giovedì 17 febbraio 2022

Giordano Bruno: un mito da sfatare








Articolo di Francesco Agnoli


Giordano Bruno
Processato dai protestanti, prima che dai cattolici, il filosofo-mago fu campione di doppio gioco


Quando si parla di scienza e di Chiesa il tasso minimo di ideologia presente nell’aria esige che si faccia almeno un cenno a Giordano Bruno, e alla sua esecuzione in Campo de’ Fiori, a Roma. La fama del filosofo nolano, infatti, è dovuta senz’altro al fascino della sua morte, da ribelle impenitente, più che alla sua produzione culturale, così intrisa di magia, di astrologia, di vitalismo panteistico e, per questo, in nulla moderna, né scientifica (Frances A. Yates, “Giordano Bruno e la tradizione ermetica”, Laterza). 

Una fama, dunque, ottenuta dopo la morte, ma cercata con ossessione durante tutta la vita, con una presunzione astrale, “accentuata dalle pratiche magiche cui Bruno si dedica con crescente intensità e che sviluppano in lui un senso di onnipotenza materiale e intellettuale assoluta” (Matteo D’Amico, “Giordano Bruno”, Piemme). 

Tutta la sua esistenza, infatti, è in vista di una affermazione personale, per sé e per la sua visione del mondo, contro avversari di tutti i paesi e di tutte le confessioni, che divengono via via “porci”, “pedanti”, “barbari e ignobili”. 

Il giovane Bruno è già un personaggio non comune, che ama raccontare di essere stato aggredito, a sassate, dagli spiriti, e che ha il suo primo importante scontro teologico nel 1576 con un confratello domenicano, riguardo alla dottrina di Ario, e il secondo nella capitale del calvinismo, a Ginevra. Vi giunge nel 1579, in cerca di fortuna. Ma il suo comportamento è subito ambiguo e aggressivo a un tempo: da una parte abbraccia il calvinismo, per essere accettato nei circoli culturali e religiosi della città, e dall’altra attacca violentemente un professore del luogo, dando alle stampe un libello contro di lui, e, a quanto sostiene l’accusa, mentendo platealmente. Viene processato dai membri del Concistoro, non cattolico, ma calvinista, e costretto in ginocchio a lacerare il suo opuscolo, ammettendo la propria colpa. 

Lasciata Ginevra, che dunque non lo capisce, Bruno approda a Parigi nel 1581: la sua fama di esperto nell’ars memoriae gli vale la convocazione del re Enrico III, di cui diviene in breve intimo confidente.

Dopo soli due anni Bruno finisce a Londra, presso l’ambasciatore francese Castelnau, in Salisbury Court, vicino al Tamigi. Qui, secondo le recenti indagini di John Bossy (“Giordano Bruno e il mistero dell’ambasciata”, Garzanti) svolge un lavoro di spionaggio contro l’ambasciatore francese di cui è ospite, a tutto svantaggio dei cattolici, arrivando addirittura a rivelare i segreti carpiti in confessione. Infatti, pur essendo già da tempo un feroce nemico del cattolicesimo e della Chiesa, considerati la causa della decadenza dell’Europa, Bruno si finge zelante sacerdote e celebra riti in cui non crede, nell’ambasciata francese, vantando d’altra parte la propria apostasia presso la corte di Elisabetta. 

Nel suo arrivismo giunge a svelare alla regina l’esistenza di un complotto catto-spagnolo, in realtà inesistente, contro di lei: scrive di esserne venuto a conoscenza in confessione. Nessuno gli crede.

Alla ricerca di una cattedra 

A questo punto Bruno, sempre scalpitante, vuole una cattedra a Oxford. Come ottenerla? Si offre volontario, con una umile missiva, in cui si presenta così: “Professore di una sapienza più pura e innocua, noto nelle migliori accademie europee, filosofo di gran seguito, ricevuto onorevolmente dovunque, straniero in nessun luogo, se non tra barbari e gli ignobili… domatore dell’ignoranza presuntuosa e recalcitrante… ricercato dagli onesti e dagli studiosi, il cui genio è applaudito dai più nobili…”. 

Alla terza lezione verrà accusato di plagio e invitato a togliere il disturbo; le sue invettive feroci contro i londinesi, e contro il prossimo suo in genere, gli procurano, probabilmente, un breve arresto e determinano il ritorno precipitoso a Parigi. 

Ma qui, nel frattempo, il clima politico è cambiato, e i Guisa, la nobile famiglia a capo della Lega Cattolica, ha sempre maggior potere: Bruno non esita a mettersi al suo servizio, e a chiedere di essere riaccolto “nel grembo della Chiesa catholica”. In realtà, ancora una volta, fa il doppio gioco, tessendo rapporti con i protestanti, benché nello “Spaccio della bestia trionfante” del 1584 avesse deprecato violentemente, in mille maniere, la figura di Lutero. 

Nello stesso periodo viene accusato da Fabrizio Mordente, inventore del compasso differenziale, di volergli carpire l’invenzione: Bruno infatti ne è entusiasta, ma come già per Copernico, ritiene che ai disprezzati matematici sfugga il valore magico ed ermetico delle loro scoperte, che lui solo, invece, ha la capacità di comprendere! 


Calvino, Lutero e la magia. Le armi del filosofo-mago nel suo scontro con la Chiesa

Scomunicato dalla Chiesa cattolica e dai calvinisti di Ginevra, cacciato da Oxford e da Londra, Giordano Bruno, nel 1586, dopo l’ennesima disputa finita in rissa, deve abbandonare anche Parigi, perché neppure il vecchio amico Enrico III è più intenzionato ad accoglierlo. 

La destinazione, questa volta, è la Germania, e in particolare la città protestante di Marburgo. Ancora una volta il filosofo di Nola ottiene, dietro pressanti richieste, una cattedra universitaria, ma, detto fatto, entra in conflitto col rettore, Petrus Nigidius, che lo aveva assunto e che ora lo licenzia. 

