domenica 6 maggio 2018

Il monaco e il cardinale






di Aldo Maria Valli 04-05-2018

Come ho già avuto modo di raccontare in altre occasioni, da qualche anno sono in contatto con un giovane monaco ortodosso con il quale, sia pure a distanza e in modo intermittente, mi succede di affrontare temi spirituali. È un’esperienza molto bella che il Signore ci ha donato e che non esito a definire ecumenica nel senso più pieno e più vero del termine, perché nessuno dei due cerca di nascondere le proprie peculiarità, magari per comodità o anche solo per il timore di non apparire sufficientemente cortese. Al contrario, siamo entrambi molto curiosi e cerchiamo di sviscerare le diversità, così da imparare qualcosa l’uno dell’altro e di arricchirci a vicenda.

Di recente, a proposito delle differenze tra la spiritualità cristiana dell’Occidente e dell’Oriente, il mio amico monaco ha osservato: «Ho l’impressione che lì da voi si sia persa quella sapienza e quella cultura ascetica (spesso tramandata oralmente) che invece l’Oriente è riuscito a conservare quasi intatta, ma non è un caso. Una delle differenze createsi dopo lo scisma consiste proprio nel rifiuto, da parte della Chiesa cattolica, della tradizione esicasta, presente e viva già dai tempi apostolici. E rifiuto dell’esicasmo significa rifiuto dell’unione uomo-Dio attraverso le energie increate, rifiuto della comunione tra creatura e Creatore, di gran parte dell’opera dello Spirito, e soprattutto della deificazione. Mi impressiona il fatto che per un cattolico il concetto di salvezza sia qualcosa, tutto sommato, di abbastanza vago. Lo è meno per un ortodosso. Essa è deificazione dell’uomo, chiamato a ciò per grazia, non per essenza, ma per partecipazione alla vita di Dio. Gli apostoli e i padri dei primi secoli ne parlavano chiaramente anche in Occidente. Il primo a scrivere un trattato sullo Spirito Santo è stato sant’Ireneo di Lione; ma in seguito allo scisma quasi non si trova traccia di questi temi nella teologia cattolica. E se non si capisce bene che cosa si intenda per salvezza, diventa difficile anche essere consapevoli di quale sia lo scopo dell’essere cristiano».

Pratica ascetica diffusa tra i monaci dell’Oriente cristiano fin dai tempi dei Padri del deserto nel quarto secolo, l’esicasmo ha lo scopo di cercare la pace interiore, in unione con Dio e in armonia con i fratelli e l’intero creato. La preghiera di Gesù, o preghiera del cuore («Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore»), recitata incessantemente, accompagna il monaco in ogni momento della giornata, come si narra nei Racconti di un pellegrino russo, pubblicati per la prima volta in Italia in versione parziale nel 1949 grazie all’interesse per la spiritualità russa di don Divo Barsotti.

Vorrei ribadire le ultime parole dell’amico monaco ortodosso: «Se non si capisce bene che cosa si intenda per salvezza, diventa difficile anche essere consapevoli di quale sia lo scopo dell’essere cristiano».

Credo che qui tocchiamo uno dei punti nodali all’origine della crisi di fede in Occidente e del disorientamento di tanti all’interno della Chiesa cattolica. Aver dimenticato, o comunque messo tra parentesi, la questione della salvezza, con tutto ciò che comporta (pensiamo all’emarginazione dei Novissimi nella predicazione) ha portato a una progressiva mancanza di consapevolezza circa lo scopo ultimo dell’essere cristiano. E tale mancanza di consapevolezza ha contribuito a sua volta a trasformare la fede più che altro in una forma di solidarismo e la Chiesa in un’organizzazione sociale.

Ora, con un volo pindarico (ma forse non troppo), voglio passare a una seconda affermazione. Dall’Oriente cristiano dei monaci ortodossi eccoci nella Chiesa cattolica tedesca. Punto l’attenzione su un passo del Testamento spirituale scritto dal cardinale Karl Lehmann, per anni presidente della Conferenza dei vescovi tedeschi, uno dei principali rappresentanti del progressismo cattolico, discepolo di Karl Rahner nonché anima della corrente più «aperta» dell’episcopato tedesco che si scontrò più volte con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

Morto nel marzo scorso, Lehmann scrisse il testamento nel 2009. Un testo breve, nel quale, dopo aver ringraziato Dio per i doni ricevuti, c’è una frase che suona sorprendente se si pensa alla storia di questo porporato che ha speso la sua vita di prete, vescovo e teologo per leggere i «segni dei tempi», secondo la lezione conciliare, e avvicinare la Chiesa al mondo. La frase dice così: «Noi tutti, soprattutto nel periodo dopo il 1945, ci siamo immersi e aggrappati al mondo terreno, anche nella Chiesa. Anch’io. Chiedo perdono a Dio e alle persone. Il rinnovamento deve venire dal profondo della fede, della speranza e dell’amore».

In un’altra traduzione, la frase è stata resa così: «Tutti noi, anche la Chiesa, specialmente nell’epoca successiva al 1945, ci siamo immersi nel mondo e abbiamo sepolto e occultato l’aldilà. Questo vale anche per me. Chiedo perdono a Dio e alla gente. Il rinnovamento deve venire profondamente dalla fede, dalla speranza e dalla carità».

Il succo è che qui sembra esserci un mea culpa per aver troppo pensato al mondo e poco alle cose ultime e al Regno di Dio. Tanto più che il cardinale subito dopo aggiunge: «Perciò ricordo a tutti le parole del mio motto episcopale, che derivano da san Paolo e sono diventate sempre più importanti per me: “State saldi nella fede!”». E alla fine, a conferma, dice non senza una punta d’inquietudine: «Ho sempre nelle orecchie la parole di Gesù, riportate da Luca: “Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra?”».

Ecco. Da un lato le parole di un giovane monaco ortodosso, dall’altra quelle di un vecchio vescovo cattolico vicino alla morte. Le offro a tutti perché mi sembra che propongano parecchi spunti di riflessione.

Aldo Maria Valli






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