La fede come luce
di Inos Biffi
Sulle prime può sorprendere che si parli di «luce» della fede, come fa l'enciclica che proprio dall'espressione Lumen fidei prende nome. I contenuti del Credo trascendono, infatti, le facoltà intellettive dell'uomo e per la loro stessa natura sono sottratti alla loro visione. Sembrerebbe perciò più coerente parlare di «oscurità» della fede. Effettivamente, le verità enunciate dai simboli risultano inevidenti alla ragione; il credente le professa unicamente fondandosi sulla Parola che le attesta. Solo che Dio infonde nel credente un'altra luce, oltre quella della ragione: una luce imparagonabile con quella razionale, grazie alla quale il credente diviene partecipe dell'eccesso di luminosità che definisce Dio, inabitante in «una luce inaccessibile», per cui «nessuno degli uomini lo ha mai visto né può vederlo» (1 Timòteo, 6, 16), e insieme rifulgente nei cuori dei credenti, come scrive lo stesso Paolo: «Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulge nei nostri cuori» (2 Corinzi, 4, 6).
Con tocco penetrante e felice l'enciclica (n. 4) cita la descrizione che Pietro fa della fede nella Commedia di Dante: «Quest'è 'l principio, quest'è la favilla/ che si dilata in fiamma poi vivace,/ e come stella in cielo in me scintilla (Paradiso XXIV, 145-147). «Chi crede, vede», afferma l'enciclica (n. 1).
E, infatti, nella tradizione della Chiesa e nel linguaggio della teologia si parla di «occhi della fede (oculi fidei)», o di «fede dotata di occhi (oculata fides)» che sanno vedere di là da quanto appare alla chiarezza dell'intelligenza naturale.
Sul tema torna spesso Tommaso d'Aquino: «La fede è la luce delle anime» [fides lumen est animarum (Summa Theologiae, III, 36, 3, 3m)]; «Con l'abito della fede la mente dell'uomo è inclinata ad assentire a ciò che conviene alla retta fede» (ibidem, ii-ii, 1, 4, 3m). «La fede è prodotta in noi dall'influsso della luce divina» [fides autem causatur in nobis ex influentia divini luminis (In III Sententiarum, dist. 21, q. 2, a. 3, c)].
In chi crede è infuso «un lume soprannaturale», che produce una «mondezza del cuore», munditia cordis (Summa Theologiae, ii-ii, 7, c), per cui riesce a conoscere con acuta penetrazione alcune cose che il lume naturale non è in grado di conoscere» (ibidem, ii-ii, 8, 1, c). Per quella luce egli diviene capace di cogliere «i primi principi della fede (ea quae primo et principaliter cadunt sub fide)» «e tutto ciò che è ordinato alla fede» (ibidem, ii-ii, 8, 3, c).
Si tratta, quindi, di una luminosità nuova, radicata non in una facoltà creata, qual è l'intelletto -- a cui Dio per altro elargisce una reale capacità di vedere --, una luminosità che irraggia -- senza mediazione creaturale -- dalla sorgente di Dio, ed è destinata a “disvelare” i misteri.
Con quel «lume intellettuale della grazia», intellectuale lumen gratiae (ibidem, ii-ii, 8, a. 5, c), l'intelletto naturale viene disposto o reso propenso alle verità rivelate e perciò portato ad avvertire o “vedere” che è giusto accoglierle e consentirvi; senza tale luce, si possono sentir risonare le parole, si può riuscire a connetterle logicamente e anche a capirne il significato, e tuttavia questo non è ancora un'accoglierle nella mente e nell'esistenza.
Senza dubbio, con la visione della fede i contenuti dei misteri non diventano oggetto di immediata contemplazione; questo avverrà soltanto nella visione beatifica, quando avremo il «dono dell'intelletto consumato», donum intellectus consummatum (ibidem, ii-ii, 7, c). Si genera però una lucida persuasione sulla loro verità, una certa qual loro percezione, che induce la volontà ad aderirvi liberamente e fermamente e ad assumerle nell'esistenza.
Di più: secondo Tommaso la piena conoscenza di Dio la visione beatifica «ha già un certo inizio in noi, in virtù della fede che aderisce, grazie al lume infuso, a quelle cose che eccedono la conoscenza naturale» [huius cognitionis supernaturalis aliquam inchoationem in nobis fieri; et hoc est per fidem, quae ea tenet ex infuso lumine, quae naturalem cognitionem excedunt (De Veritate, 14, 2, c)].
Ciononostante per l'Angelico, come già per Aristotele ma con motivazione ben maggiore, si prova una «grande gioia a poter gettare un semplice sguardo (aliquid posse inspicere) su delle realtà così elevate, per quanto in modo debole e povero» [etiam parva et debili consideratione (Summa contra Gentiles, i, 8)].