Con la grinta di sempre Bruno riparte, per approdare a Wittenberg, città simbolo del luteranesimo, dove, tanto per cambiare, ottiene il diritto di tenere corsi universitari. E’ qui che Bruno cambia ancora casacca: in occasione del discorso di addio, dopo soli due anni di permanenza, polemiche, e tanti nemici, l’8 marzo 1588 tiene davanti ai professori e agli alunni dell’università un elogio smaccato della figura di Lutero, contrapposta a quella del papa, presentato, secondo le migliori tradizioni del luogo, come un vero anticristo. “Come ha usato Calvino contro la Chiesa, così adesso usa Lutero: il cattolicesimo emerge come il vero grande nemico” (Matteo D’Amico, “Giordano Bruno”, Piemme). 

Chiaramente il gioco può riuscire sperando che a Wittenberg non si conosca il libello bruniano di soli quattro anni prima, e cioè lo “Spaccio”. In esso infatti Bruno auspicava che Lutero e i suoi seguaci fossero “sterminati ed eliminati dalla faccia della terra come locuste, zizzanie, serpenti velenosi”, essendo causa di guerre, disordini e discordie senza fine. Inoltre, tanto per toccare con mano la “scientificità” del personaggio, Bruno spiegava la metempsicosi, affermando che coloro i quali abbiano “viso, volto, voci, gesti, affetti ed inclinazioni, altri cavallini, altri porcini, asinini, aquilini (…), sono stati o sono per essere porci, cavalli, asini, aquile, o altro che mostrano”! 

Lasciata Wittenberg, Giordano Bruno approda a Praga, la città dell’imperatore Rodolfo II, che ne sta facendo una centrale di maghi, alchimisti e occultisti da tutta Europa. Rodolfo è un tipo bizzarro, preda, spesso di allucinazioni e di crisi depressive. Ancora una volta Bruno cerca il potere, aspira a coniugare le arti magiche, di cui si ritiene in possesso, con alleanze potenti e concrete. C’è ormai in lui il desiderio di non rimanere un teorico, ma di passare all’azione, di essere ispiratore di un rinnovamento del mondo, di una palingenesi, che i segni dei tempi gli dicono vicina, e che lui vuole guidare, con compiti e ruoli non secondari. 

Ma, vuoi per il suo caratteraccio, vuoi perché le vantate arti magiche in suo possesso non danno i frutti sperati e promessi, anche Praga viene presto abbandonata per la città protestante di Helmstadt, nel 1589. Brigando a suo modo, Bruno ottiene di poter insegnare nell’università locale, e per l’ennesima volta, pur fingendosi protestante e scagliandosi contro la Chiesa cattolica, suo bersaglio preferito, viene in breve scomunicato dal pastore della locale chiesa luterana! Ciò nonostante neppure in questa occasione gli viene a mancare quella disponibilità di denari “che gli permette di fare lunghi viaggi, di affittare appartamenti, di tenere a suo servizio, regolarmente, segretari diversi, di pubblicare opere voluminose, di vivere infine per lunghi periodi senza alcun lavoro fisso”: denari, ipotizza il D’Amico, che potrebbero giungere da quell’attività così redditizia di informatore segreto che aveva appreso a Londra. 


Le formule per assoggettare Gregorio XIV 

Nel 1590 Bruno è a Francoforte, senza grande entusiasmo dei suoi allievi, che non riescono a comprendere quanto la miracolosa mnemotecnica bruniana sia da lui mal insegnata e quanto essa sia invece mal conosciuta. Dopo Francoforte, Zurigo, Padova e, infine, nel 1591, Venezia. Nella città veneta è accolto con curiosità da una cerchia di nobili da salotto, e in particolare da Giovanni Mocenigo, che è disposto a ospitarlo e nutrirlo in cambio dei suoi “segreti”. 

Ma Giordano Bruno non è certo incline a fare il precettore privato: il suo desiderio sembra essere quello di usare le sue conoscenze magiche, espresse nei testi “De magia” e “De Vinculis”, per assoggettare nientemeno che il pontefice Gregorio XIV ai suoi disegni di riforma religiosa e politica universale! Ritiene infatti di saper controllare e dominare le forze demoniche presenti nella natura e di poter soggiogare il prossimo con messaggi subliminali, formule magiche non percepibili dagli incantati: “Ritmi e canti che racchiudono efficacia grandissima, vincoli magici che si realizzano con un sussurro segreto…” (“De Vinculis”). 



L’epilogo del processo, la dignità della morte dopo una vita di intrighi e magie


Giordano Bruno concepisce a Venezia il folle disegno di “portare cambiamenti (politici) significativi, quantomeno nello scacchiere italiano”. A tal fine progetta di rientrare nella Chiesa, di recarsi a Roma dal pontefice Clemente VIII, per dedicargli un’opera, e, come si diceva, probabilmente, per riuscire a condizionarlo tramite le arti magiche. Non c’è grande nobiltà nei mezzucci con cui, contraddicendo patentemente il suo credo, persegue i propri fini. Ma nello stesso 1591 viene denunciato al Santo Uffizio dal suo stesso ospite: al Mocenigo è bastato un attimo per rimanere deluso dagli insegnamenti di Bruno, e scandalizzato dalle sue bestemmie. 

Dopo i sogni di potenza, il filosofo nolano precipita sul banco degli imputati, ma è già abituato ai processi, alle abiure, alle fughe, e forse pensa, in cuor suo, di farla nuovamente franca. La sua tattica difensiva consiste nell’ammettere alcune accuse, nell’attenuarne altre, e nel negare, infine, le più infamanti. Negare tutto sarebbe troppo sciocco, vista la possibilità per il tribunale di venire in possesso dei suoi scritti, e di indagare sul suo passato. Lo scopo è quello di “apparire persona rispettosa della autorità della Chiesa e della sua dottrina, anche se momentaneamente posto al di fuori di essa” (D’Amico). Arriva così a rinnegare alcune sue opere, e a presentare i suoi passati riavvicinamenti alla Chiesa, compiuti sempre e solo per convenienza politica, come testimonianza della sua sostanziale “ortodossia”. 

