Messa Tridentina
Cosa il Papa potrebbe imparare dai poveri su “sfarzo e visibilità”?
Di John Grondelski, 6 Marzo 2025
Papa Francesco ha inviato un messaggio il 28 febbraio ai partecipanti a un corso per maestri di cerimonia dei vescovi presso l’Anselmianum di Roma. Si tratta di uno dei soliti messaggi inviati per un evento di cui la Santa Sede vuole in qualche modo prendere nota, o perché le piace l’idea o perché qualcuno coinvolto aveva un amico in Curia.
Secondo il messaggio, la ragione formale del corso è rispondere all’“invito di Francesco formulato nella Lettera apostolica Desiderio desideravi, continuando a studiare la liturgia, non solo da un punto di vista teologico, ma anche nell’ambito della prassi celebrativa”.
“Prassi celebrativa” nel pontificato di Francesco sembra significare principalmente non celebrare la liturgia in modi che questo Papa disapprova, ad esempio in latino, specialmente nell’usus antiquior. Oltre a ciò, il termine è abbastanza elastico da comprendere la giustificazione di regole contro ciò che determinate persone immaginano essere un arretramento sulla presunta “visione” del Vaticano II, ad esempio il fatto di volersi inginocchiare per ricevere la Comunione e/o di farlo alla balaustra dell’altare.
Il messaggio di Francesco, con la sua attenzione alla “prassi celebrativa”, solleva due questioni: lo scopo e lo stile di tale “prassi”. Il messaggio è ambiguo su entrambe le questioni. Passerò rapidamente sullo “scopo”, non perché non sia importante, ma perché è troppo importante per non trattarlo in modo più esauriente in questa sede.
Basti dire che quando il Papa dice “…il culto è opera di tutta l’assemblea, l’incontro tra la dottrina e la pastorale …deve essere sempre incarnato, inculturato, esprimendo la fede della Chiesa. Di conseguenza, le gioie e le sofferenze, i sogni e le preoccupazioni del popolo di Dio possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare”. Che cosa sia questo “valore ermeneutico”, come debba essere interpretato e come venga “inculturato” nella liturgia sono questioni che hanno generato molta confusione dal Concilio Vaticano II e che probabilmente ne produrrebbero ancora di più con l’approccio permissivo di Francesco.
In questo momento, concentriamoci sullo stile della liturgia, in particolare su due punti: la liturgia del vescovo come modello per la diocesi e uno “stile che esprima la sequela di Gesù, evitando inutili sfarzi o protagonismi”.
Il Papa pensa che il modo in cui un vescovo celebra la liturgia nella propria cattedrale dovrebbe essere “un modello celebrativo da imitare”. In un certo senso, questo è vero, poiché l’Eucaristia è sempre offerta in unione con il vescovo locale che dovrebbe, quindi, custodire la corretta celebrazione del culto divino nella sua diocesi. Quindi, sì, il vescovo dovrebbe stabilire lo standard per una corretta attuazione liturgica nella sua diocesi. Se questo sia sempre stato il caso, in particolare senza due pesi e due misure in termini di particolari ideologie liturgiche, è un’altra questione.
La mia preoccupazione maggiore, tuttavia, è l’ambiguità di uno “stile liturgico che esprime la sequela di Gesù, evitando inutili sfarzi o protagonismi”. Come facciamo noi/il vescovo a sapere che lo “stile” liturgico è coerente con la “sequela di Gesù”? Esiste un solo stile? Se dobbiamo evitare “lo sfarzo non necessario”, significa che c’è uno sfarzo “necessario” e, di nuovo, come facciamo noi/il vescovo a saperlo?
Non sto cercando di essere spiritoso. Sto cercando di evitare le insidie che derivano da belle parole il cui contenuto lascia ampio spazio alla definizione.
Prendiamo un esempio dalla Sacrosanctum Concilium, la Costituzione sulla Sacra Liturgia. Essa prescrive che i “…riti si distinguano per una nobile semplicità; siano brevi, chiari e non appesantiti da inutili ripetizioni…” (n. 34).