«La fede -- asserisce l'enciclica -- conosce in quanto è legata all'amore, in quanto l'amore stesso porta una luce. La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà» (n. 26). La conoscenza che deriva dall'amore si avvera, secondo san Tommaso, quando uno «non si limita a ricevere nell'intelletto la scienza delle cose divine, ma, anche, amandole, vi è unito con l'affetto»; e spiega: l'unione per pura conoscenza intellettiva è più estrinseca e conosce la riduzione e il limite o la misura determinata dal soggetto che conosce; nella conoscenza affettiva invece la relazione con l'oggetto è più immediata: è l'oggetto a determinare la misura e a imprimersi nel soggetto e a “toccarlo” [sic ad ipsas res quodammodo afficitur (In Dionysii De divinis nominibus, cap. 2 , lectio: 4)]. E dice sempre l'Aquinate: «Quando la volontà è ben disposta in rapporto alla fede, essa ama la verità creduta, vi ritorna senza posa nel suo pensiero (excogitat), e abbraccia (amplectitur) tutte le ragioni che possa trovare a suo favore» (Summa Theologiae, ii-ii, 2, 10, c).
Occorre però procedere ulteriormente e risalire alla fonte concreta di tale luce, cioè a Gesù Cristo, «lo Splendore della gloria del Padre» (Splendor paternae gloriae, come lo definisce Ambrogio all'inizio dell'inno In aurora).
La fede, infatti, non è la presenza nell'intelletto di formule o di enunciazioni, ma è l'inabitazione di Cristo nei cuori: «Il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori», auspicava Paolo per gli Efesini (Efesini, 3, 17). Ora, l'evangelista Giovanni chiama il Verbo «Luce vera», che «splende nelle tenebre» (Giovanni, 1, 9 - 1, 5), mentre Gesù diceva di se stesso: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giovanni, 8, 12).
Il credente è colui che accoglie questa luce che è Cristo, nel quale tutti i misteri cristiani si risolvono. A chiarirsi allora non sono tanto i contenuti dei misteri, a cui consentire, ma è Gesù Cristo stesso, che brilla così che la mente e il cuore lo ricevono e vi aderiscono. Chi riceve Cristo, crede; e, insieme, chi crede vuol dire che ha ricevuto Cristo: la fede, quindi, come sequela di Cristo, o comunione di pensiero, di visione, di sensibilità e di vita con lui e con la sua luce: infatti, «tutti coloro che vengono a Cristo, vengono a lui a partire da lui e per mezzo di lui» [omnes qui ad Christum veniunt, ab ipso et per ipsum veniunt (Summa Theologiae, III, 36, 3, 3m)].
Importa assolutamente sottolineare questo carattere personale e cristico della fede. «L'atto di fede non ha come suo termine ultimo delle proposizioni, ma la realtà» (Summa Theologiae, ii-ii, 1, 2, 2m): ebbene, questa «realtà» è Gesù Cristo, che è il mistero divino rivelato. Solo bisogna aggiungere che Gesù Cristo non è unicamente il compimento della fede, ma anche il suo principio.
Gli «occhi della fede», a cui accennavamo, sono gli «occhi di Cristo». Nella visione beatifica contempleremo il Padre con gli occhi medesimi con cui Cristo vede e contempla il Padre celeste.
A questo punto può essere pertinente osservare ancora con san Tommaso che «la fede non distrugge la ragione, ma la oltrepassa e la porta alla perfezione» [fides non destruit rationem, sed excedit eam et perficit (De Veritate, 14, 1, 9)]. Ossia, nel credente, a motivo della fede, non è spento né attenuato o sospeso il «lume dell'intelletto»; al contrario, egli è stimolato a ragionare di più. Una volta poi riconosciuta la differenza in sé tra la luce naturale dell'intelletto e la luce soprannaturale della fede, esse non vanno intese come l'una giustapposta all'altra, o indipendenti e scisse; chi ha fede possiede un intelletto trasfigurato, reso luminoso dalla luce di Cristo.
Abbiamo citato ripetutamente san Tommaso, col suo splendido, e non abbastanza valorizzato, trattato sulla fede. Vorrei, prima di terminare, ricordare due testi di sant'Ambrogio. Il primo: «Dove c'è la vera fede, là c'è la grazia della vera luce» [ubi vera est fides, ibi veri luminis gratia (Expositio Ps, 118, 8, 51)]; e il secondo: «Nei giorni del Signore Gesù è sorta la fede, che ha diffuso in tutto il mondo lo splendore del suo chiarore e della sua luce» [in diebus domini Iesu exorta est fides, quae splendorem suae claritatis et luminis toto orbe diffudit (Explanatio Palmi, 43, 6, 3)].
Possiamo, finendo, chiederci: «Questa grazia di luce, che è la fede, a chi è data?». Non esitiamo a rispondere: «È data a ogni uomo, dal momento che Cristo è stato predestinato dall'eternità ad essere Luce per tutti, nessuno escluso». La ragione umana da sempre è creata perché sia trasfigurata dallo splendore del Verbo incarnato e dalla sua gloria.
(©L'Osservatore Romano 21 agosto 2013)
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