Il filosofo degli “eroici furori”, in realtà, non ha nulla di eroico: “tutti li errori che io ho commesso… et tutte le heresie… hora io le detesto et abhorrisco…”. Come già coi calvinisti di Ginevra, il ribelle, la spia, l’arrivista in cerca di poltrone universitarie, dopo aver attaccato e inveito, si inginocchia e abiura, con pari teatralità e finta compunzione. Ma Roma sospetta, e nel febbraio 1593 avoca a sé il processo, che durerà otto lunghi anni. Il tribunale inquisitoriale non emette condanne frettolose, ma procede con precisione e scrupolo, convocando testimoni, compulsando le opere, rispettando tutte le procedure, invitando ripetutamente ad abiurare. Bruno si dichiara disposto in più occasioni a cedere: la condanna, e l’affido al braccio secolare, arrivano dopo varie promesse di abiura, e altrettanti ripensamenti.


Il memoriale mandato in extremis al Papa

Nel giorno della condanna giunge al Papa un memoriale di Bruno: perché, se aveva già deciso di affrontare la morte? Probabilmente il memoriale, che non conosciamo, conteneva l’ennesima disponibilità all’abiura: forse Bruno credeva di poter ancora dire e disdire, senza conseguenze. A cosa si deve, allora, questa improvvisa accelerazione del processo? Secondo la Yates, a un evento contemporaneo: l’arresto di un altro domenicano ribelle, Tommaso Campanella. 

Non bisogna infatti dimenticare l’epoca in cui ci troviamo: la Riforma ha portato alla ribalta prima Lutero, con le conseguenti guerre dei cavalieri e dei contadini, e le relative mattanze, e poi millenaristi come Matthison di Haarlem, un capo anabattista che si sentiva “incaricato della esecuzione del castigo divino contro gli empi, e mirava semplicemente al massacro universale”, o il “profeta Hofmann” di Strasburgo, “il quale andava dicendo di voler fondare la Nuova Gerusalemme” e si accingeva a preparare la mobilitazione “dei cavalieri della strage che con Elia e Enoch appariranno impugnando la spada e vomitando fiamme per sterminare i nemici del Signore”.

Campanella è filosoficamente molto vicino a Bruno. Anch’egli ritiene che stia giungendo l’ora dei “grandi mutamenti, l’avvento dell’età dell’oro”. Organizza così una congiura, in meridione, cercando l’alleanza dei Turchi, e in particolare di feroci pirati come Bassàn Cicala, per realizzare uno Stato magico, dittatoriale, di impostazione comunista. La congiura viene sventata nel 1599 (Francesco Forlenza, “La congiura antispagnola di Tommaso Campanella”, Temi). 

Tale nuova minaccia, religiosa e politica insieme, accelera forse la condanna di Bruno, che morirà, alla fine, con dignità. Ma dopo essere stato scacciato da almeno dieci città diverse, condannato da cattolici, calvinisti, protestanti e professori universitari; dopo essere stato spia, aver violato il segreto confessionale, aver ripudiato se stesso, per convenienza, innumerevoli volte, e, infine, dopo aver cercato, attraverso la magia e l’intrigo, di rovesciare l’ordine politico, non solo quello religioso, del suo tempo. 

Spacciarlo per un puro, un eroe coerente sino alla fine, uno scienziato moderno (titolo che lui stesso non avrebbe affatto desiderato), come cercano di fare Nuccio Ordine e Giulio Giorello sul Corriere della Sera, è mera e ideologica falsificazione storica (condita con abbondanti dosi di retorica).  


Francesco Agnoli risponde alle critiche e insiste: Bruno era un mezzo mago

I miei tre brevi articoli su Giordano Bruno hanno scatenato le ire di Giulio Giorello e di Nuccio Ordine, sul Corriere della Sera del 30 agosto e del 1° settembre 2019. Il Giorello, per la verità, si è limitato alle invettive contro i cattolici in genere, di ogni secolo e luogo, per poi riferirsi alle mie osservazioni, definendole assai astrattamente “pettegolezzi da filosofia vista dal buco della serratura”. Poiché l’argomento mi sembra immaginifico, ma deboluccio e sbrigativo, mi permetto di saltarlo a piè pari, per considerare invece le argomentazioni del professor Nuccio Ordine. Costui, forse ritenendo di essere l’unico in Italia ad aver proseguito gli studi oltre le elementari, si è anzitutto offeso del fatto che qualcuno abbia parlato di Giordano Bruno, senza il suo permesso: per lui è automatico che io non abbia letto le opere del filosofo, ma solo “due o tre cattivi libri”, forse degni di censura ecclesiastica nucciana (per quanto scritti da insigni studiosi, di cui, almeno la Yates, assai celebre a livello internazionale). Non interessa nulla che io abbia citato negli articoli in questione, seppur brevemente per mancanza di spazio, opere scottanti e inequivocabili di Bruno come il “De Magia”, il “De Vinculis” e “Lo Spaccio”. Ma la cosa più interessante è che il professor Ordine non contesta seriamente una sola delle mie affermazioni storiche. 