Ebbene, nei 60 anni trascorsi dall’emanazione di quel documento, la “nobile semplicità”, non meglio definita, è stata assunta per significare: un uso quasi obbligatorio del vernacolo, al punto che la tradizione latina del rito cattolico romano si è praticamente estinta;
Papa Francesco ha inviato un messaggio il 28 febbraio ai partecipanti a un corso per maestri di cerimonia dei vescovi presso l’Anselmianum di Roma. Si tratta di uno dei soliti messaggi inviati per un evento di cui la Santa Sede vuole in qualche modo prendere nota, o perché le piace l’idea o perché qualcuno coinvolto aveva un amico in Curia.
Secondo il messaggio, la ragione formale del corso è rispondere all’“invito di Francesco formulato nella Lettera apostolica Desiderio desideravi, continuando a studiare la liturgia, non solo da un punto di vista teologico, ma anche nell’ambito della prassi celebrativa”.
“Prassi celebrativa” nel pontificato di Francesco sembra significare principalmente non celebrare la liturgia in modi che questo Papa disapprova, ad esempio in latino, specialmente nell’usus antiquior. Oltre a ciò, il termine è abbastanza elastico da comprendere la giustificazione di regole contro ciò che determinate persone immaginano essere un arretramento sulla presunta “visione” del Vaticano II, ad esempio il fatto di volersi inginocchiare per ricevere la Comunione e/o di farlo alla balaustra dell’altare.
Il messaggio di Francesco, con la sua attenzione alla “prassi celebrativa”, solleva due questioni: lo scopo e lo stile di tale “prassi”. Il messaggio è ambiguo su entrambe le questioni. Passerò rapidamente sullo “scopo”, non perché non sia importante, ma perché è troppo importante per non trattarlo in modo più esauriente in questa sede.
Basti dire che quando il Papa dice “…il culto è opera di tutta l’assemblea, l’incontro tra la dottrina e la pastorale …deve essere sempre incarnato, inculturato, esprimendo la fede della Chiesa. Di conseguenza, le gioie e le sofferenze, i sogni e le preoccupazioni del popolo di Dio possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare”. Che cosa sia questo “valore ermeneutico”, come debba essere interpretato e come venga “inculturato” nella liturgia sono questioni che hanno generato molta confusione dal Concilio Vaticano II e che probabilmente ne produrrebbero ancora di più con l’approccio permissivo di Francesco.
In questo momento, concentriamoci sullo stile della liturgia, in particolare su due punti: la liturgia del vescovo come modello per la diocesi e uno “stile che esprima la sequela di Gesù, evitando inutili sfarzi o protagonismi”.
Il Papa pensa che il modo in cui un vescovo celebra la liturgia nella propria cattedrale dovrebbe essere “un modello celebrativo da imitare”. In un certo senso, questo è vero, poiché l’Eucaristia è sempre offerta in unione con il vescovo locale che dovrebbe, quindi, custodire la corretta celebrazione del culto divino nella sua diocesi. Quindi, sì, il vescovo dovrebbe stabilire lo standard per una corretta attuazione liturgica nella sua diocesi. Se questo sia sempre stato il caso, in particolare senza due pesi e due misure in termini di particolari ideologie liturgiche, è un’altra questione.
La mia preoccupazione maggiore, tuttavia, è l’ambiguità di uno “stile liturgico che esprime la sequela di Gesù, evitando inutili sfarzi o protagonismi”. Come facciamo noi/il vescovo a sapere che lo “stile” liturgico è coerente con la “sequela di Gesù”? Esiste un solo stile? Se dobbiamo evitare “lo sfarzo non necessario”, significa che c’è uno sfarzo “necessario” e, di nuovo, come facciamo noi/il vescovo a saperlo?
