzazione dell’Irlanda.

L’identità nazionale irlandese si è sempre incentrata sulla Fede cattolica, anche, ma non solo in contrapposizione alla dominazione inglese, che, a sua volta, ha sempre portato in sé i caratteri anticattolici della cosiddetta Riforma protestante; questa contrapposizione è apparsa in tutta la sua drammaticità nella guerra di indipendenza (1919-1921) e nella guerra civile, che ha, con intensità a tratti maggiore ed a tratti minore, dilaniato l’Irlanda del Nord. La cattolicità ha sempre pervaso la vita degli irlandesi e ne è divenuta il tratto distintivo, sia in Patria che all’estero. Sarebbe riduttivo ed ingeneroso attribuire ciò unicamente allo scontro con i protestanti britannici, anche se il distacco di Londra da Roma ha avuto come conseguenza quasi immediata, a partire da Elisabetta I Tudor (1533-1603), il tentativo di distruzione dell’identità nazionale irlandese, attraverso l’installazione sistematica di coloni protestanti nell’Isola di Smeraldo, iniziando dalle regioni settentrionali; operazione che ha raggiunto il suo apice sotto Oliver Cromwell (1599-1658), con la creazione di una maggioranza protestante nelle sei contee settentrionali dell’isola, che avrebbero costituito (1921) l’Irlanda del Nord.

In epoca contemporanea, l’elemento nazionale e l’elemento religioso hanno trovato tra gli irlandesi una simbiosi ed un’unità fortissime. Anche i partiti politici più progressisti, come lo stesso Sinn Féin[1], non si sono mai distaccati da questa tradizione; dire irlandese e dire cattolico era quasi la stessa cosa. Questa identificazione non poteva, però, non suscitare la fortissima reazione del potere sinarchico europeo. Negli ultimi trent’anni, è stato un crescendo: il tentativo di eliminare l’anima irlandese attraverso una serie mirata di riforme legislative, che avrebbero, a loro volta, portato ad un mutamento del costume sociale, che, distruggendo, presso strati sempre più vasti della popolazione, la morale e la Fede cattolica, avrebbe eliminato anche la stessa identità nazionale dei figli di San Patrizio (385-461).

Il primo colpo fu l’introduzione del divorzio (17 giugno 1996), a seguito del referendum del 24 novembre 1995. Questa norma caratterizza in modo emblematico la legislazione e la società liberali ed anticattoliche: ogni rivoluzione, anche se sarebbe più corretto parlare di ogni manifestazione della Rivoluzione, contraria per definizione alla vera Fede, vede nella legalizzazione dello scioglimento del matrimonio il primo gradino della scala su cui si fonda il sovvertimento etico-sociale della civiltà cristiana. L’Inghilterra protestante nasce proprio in virtù e nel nome del divorzio; i rivoluzionari francesi impegnano tutta la vita dell’Assemblea nazionale per giungere a questo obiettivo, che, non per nulla, è l’ultimo atto (20 settembre 1792) di tale organismo, il giorno stesso in cui si scioglieva per lasciare il posto alla Convenzione; uno degli obiettivi costanti dell’Unione Europea è l’aggressione alla famiglia e tale aggressione non può che partire da una legislazione divorzista.

Questo disegno di eversione della società cristiana e, in ultima analisi, della società naturale è condotto nella piena consapevolezza degli effetti educativi della norma di legge. Indipendentemente da tutti i deliri giuspositivisti[2], le popolazioni di tutto il mondo sono istintivamente portate a vedere nella legge dello Stato l’applicazione concreta e puntuale dell’etica e del diritto naturali, tendendo, quindi, a conformarsi ad essa non solo e non tanto in virtù dei premi a farlo e delle punizioni, di vario genere, a fare il contrario, ma con un trasporto di natura morale, nella convinzione di adempiere ad un proprio dovere etico, nei confronti della società e, in ultima analisi, anche nei confronti di se stesse. La conseguenza di ciò, ben chiara anche ai contemporanei corifei del giuspositivismo, è un adeguamento dei principi etici alle norme legali; la conseguenza, paradossale per la retta ragione, ma assolutamente ovvia per i seguaci dell’Illuminismo, è che una norma giuridica contraria all’etica ed al diritto naturali produce una corruzione della coscienza collettiva, portando vasti strati della popolazione a considerare bene il male e male il bene.

Ritornando all’Irlanda, l’introduzione del divorzio ha prodotto, più ancora che scioglimenti del vincolo matrimoniale, una crescita esponenziale delle separazioni e delle convivenze more uxorio, che erano legali anche prima di tale riforma legislativa; l’effetto della norma si è dimostrato, dunque, più etico-culturale che strettamente giuridico: gli effetti devastanti sul matrimonio, conseguenti alla riforma, sono stati esponenzialmente più gravi di quelli strettamente giuridici, vale a dire dei divorzi effettivamente pronunciati. I matrimoni falliti (somma di separazioni e divorzi) sono passati dai 40.000 del 1986 ai 250.000 del 2011, su una popolazione di 3.700.000 cittadini adulti.

Con il referendum del 22 maggio 2015, poi, l’Irlanda è, addirittura, divenuta il primo paese al mondo ad avere costituzionalizzato il cosiddetto “matrimonio” omosessuale: con tale riforma, la Carta fondamentale recita testualmente: «Il matrimonio può essere contratto per legge da due persone, senza distinzione di sesso» (sic!). Questo mutamento normativo non ha prodotto grossi effetti giuridici, nel senso che coloro che vi hanno fatto ricorso sono un’infima minoranza, come è successo negli altri Paesi che hanno adottato leggi analoghe; ma l’effetto etico-culturale prodotto è stato ancora più devastante di quello conseguito all’introduzione del divorzio. Questo “primato”, assolutamente antitetico alla più profonda anima nazionale, viene presentato ed incomincia ad essere percepito come l’orgoglio irlandese: diviene orgoglio nazionale ripudiare la propria anima!

E, infine, con la legalizzazione o, per essere più precisi, con la possibilità, per il legislatore, di legalizzare l’aborto, essendone stato abrogato il divieto costituzionalmente previsto, l’Irlanda si appresta a divenire, non appena il Parlamento avrà tratto le conseguenze dall’esito referendario, in tutto e per tutto simile, sul piano etico-culturale, a quel Regno Unito che ha sempre rappresentato l’antitesi, prima ancora che il nemico, della sua anima nazionale. L’unica differenza è il persistere di alcune tracce di lingua gaelica, anch’esse in via di estinzione.

A proibire l’aborto, in Europa, sono rimasti, in via assoluta, la Città del Vaticano (ma fino a quando?) e Malta; e ad ammetterlo solo in caso di pericolo per la vita della madre il Liechtenstein, l’Irlanda del Nord, San Marino ed il Principato di Andorra: il sogno di morte dell’Unione Europea e dei suoi entusiasti servitori incontra ancora pochi ostacoli e tra questi, purtroppo, non figura più la patria di San Patrizio.





[1] In gaelico significa «noi stessi» ed è lo storico movimento indipendentista, fondato nel 1905 da Arthur Griffith (1872-1922), storico patriota irlandese; è da sempre un partito di sinistra, di ispirazione socialista, con una fortissima caratterizzazione repubblicana.

[2] Per giuspositivismo si intende la dottrina giuridica che vede nel diritto un puro atto di volontà del legislatore, slegato da ogni riferimento alla natura ed alla morale; padre di tale concezione è considerato universalmente Hans Kelsen (1881-1973).







Nessun commento:

Posta un commento