Rimane vero dunque che Bruno fu accusato di plagio a Oxford, scomunicato dai calvinisti e più volte dai protestanti; che abiurò in parecchie occasioni, rinnegando alcune sue opere, che si considerava il più grande sapiente esistente al mondo, che dovette scappare di città in città, non per sua scelta, ma perché sempre e dovunque indesiderato e mal sopportato (da Ginevra, da Parigi, da Oxford, Marburgo, Wittemberg, Helmstadt, Francoforte…). Sembra appurato, inoltre, che indossò e dismise l’abito domenicano più volte, allontanandosi dalla Chiesa, per poi riavvicinarsi, in qualche maniera, in più occasioni… Solo, secondo Ordine, non lo avrebbe fatto con opportunismo, ma con grande coraggio e rigore morale: un “libero pensatore”, libero di vagare nel mare delle idee cangianti… 

Nell’articolo del 30 agosto, per la verità, si mette anche in dubbio la tesi del Bossy, da me riportata come attendibile, non come certa, sull’opera di Bruno come spia in quel di Londra. Niente di sostanziale, insomma. Il 1° settembre, invece, il professor Ordine fa le pulci al libro di Anna Foa, in maniera un po’ accademica, sistemando più che altro alcune date. Al sottoscritto, forse perché indegno, sono riservate solo battutine, ma neppure una sola confutazione circostanziata: si parla di “crociata di Francesco Agnoli” che “propina invettive ai lettori del Foglio”. Un po’ di parole, insomma, che dovrebbero da sole, col loro suono e la loro evocatività, screditare l’idiota. Mi spiace: penso si potrebbe discutere in altro modo, con altro rispetto, almeno per i fatti, e con altro amore per la verità e l’educazione (come invece è accaduto col senatore Contestabile, sul Foglio). 

Mi permetto però di tornare su Bruno, per ribadire non solo che non fu un eroe puro, coerente e senza macchia, come già detto, ma soprattutto che non fu assolutamente uno scienziato moderno: su questo mi trovo in accordo con personaggi come Giovanni Reale, Dario Antiseri, Paolo Rossi, Cecilia Gatto Trocchi, A. Koyrè e molti altri. Proprio il Koyrè infatti, nel suo celebre “Dal mondo chiuso all’infinito universo”, afferma: “La concezione bruniana del mondo è vitalistica e magica: i suoi pianeti sono esseri animati in libero movimento attraverso lo spazio secondo una reciproca intesa come quelli di Platone o del Patrizi. Bruno non è assolutamente un pensatore moderno”. Il concetto è semplicissimo: per Bruno “natura est deus in rebus”, o, con altre parole, “Iddio tutto è in tutte le cose”, come avevano ben capito gli egizi, che adoravano il sole, la luna, ma anche i coccodrilli, le lucertole, i serpenti e le cipolle… (“Lo Spaccio”). 

Da una simile concezione, antica quanto la magia e l’animismo, nuova in nulla, scientifica ancor meno, scaturisce l’antichissima idea, presente anche nel “Timeo” platonico, dei pianeti e degli astri non come entità materiali, regolate e mosse secondo leggi fisiche, ma come “dei visibili”, “grandi animali”, “dei figli di dei”. Così la teoria di Copernico, “aurora” che ha aperto la strada a lui stesso, “sole de l’antiqua vera filosofia” (“Cena delle ceneri”), interessa al Nolano, unico a suo dire ad averla veramente compresa, solo perché gli permette di scorgere, nella Terra che si muove, un principio vitale, un'”anima propria” mossa da una vita divina, in perfetta coerenza con le dottrine astrologiche.


Va indietro rispetto a Copernico

Cosa vi è di scientifico, di moderno, nel credere a stelle e a pianeti animati e divini, capaci di conseguenza, evidentemente, di agire sull’arbitrio umano? Esattamente nulla. Bruno non avanza, ma retrocede terribilmente. Retrocede rispetto a Copernico, che aveva parlato di “macchina del mondo”, per eliminare, come scrive il Koyrè nell’introduzione al “De revolutione orbium caelestium” (Einaudi), l'”astro-biologia degli antichi”. Retrocede anche rispetto alla scuola francescana di Oxford, che secoli prima aveva iniziato a proporre, con Giovanni Buridano, l’innovativa dottrina dell'impetus, come possibile spiegazione della meccanica dei corpi celesti. Buridano, infatti, confutando l’insegnamento aristotelico e arabo al riguardo, aveva sostenuto che l’ininterrotto movimento delle sfere celesti non era dovuto a delle anime, e neppure alle intelligenze motrici, bensì a una forza, un’impetus iniziale, il cui permanente effetto era permesso dalla mancanza di resistenza del mezzo. Si era in qualche modo già vicini all’idea di forza fisica, di forza d’inerzia, capace di muovere i pianeti: per questo il Duhem riconduce “alla teorizzazione buridaniana dell’impetus la data d’inizio della scienza moderna, perché comportò l’abbandono della credenza nella natura divina delle potenze motrici dei cieli” (inutili, se esiste un Dio creatore).

Analogamente lo Jammer, sempre a proposito dell’origine della scienza moderna, sottolinea l’importanza di Buridano, come “uno dei primi a ribellarsi alla concezione neoplatonica delle forze intese come enti divini” (mentre Newton sarebbe “colui che diede il colpo di grazia alla teoria delle forze astrologiche”; introduzione a Giovanni Buridano, “Il cielo e il mondo”, Rusconi). Anche le ricerche di Keplero si sarebbero mosse nella stessa direzione, per rinnegare l’idea di un modo animato, magico, “grande animale”, caratterizzato da pianeti divini: tutte teorie, ripeto, proprie del modo pagano e della magia rinascimentale, incompatibili con un approccio scientifico e matematico. Nel 1605, confutando implicitamente Bruno, morto da soli cinque anni, Keplero scriverà a Herwart von Hohenberg: “Sono molto occupato nello studio delle cause fisiche. Il mio scopo è dimostrare che la macchina celeste può essere paragonata non ad un organismo divino ma piuttosto ad un meccanismo d’orologeria… in quanto quasi tutti i suoi molteplici movimenti si compiono grazie a una sola forza magnetica, molto semplice, come nell’orologio tutti i moti (sono causati) da un semplice peso. Inoltre io dimostro come questa concezione fisica vada presentata per mezzo del calcolo e della geometria”. “Macchina”, “meccanismo”, non “organismo divino” né “grande animale”: quanto dista, da questo modo scientifico di vedere l’universo materiale, il vitalismo pampsichista e magico di Bruno? 