Non sto cercando di essere spiritoso. Sto cercando di evitare le insidie che derivano da belle parole il cui contenuto lascia ampio spazio alla definizione.
Prendiamo un esempio dalla Sacrosanctum Concilium, la Costituzione sulla Sacra Liturgia. Essa prescrive che i “…riti si distinguano per una nobile semplicità; siano brevi, chiari e non appesantiti da inutili ripetizioni…” (n. 34).
Ebbene, nei 60 anni trascorsi dall’emanazione di quel documento, la “nobile semplicità”, non meglio definita, è stata assunta per significare: un uso quasi obbligatorio del vernacolo, al punto che la tradizione latina del rito cattolico romano si è praticamente estinta;
un uso vernacolare che confondeva la “nobile semplicità” linguistica con lo stile e l’“equivalenza dinamica” di un semianalfabeta di quarta elementare;
una perdita di venerabili strutture del Rito Romano, compreso uno sforzo concertato tra gli anni ’60 e ’80 per mettere da parte la Prima Preghiera Eucaristica (Canone Romano) con le sue “inutili ripetizioni” e la sostituzione del secolare Canto Gregoriano con brani pop e folk di seconda mano con testi teologicamente discutibili;
uno stile architettonico ed estetico che ha sminuito il trascendente, ha rinunciato a dedicare il “meglio” al contesto del culto divino e ha imposto un piatto utilitarismo che ha temporizzato il senso del sacro rendendo gli “spazi di culto” multifunzionali.
Nessuno dei quattro punti precedenti rappresenta ciò che i Padri conciliari che hanno votato la Sancrosanctum Concilium si aspettavano o hanno imposto, ma è stato imposto in loro nome. Alcuni dei nostri patrimoni liturgici sono riusciti a sopravvivere agli sforzi di soppressione, ad esempio i liturgisti degli anni Sessanta erano certi che il Canone Romano oggi sarebbe rimasto lettera morta, eppure oggi è sempre più l’opzione di scelta domenicale in molte parrocchie. E mentre il Papa si esprime sulla necessità di non ignorare ciò che accade nelle parrocchie, non sento – almeno in alcuni ambienti – un’onesta domanda se forse i cattolici che vogliono riprendere a ricevere la Comunione in ginocchio abbiano un “valore ermeneutico” da non “ignorare”.
Così, quando il Papa mette in guardia da “sfarzo e protagonismo”, vorrei sapere come intende proteggere anche da pacchianeria e volgarità, perché quest’ultima è stata spesso il risultato pratico di scelte liturgiche fatte apparentemente in nome di una “Chiesa povera dei poveri”, di solito dai pianificatori della liturgia e del “culto” che si trovano in una posizione comoda e non povera.
I veri poveri, come la Maddalena, non si risentono della generosità per le cose di Dio. La più sommaria familiarità con il cattolicesimo etnico negli Stati Uniti conosce l’elevata nobiltà dello stile di costruzione delle chiese “cattedrali polacche”, i cui esempi abbondavano (prima del “rinnovamento” episcopale della chiesa locale) in luoghi come Chicago, Detroit, Milwaukee, Filadelfia e altrove. Gli immigrati poveri che contribuivano con monetine e spiccioli alla costruzione di questi edifici lo facevano perché volevano che quello stile ricco segnasse sacramentalmente i luoghi di culto.
Anche quando il vero e proprio “stile cattedrale” era al di là delle possibilità di un povero immigrato, la maggior parte delle loro chiese combinava alcuni elementi dello stile gotico o romanico ed elementi nobili (marmo, cristallo) con quelli più pratici (chiesa al piano principale, spazi scolastici al di sotto e al di sopra) per garantire che ciò che era reso a Dio fosse dovuto a Dio a un livello adeguato al santo.
Quindi, prima che la prossima generazione di liturgisti usi gli avvertimenti contro lo “sfarzo e la prominenza” come scusa per il vandalismo ecclesiastico, chiediamo di definire in anticipo cosa significa.