padre Giovanni Cavalcoli o.p.
L’ormai ben nota tendenza a intendere la celebrazione
eucaristica non come espressione del rapporto dell’uomo con Dio, ma come
espressione dell’uomo o come manifestazione di Dio non è senza rapporti con una
concezione generale della vita cristiana e delle sue radici teoretiche.
In questa liturgia che si è diffusa negli ultimi decenni e
che abusivamente si richiama alla riforma del Vaticano II, l’azione personale
del celebrante emerge sproporzionatamente rispetto alla sua funzione di
mediatore del Sacro, il che lascia chiaramente intendere che dietro a questo
atteggiamento c’è una certa concezione dell’uomo ed un’altra particolare
concezione di Dio.
Abbiamo in sostanza un’inversione di valori: nella vita e
nella propria visione di fondo e quindi di conseguenza nell’azione liturgica
ciò che interessa, ciò che conta, ciò che vien preso sul serio, il “sacro” è il
proprio io che appare che nella modernità e nel contesto sociale; Dio e le
cose, divine, certo, continuano ad occupare un posto nella coscienza del celebrante,
ma non come interesse supremo, non come cosa estremamente seria ed importante,
ben superiore ad ogni altro valore, non come fons et culmen totius vitae
christianae, ma bensì come modo di esprimere la propria personalità, di
ottenere consensi, di rendersi simpatici, di esternare la propria genialità o
la propria inventiva nel buon umore, nella bonarietà, nella battuta, nelle
spiritosaggini, nell’ironia, nel volare in spensieratezza e leggiadria tra le
cose divine come la farfalla volteggia allegra da fiore a fiore. Questi
celebranti capovolgono il proverbio popolare che dice: “Scherza con i fanti e
lascia stare i santi”. Per essi infatti vale l’inverso: “Scherza con i santi e
lascia stare i fanti”.
Essi naturalmente non sono apertamente nemici della
religione; ma a somiglianza di Hegel e Gentile mettono la filosofia al di sopra
della religione, il profano sta sopra il sacro, l’uomo primeggia su di Dio. Non
negano ovviamente l’esistenza di Dio, ma nella loro vita e nel loro modo di
celebrare il loro io sembra essere più importante di Dio.
Essi vedono la liturgia come espressione esterna mitologica
e convenzionale dell’Autocoscienza dello Spirito, della quale essi sono
apparizione e manifestazione nell’oggi della storia. Il culto religioso, per il
quale l’uomo eleva il proprio spirito a Dio nell’offerta del sacrificio è visto
da loro come accondiscendenza al comune realismo ingenuo che concepisce Dio
come lassù in cielo.
Ma ciò che per loro ha importanza è la “fede” come coscienza
dell’immanenza di Dio che nel cuore dell’uomo si manifesta come Assoluto. La
liturgia per loro non è che la rappresentazione scenica ed eziologica,
immaginaria e simbolica, della presa di coscienza dell’immanenza dell’Assoluto
nell’io empirico del celebrante e della comunità dei fedeli. Quello che conta
in questa liturgia non è Dio ma l’io. Dio è una proiezione immaginaria dell’io
come Io assoluto o come Autocoscienza assoluta.
Se ammettono Dio come Assoluto, allora l’io ne è
l’apparizione empirica; ma tale riconoscimento del primato di Dio si ferma alle
dichiarazioni verbali o alla recita fredda delle formule liturgiche della Messa
o dell’ufficio divino: nella realtà essi fanno di se stessi l’Assoluto e Dio
diventa relativo all’io. Dal tono stesso della loro voce si sente che pregano
tanto perchè devono pregare, ma non danno segno di essere convinti di quello
che dicono né lo dicono con la necessaria devozione.
O se danno colore o calore a quello che dicono è perché
confondono l’azione liturgica con una rappresentazione teatrale e capita che
chi la celebra in questo modo tenda a vedere tutta la vita come una specie di
teatro o di teatrino, per non dire un cabaret, dove non si è a contatto con la
realtà e tanto meno con cose serie, ma tutto si risolve nell’inventiva di
un’immaginazione arguta e brillante: non si distingue più la liturgia dalla
“sacra rappresentazione”.
L’importante, quando non ci si abbandona alla sciatteria, è
recitare bene in conformità con i gusti del pubblico e le esigenze della
modernità. Regola implicita è il successo mondano e considerazione inconfessata
è il rispetto umano. La Scrittura direbbe di questi celebranti: “Questo popolo
mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”.
Questa falsa impostazione e pratica della liturgia che si è
affermata largamente, ha delle radici profonde, che hanno fatto presa in questi
ultimi decenni; è l’effetto di una visione distorta della via cristiana e della
concezione del rapporto dell’uomo con Dio.
La cura di questo male non può limitarsi alla denuncia delle
irregolarità o degli arbitri o a generici richiami alla devozione, alla pietà
ed al rispetto delle norme liturgiche o tanto meno alla discussione fra Messa
di Paolo Vi e Messa Tridentina: tali questioni, per quanto importanti, sono del
tutto secondarie rispetto alla gravità del problema che ci sta davanti.
Il guasto, il marcio si trova ormai nell’intimo dell’uomo,
nelle coscienze, ormai abituate ad una sistematica disobbedienza alla verità ed
alla realtà oggettiva, per una scelta deliberata del proprio io - il famoso
cogito cartesiano - come principio della verità, dell’essere, e quindi del bene
e di tutti i valori: quella che Nietzsche chiamava con prometeica audacia la
“trasvalutazione di tutti i valori”. Essa non ha affatto prodotto il
“superuomo”, ma lo squallido e criminale nichilismo della postmodernità.
Occorre pertanto una profonda inversione di rotta a livello
non solo individuale ma collettivo ed ecclesiale. Se non fosse che la Chiesa è
santa, verrebbe fatto di dire che è la Chiesa stessa che si è allontanata dal
sentiero della verità, tanto è diffuso il morbo che ci ammorba.
Eppure in realtà la Chiesa, proprio perché santa, ha in sé
le risorse per liberarsi da queste storture. Occorre un poderoso atto di onestà
e di umiltà, nella sequela di Cristo nel suo Vicario oggi deciso come sappiamo,
ad una vasta e radicale opera di riforma, tanto che molti parlano di
“rivoluzione” di Papa Francesco.
Non è tanto questione dello IOR o di qualche pedofilo, è
questione di una profonda conversione, di un radicale rinnovamento dello
spirito, un tornare sulla retta via del sincero amore per la verità e di un
deciso orientamento verso il bene.
E da dove cominciare se non dalla liturgia? Il Concilio
Vaticano II ha giustamente cominciato da questo aspetto decisivo della vita di
fede, così come in una vasta riforma si deve cominciare dal recupero dei
principi, perché gli stessi principi sono intaccati. Siccome però essi si
riprendono da soli, occorre tornare ad essi e sul loro fondamento riformare
tutto il resto.
Liturgia culmen et fons
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