Francesco Agnoli



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Articoli di Francesco Agnoli
Published on 17 maggio 2019 by admin

Giordano Bruno
Processato dai protestanti, prima che dai cattolici, il filosofo-mago fu campione di doppio gioco

Quando si parla di scienza e di Chiesa il tasso minimo di ideologia presente nell’aria esige che si faccia almeno un cenno a Giordano Bruno, e alla sua esecuzione in Campo de’ Fiori, a Roma. La fama del filosofo nolano, infatti, è dovuta senz’altro al fascino della sua morte, da ribelle impenitente, più che alla sua produzione culturale, così intrisa di magia, di astrologia, di vitalismo panteistico e, per questo, in nulla moderna, né scientifica (Frances A. Yates, “Giordano Bruno e la tradizione ermetica”, Laterza). Una fama, dunque, ottenuta dopo la morte, ma cercata con ossessione durante tutta la vita, con una presunzione astrale, “accentuata dalle pratiche magiche cui Bruno si dedica con crescente intensità e che sviluppano in lui un senso di onnipotenza materiale e intellettuale assoluta” (Matteo D’Amico, “Giordano Bruno”, Piemme). Tutta la sua esistenza, infatti, è in vista di una affermazione personale, per sé e per la sua visione del mondo, contro avversari di tutti i paesi e di tutte le confessioni, che divengono via via “porci”, “pedanti”, “barbari e ignobili”. Il giovane Bruno è già un personaggio non comune, che ama raccontare di essere stato aggredito, a sassate, dagli spiriti, e che ha il suo primo importante scontro teologico nel 1576 con un confratello domenicano, riguardo alla dottrina di Ario, e il secondo nella capitale del calvinismo, a Ginevra. Vi giunge nel 1579, in cerca di fortuna. Ma il suo comportamento è subito ambiguo e aggressivo a un tempo: da una parte abbraccia il calvinismo, per essere accettato nei circoli culturali e religiosi della città, e dall’altra attacca violentemente un professore del luogo, dando alle stampe un libello contro di lui, e, a quanto sostiene l’accusa, mentendo platealmente. Viene processato dai membri del Concistoro, non cattolico, ma calvinista, e costretto in ginocchio a lacerare il suo opuscolo, ammettendo la propria colpa. Lasciata Ginevra, che dunque non lo capisce, Bruno approda a Parigi nel 1581: la sua fama di esperto nell’ars memoriae gli vale la convocazione del re Enrico III, di cui diviene in breve intimo confidente. Dopo soli due anni Bruno finisce a Londra, presso l’ambasciatore francese Castelnau, in Salisbury Court, vicino al Tamigi. Qui, secondo le recenti indagini di John Bossy (“Giordano Bruno e il mistero dell’ambasciata”, Garzanti) svolge un lavoro di spionaggio contro l’ambasciatore francese di cui è ospite, a tutto svantaggio dei cattolici, arrivando addirittura a rivelare i segreti carpiti in confessione. Infatti, pur essendo già da tempo un feroce nemico del cattolicesimo e della Chiesa, considerati la causa della decadenza dell’Europa, Bruno si finge zelante sacerdote e celebra riti in cui non crede, nell’ambasciata francese, vantando d’altra parte la propria apostasia presso la corte di Elisabetta. Nel suo arrivismo giunge a svelare alla regina l’esistenza di un complotto catto-spagnolo, in realtà inesistente, contro di lei: scrive di esserne venuto a conoscenza in confessione. Nessuno gli crede. Alla ricerca di una cattedra A questo punto Bruno, sempre scalpitante, vuole una cattedra a Oxford. Come ottenerla? Si offre volontario, con una umile missiva, in cui si presenta così: “Professore di una sapienza più pura e innocua, noto nelle migliori accademie europee, filosofo di gran seguito, ricevuto onorevolmente dovunque, straniero in nessun luogo, se non tra barbari e gli ignobili… domatore dell’ignoranza presuntuosa e recalcitrante… ricercato dagli onesti e dagli studiosi, il cui genio è applaudito dai più nobili…”. Alla terza lezione verrà accusato di plagio e invitato a togliere il disturbo; le sue invettive feroci contro i londinesi, e contro il prossimo suo in genere, gli procurano, probabilmente, un breve arresto e determinano il ritorno precipitoso a Parigi. Ma qui, nel frattempo, il clima politico è cambiato, e i Guisa, la nobile famiglia a capo della Lega Cattolica, ha sempre maggior potere: Bruno non esita a mettersi al suo servizio, e a chiedere di essere riaccolto “nel grembo della Chiesa catholica”. In realtà, ancora una volta, fa il doppio gioco, tessendo rapporti con i protestanti, benché nello “Spaccio della bestia trionfante” del 1584 avesse deprecato violentemente, in mille maniere, la figura di Lutero. Nello stesso periodo viene accusato da Fabrizio Mordente, inventore del compasso differenziale, di volergli carpire l’invenzione: Bruno infatti ne è entusiasta, ma come già per Copernico, ritiene che ai disprezzati matematici sfugga il valore magico ed ermetico delle loro scoperte, che lui solo, invece, ha la capacità di comprendere! (1. continua) Francesco Agnoli.
Giordano Bruno / 2
Calvino, Lutero e la magia. Le armi del filosofo-mago nel suo scontro con la Chiesa

Scomunicato dalla Chiesa cattolica e dai calvinisti di Ginevra, cacciato da Oxford e da Londra, Giordano Bruno, nel 1586, dopo l’ennesima disputa finita in rissa, deve abbandonare anche Parigi, perché neppure il vecchio amico Enrico III è più intenzionato ad accoglierlo. La destinazione, questa volta, è la Germania, e in particolare la città protestante di Marburgo. Ancora una volta il filosofo di Nola ottiene, dietro pressanti richieste, una cattedra universitaria, ma, detto fatto, entra in conflitto col rettore, Petrus Nigidius, che lo aveva assunto e che ora lo licenzia. Con la grinta di sempre Bruno riparte, per approdare a Wittenberg, città simbolo del luteranesimo, dove, tanto per cambiare, ottiene il diritto di tenere corsi universitari. E’ qui che Bruno cambia ancora casacca: in occasione del discorso di addio, dopo soli due anni di permanenza, polemiche, e tanti nemici, l’8 marzo 1588 tiene davanti ai professori e agli alunni dell’università un elogio smaccato della figura di Lutero, contrapposta a quella del papa, presentato, secondo le migliori tradizioni del luogo, come un vero anticristo. “Come ha usato Calvino contro la Chiesa, così adesso usa Lutero: il cattolicesimo emerge come il vero grande nemico” (Matteo D’Amico, “Giordano Bruno”, Piemme). Chiaramente il gioco può riuscire sperando che a Wittenberg non si conosca il libello bruniano di soli quattro anni prima, e cioè lo “Spaccio”. In esso infatti Bruno auspicava che Lutero e i suoi seguaci fossero “sterminati ed eliminati dalla faccia della terra come locuste, zizzanie, serpenti velenosi”, essendo causa di guerre, disordini e discordie senza fine. Inoltre, tanto per toccare con mano la “scientificità” del personaggio, Bruno spiegava la metempsicosi, affermando che coloro i quali abbiano “viso, volto, voci, gesti, affetti ed inclinazioni, altri cavallini, altri porcini, asinini, aquilini (…), sono stati o sono per essere porci, cavalli, asini, aquile, o altro che mostrano”! Lasciata Wittenberg, Giordano Bruno approda a Praga, la città dell’imperatore Rodolfo II, che ne sta facendo una centrale di maghi, alchimisti e occultisti da tutta Europa. Rodolfo è un tipo bizzarro, preda, spesso di allucinazioni e di crisi depressive. Ancora una volta Bruno cerca il potere, aspira a coniugare le arti magiche, di cui si ritiene in possesso, con alleanze potenti e concrete. C’è ormai in lui il desiderio di non rimanere un teorico, ma di passare all’azione, di essere ispiratore di un rinnovamento del mondo, di una palingenesi, che i segni dei tempi gli dicono vicina, e che lui vuole guidare, con compiti e ruoli non secondari. Ma, vuoi per il suo caratteraccio, vuoi perché le vantate arti magiche in suo possesso non danno i frutti sperati e promessi, anche Praga viene presto abbandonata per la città protestante di Helmstadt, nel 1589. Brigando a suo modo, Bruno ottiene di poter insegnare nell’università locale, e per l’ennesima volta, pur fingendosi protestante e scagliandosi contro la Chiesa cattolica, suo bersaglio preferito, viene in breve scomunicato dal pastore della locale chiesa luterana! Ciò nonostante neppure in questa occasione gli viene a mancare quella disponibilità di denari “che gli permette di fare lunghi viaggi, di affittare appartamenti, di tenere a suo servizio, regolarmente, segretari diversi, di pubblicare opere voluminose, di vivere infine per lunghi periodi senza alcun lavoro fisso”: denari, ipotizza il D’Amico, che potrebbero giungere da quell’attività così redditizia di informatore segreto che aveva appreso a Londra. Le formule per assoggettare Gregorio XIV Nel 1590 Bruno è a Francoforte, senza grande entusiasmo dei suoi allievi, che non riescono a comprendere quanto la miracolosa mnemotecnica bruniana sia da lui mal insegnata e quanto essa sia invece mal conosciuta. Dopo Francoforte, Zurigo, Padova e, infine, nel 1591, Venezia.Nella città veneta è accolto con curiosità da una cerchia di nobili da salotto,e in particolare da Giovanni Mocenigo, che è disposto a ospitarlo e nutrirlo in cambio dei suoi “segreti”. Ma Giordano Bruno non è certo incline a fare il precettore privato: il suo desiderio sembra essere quello di usare le sue conoscenze magiche, espresse nei testi “De magia” e “De Vinculis”, per assoggettare nientemeno che il pontefice Gregorio XIV ai suoi disegni di riforma religiosa e politica universale! Ritiene infatti di saper controllare e dominare le forze demoniche presenti nella natura e di poter soggiogare il prossimo con messaggi subliminali, formule magiche non percepibili dagli incantati: “Ritmi e canti che racchiudono efficacia grandissima, vincoli magici che si realizzano con un sussurro segreto…” (“De Vinculis”). (2. fine) Francesco Agnoli
Giordano Bruno / 3
L’epilogo del processo, la dignità della morte dopo una vita di intrighi e magie

Giordano Bruno concepisce a Venezia il folle disegno di “portare cambiamenti (politici) significativi, quantomeno nello scacchiere italiano”. A tal fine progetta di rientrare nella Chiesa, di recarsi a Roma dal pontefice Clemente VIII, per dedicargli un’opera, e, come si diceva, probabilmente, per riuscire a condizionarlo tramite le arti magiche. Non c’è grande nobiltà nei mezzucci con cui, contraddicendo patentemente il suo credo, persegue i propri fini. Ma nello stesso 1591 viene denunciato al Santo Uffizio dal suo stesso ospite: al Mocenigo è bastato un attimo per rimanere deluso dagli insegnamenti di Bruno, e scandalizzato dalle sue bestemmie. Dopo i sogni di potenza, il filosofo nolano precipita sul banco degli imputati, ma è già abituato ai processi, alle abiure, alle fughe, e forse pensa, in cuor suo, di farla nuovamente franca. La sua tattica difensiva consiste nell’ammettere alcune accuse, nell’attenuarne altre, e nel negare, infine, le più infamanti. Negare tutto sarebbe troppo sciocco, vista la possibilità per il tribunale di venire in possesso dei suoi scritti, e di indagare sul suo passato. Lo scopo è quello di “apparire persona rispettosa della autorità della Chiesa e della sua dottrina, anche se momentaneamente posto al di fuori di essa” (D’Amico). Arriva così a rinnegare alcune sue opere, e a presentare i suoi passati riavvicinamenti alla Chiesa, compiuti sempre e solo per convenienza politica, come testimonianza della sua sostanziale “ortodossia”. Il filosofo degli “eroici furori”, in realtà, non ha nulla di eroico: “tutti li errori che io ho commesso… et tutte le heresie… hora io le detesto et abhorrisco…”. Come già coi calvinisti di Ginevra, il ribelle, la spia, l’arrivista in cerca di poltrone universitarie, dopo aver attaccato e inveito, si inginocchia e abiura, con pari teatralità e finta compunzione. Ma Roma sospetta, e nel febbraio 1593 avoca a sé il processo, che durerà otto lunghi anni. Il tribunale inquisitoriale non emette condanne frettolose, ma procede con precisione e scrupolo, convocando testimoni, compulsando le opere, rispettando tutte le procedure, invitando ripetutamente ad abiurare. Bruno si dichiara disposto in più occasioni a cedere: la condanna, e l’affido al braccio secolare, arrivano dopo varie promesse di abiura, e altrettanti ripensamenti.


Il memoriale mandato in extremis al Papa
Nel giorno della condanna giunge al Papa un memoriale di Bruno: perché, se aveva già deciso di affrontare la morte? Probabilmente il memoriale, che non conosciamo, conteneva l’ennesima disponibilità all’abiura: forse Bruno credeva di poter ancora dire e disdire, senza conseguenze. A cosa si deve, allora, questa improvvisa accelerazione del processo? Secondo la Yates, a un evento contemporaneo: l’arresto di un altro domenicano ribelle, Tommaso Campanella. Non bisogna infatti dimenticare l’epoca in cui ci troviamo: la Riforma ha portato alla ribalta prima Lutero, con le conseguenti guerre dei cavalieri e dei contadini, e le relative mattanze, e poi millenaristi come Matthison di Haarlem, un capo anabattista che si sentiva “incaricato della esecuzione del castigo divino contro gli empi, e mirava semplicemente al massacro universale”, o il “profeta Hofmann” di Strasburgo, “il quale andava dicendo di voler fondare la Nuova Gerusalemme” e si accingeva a preparare la mobilitazione “dei cavalieri della strage che con Elia e Enoch appariranno impugnando la spada e vomitando fiamme per sterminare i nemici del Signore”. Campanella è filosoficamente molto vicino a Bruno. Anch’egli ritiene che stia giungendo l’ora dei “grandi mutamenti, l’avvento dell’età dell’oro”. Organizza così una congiura, in meridione, cercando l’alleanza dei Turchi, e in particolare di feroci pirati come Bassàn Cicala, per realizzare uno Stato magico, dittatoriale, di impostazione comunista. La congiura viene sventata nel 1599 (Francesco Forlenza, “La congiura antispagnola di Tommaso Campanella”, Temi). Tale nuova minaccia, religiosa e politica insieme, accelera forse la condanna di Bruno, che morirà, alla fine, con dignità. Ma dopo essere stato scacciato da almeno dieci città diverse, condannato da cattolici, calvinisti, protestanti e professori universitari; dopo essere stato spia, aver violato il segreto confessionale, aver ripudiato se stesso, per convenienza, innumerevoli volte, e, infine, dopo aver cercato, attraverso la magia e l’intrigo, di rovesciare l’ordine politico, non solo quello religioso, del suo tempo. Spacciarlo per un puro, un eroe coerente sino alla fine, uno scienziato moderno (titolo che lui stesso non avrebbe affatto desiderato), come cercano di fare Nuccio Ordine e Giulio Giorello sul Corriere della Sera di martedì scorso, è mera e ideologica falsificazione storica (condita con abbondanti dosi di retorica). (3. fine) Francesco Agnoli
Agnoli risponde alle critiche e insiste: Bruno era un mezzo mago

I miei tre brevi articoli su Giordano Bruno hanno scatenato le ire di Giulio Giorello e di Nuccio Ordine, sul Corriere della Sera del 30 agosto e del 1° settembre. Il Giorello, per la verità, si è limitato alle invettive contro i cattolici in genere, di ogni secolo e luogo, per poi riferirsi alle mie osservazioni, definendole assai astrattamente “pettegolezzi da filosofia vista dal buco della serratura”. Poiché l’argomento mi sembra immaginifico, ma deboluccio e sbrigativo, mi permetto di saltarlo a piè pari, per considerare invece le argomentazioni del professor Nuccio Ordine. Costui, forse ritenendo di essere l’unico in Italia ad aver proseguito gli studi oltre le elementari, si è anzitutto offeso del fatto che qualcuno abbia parlato di Giordano Bruno, senza il suo permesso: per lui è automatico che io non abbia letto le opere del filosofo, ma solo “due o tre cattivi libri”, forse degni di censura ecclesiastica nucciana (per quanto scritti da insigni studiosi, di cui, almeno la Yates, assai celebre a livello internazionale). Non interessa nulla che io abbia citato negli articoli in questione, seppur brevemente per mancanza di spazio, opere scottanti e inequivocabili di Bruno come il “De Magia”, il “De Vinculis” e “Lo Spaccio”. Ma la cosa più interessante è che il professor Ordine non contesta seriamente una sola delle mie affermazioni storiche. Rimane vero dunque che Bruno fu accusato di plagio a Oxford, scomunicato dai calvinisti e più volte dai protestanti; che abiurò in parecchie occasioni, rinnegando alcune sue opre, che si considerava il più grande sapiente esistente al mondo, che dovette scappare di città in città, non per sua scelta, ma perché sempre e dovunque indesiderato e mal sopportato (da Ginevra, da Parigi, da Oxford, Marburgo, Wittemberg, Helmstadt, Francoforte…). Sembra appurato, inoltre, che indossò e dismise l’abito domenicano più volte, allontanandosi dalla Chiesa, per poi riavvicinarsi, in qualche maniera, in più occasioni… Solo, secondo Ordine, non lo avrebbe fatto con opportunismo, ma con grande coraggio e rigore morale: un “libero pensatore”, libero di vagare nel mare delle idee cangianti… Nell’articolo del 30 agosto, per la verità, si mette anche in dubbio la tesi del Bossy, da me riportata come attendibile, non come certa, sull’opera di Bruno come spia in quel di Londra. Niente di sostanziale, insomma. Il 1° settembre, invece, il professor Ordine fa le pulci al libro di Anna Foa, in maniera un po’ accademica, sistemando più che altro alcune date. Al sottoscritto, forse perché indegno, sono riservate solo battutine, ma neppure una sola confutazione circostanziata: si parla di “crociata di Francesco Agnoli” che “propina invettive ai lettori del Foglio”. Un po’ di parole, insomma, che dovrebbero da sole, col loro suono e la loro evocatività, screditare l’idiota. Mi spiace: penso si potrebbe discutere in altro modo, con altro rispetto, almeno per i fatti, e con altro amore per la verità e l’educazione (come invece è accaduto col senatore Contestabile, sul Foglio). Mi permetto però di tornare su Bruno, per ribadire non solo che non fu un eroe puro, coerente e senza macchia, come già detto, ma soprattutto che non fu assolutamente uno scienziato moderno: su questo mi trovo in accordo con personaggi come Giovanni Reale, Dario Antiseri, Paolo Rossi, Cecilia Gatto Trocchi, A. Koyrè e molti altri. Proprio il Koyrè infatti, nel suo celebre “Dal mondo chiuso all’infinito universo”, afferma: “La concezione bruniana del mondo è vitalistica e magica: i suoi pianeti sono esseri animati in libero movimento attraverso lo spazio secondo una reciproca intesa come quelli di Platone o del Patrizi. Bruno non è assolutamente un pensatore moderno”. Il concetto è semplicissimo: per Bruno “natura est deus in rebus”, o, con altre parole, “Iddio tutto è in tutte le cose”, come avevano ben capito gli egizi, che adoravano il sole, la luna, ma anche i coccodrilli, le lucertole, i serpenti e le cipolle… (“Lo Spaccio”). Da una simile concezione, antica quanto la magia e l’animismo, nuova in nulla, scientifica ancor meno, scaturisce l’antichissima idea, presente anche nel “Timeo” platonico, dei pianeti e degli astri non come entità materiali, regolate e mosse secondo leggi fisiche, ma come “dei visibili”, “grandi animali”, “dei figli di dei”. Così la teoria di Copernico, “aurora” che ha aperto la strada a lui stesso, “sole de l’antiqua vera filosofia” (“Cena delle ceneri”), interessa al Nolano, unico a suo dire ad averla veramente compresa, solo perché gli permette di scorgere, nella Terra che si muove, un principio vitale, un'”anima propria” mossa da una vita divina, in perfetta coerenza con le dottrine astrologiche.


Va indietro rispetto a Copernico
Cosa vi è di scientifico, di moderno, nel credere a stelle e a pianeti animati e divini, capaci di conseguenza, evidentemente, di agire sull’arbitrio umano? Esattamente nulla. Bruno non avanza, ma retrocede terribilmente. Retrocede rispetto a Copernico, che aveva parlato di “macchina del mondo”, per eliminare, come scrive il Koyrè nell’introduzione al “De revolutione orbium caelestium” (Einaudi), l'”astro-biologia degli antichi”. Retrocede anche rispetto alla scuola francescana di Oxford, che secoli prima aveva iniziato a proporre, con Giovanni Buridano, l’innovativa dottrina dell'”impetus”, come possibile spiegazione della meccanica dei corpi celesti. Buridano, infatti, confutando l’insegnamento aristotelico e arabo al riguardo, aveva sostenuto che l’ininterrotto movimento delle sfere celesti non era dovuto a delle anime, e neppure alle intelligenze motrici, bensì a una forza, un’impetus iniziale, il cui permanente effetto era permesso dalla mancanza di resistenza del mezzo. Si era in qualche modo già vicini all’idea di forza fisica, di forza d’inerzia, capace di muovere i pianeti: per questo il Duhem riconduce “alla teorizzazione buridaniana dell’impetus la data d’inizio della scienza moderna, perché comportò l’abbandono della credenza nella natura divina delle potenze motrici dei cieli” (inutili, se esiste un Dio creatore). Analogamente lo Jammer, sempre a proposito dell’origine della scienza moderna, sottolinea l’importanza di Buridano, come “uno dei primi a ribellarsi alla concezione neoplatonica delle forze intese come enti divini” (mentre Newton sarebbe “colui che diede il colpo di grazia alla teoria delle forze astrologiche”; introduzione a Giovanni Buridano, “Il cielo e il mondo”, Rusconi). Anche le ricerche di Keplero si sarebbero mosse nella stessa direzione, per rinnegare l’idea di un modo animato, magico, “grande animale”, caratterizzato da pianeti divini: tutte teorie, ripeto, proprie del modo pagano e della magia rinascimentale, incompatibili con un approccio scientifico e matematico. Nel 1605, confutando implicitamente Bruno, morto da soli cinque anni, Keplero scriverà a Herwart von Hohenberg: “Sono molto occupato nello studio delle cause fisiche. Il mio scopo è dimostrare che la macchina celeste può essere paragonata non ad un organismo divino ma piuttosto ad un meccanismo d’orologeria… in quanto quasi tutti i suoi molteplici movimenti si compiono grazie a una sola forza magnetica, molto semplice, come nell’orologio tutti i moti (sono causati) da un semplice peso. Inoltre io dimostro come questa concezione fisica vada presentata per mezzo del calcolo e della geometria”. “Macchina”, “meccanismo”, non “organismo divino” né “grande animale”: quanto dista, da questo modo scientifico di vedere l’universo materiale, il vitalismo pampsichista e magico di Bruno? Francesco Agnoli

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