lunedì 14 ottobre 2024

«Io, catapultato negli anni '70 tra picchetti anti aborto e "streghe"»



“Obiettore ti sprangheremo senza fare rumore”; “Solo odio, siete merda, Federvita sottoterra»; “Viscido cristiano, nella bara ti mettiamo”. E poi il blocco e la fuga sul retro scortato da un agente in borghese per poter entrare. Il picchetto femminista al convegno di Federvita di Torino raccontato in presa diretta da uno dei relatori, la firma della Bussola, Scandroglio.


Disordini al convegno federvita

Vita e bioetica


Tommaso Scandroglio,  14-10-2024

Sabato in occasione del Convegno di Federvita Piemonte sul tema “Per una vera tutela sociale della maternità” al collegio San Giuseppe di Torino, si è svolto un presidio organizzato dai collettivi femministi, vicini al centro sociale Askatasuna. Tra slogan, muri imbrattati e picchetti, che hanno impedito ai relatori e ai partecipanti di poter entrare, si è reso necessario l'intervento delle forze dell'ordine per poter dare il via all'iniziativa pro life. Il convegno, alla presenza del vescovo Giovanni D'Ercole, è iniziato con notevole ritardo e alcuni relatori non hanno potuto prendervi parte. Ecco di seguito il racconto in presa diretta di uno dei relatori, la firma della Bussola Tommaso Scandroglio, che invece è riuscito ad entrare scortato da un agente di Polizia.

«Sembra musica rave», annota mentalmente il relatore, pur non sapendo bene quale musica si ascolti durante un rave. Sono le 9.10 e il relatore, mentre si avvicina al Teatro San Giuseppe, vede un furgone del Reparto mobile della Polizia e alcuni poliziotti in assetto antisommossa. L’uomo in cappottino blu e ventiquattrore nera realizza in un attimo cosa sta accadendo. Una trentina di fanciulle, che poi si apprenderà appartenenti ai centri sociali e al gruppo Non una di meno, bloccano l’accesso al Teatro. «Ma quale Stato, ma quale Dio, sul mio corpo decido io», gridano le femministe. Il relatore le guarda con occhio da maschio-etero-bianco-occidentale: «Come tutte le femministe sono poco femminili». Sul muro di fronte alcune scritte concilianti: Obiettore ti sprangheremo senza fare rumoreSolo odio, siete merda, Federvita sottoterra - Cloro sul CleroViscido cristiano, nella bara ti mettiamoNell’aborto che vorrei, antiabortista non ti vorrei (che è un involontario elogio all’antiabortista). Il relatore elabora un pensierino sulle emule di Dante: «Manco una semplice rima sono capaci di mettere insieme».

Poi altre due scritte dedicate ad altrettanti relatori del convegno: Marrone, Torino ti abortisce Adinolfi = aborto mancato. La superbia del relatore si rattrista nel non vedere scritto sul muro nemmeno un insulto a lui dedicato. Ad esempio almeno un Dagli a Scandroglio, servo di Bergoglio.

L’uomo con il cappottino per sua natura sarebbe andato a parlamentare e poi sarebbe entrato a forza. Ma, seppur queste ragazze non se rendano conto, sono pur sempre donne e le donne non si toccano nemmeno con un dito. Inoltre, è inutile discutere con chi ha perso l’udito per aver ascoltato l’errore per troppo tempo e a volume ideologico troppo alto.

  

Il relatore allora si avvicina ad un agente e chiede lumi. «Guardi torni indietro e giri a sinistra senza farsi notare e provi ad entrare dall’altra parte». L’uomo con la ventiquattrore fa finta di chiedere informazioni perché il gruppetto di fanciulle, che probabilmente avranno ricevuto un Daspo per tutti i centri di estetica italiani, è molto vicino e può sentire.

Allora lascia via Andrea Doria, ma anche l’accesso in via San Francesco da Paola è ostruito da un gruppetto di amazzoni della rivoluzione. Passa in mezzo a loro. Queste lo guardano, lui le guarda, loro abbassano lo sguardo. Continua a camminare, svolta di nuovo a sinistra in via dei Mille. Anche il terzo ingresso è presidiato. C’è una camionetta dei carabinieri e alcuni uomini dell’arma anche loro con caschi e scudi. Si avvicina ad un gruppo di uomini che sono vestiti così in borghese che si capisce lontano un miglio che sono della questura. Il relatore si presenta e chiede ad uno di questi: «Perdoni, ma qui si configura l’illecito penale di violenza privata perseguibile anche d’ufficio. Non fate nulla?». E l’altro assai cortese: «Ha perfettamente ragione, ma adesso cerchiamo di capire come intervenire». Il relatore lo rincuora: «Capisco benissimo che non potete usare le maniere forti altrimenti domani su tutti i giornali uscirebbero titoli come Il governo fascista e patriarcale manda all’ospedale il dissenso. Basterebbe un graffio sull’immacolata testa di una qualsiasi di queste fanciulle e un’altra testa, quella del Ministro dell’Interno, cadrebbe all’istante». Lo sguardo dell’agente parla da sé.

Le ragazze del collettivo, tra cui una vestita da simil Gabibbo, urlano: «L’aborto non si tocca!». E poi: «L’utero è mio e lo gestisco io!». Slogan vecchi di cinquant’anni. Sembra di essere tornati agli anni Settanta, ma tutto appare anacronistico e così prevedibile, stereotipato, polveroso. Attaccano un microfono ad una cassa portatile. Una rabbiosa invettiva sul corpo delle donne che deve diventare un sepolcro per i loro figli, sulla libertà di scelta di essere mandanti di un omicidio, sulla persecuzione di quei medici che non vogliono fare i sicari, come ha detto Papa Francesco. Tutto berciato con la schiuma alla bocca. «Più che Non una di meno mi pare Ma ora ti meno», conclude mentalmente l’uomo con il cappottino.


La pietà verso queste fanciulle masticate da una vetero cultura femminista è frammista dalla noia di ascoltare un disco rotto. Gli agenti della questura scattano foto alle ragazze e le ragazze ricambiano. I click degli smartphone hanno sostituito lacrimogeni e bombe molotov.

Passa il tempo, l’uomo con la ventiquattrore chiama alcuni organizzatori: sono riusciti ad entrare prima che arrivassero le paladine dell’utero vuoto di vita. Ritorna in via Doria. Un giornalista lo intervista. Il relatore parla di aborto come assassinio, di inesistenza del diritto dei medici di uccidere le persone perché chiamati a fare l’opposto, al dato che tutte le donne dal '78 ad oggi che hanno voluto abortire lo hanno fatto senza problemi, purtroppo. Il giornalista chiede in continuazione se ha capito bene, se davvero crede vere tutte queste cose. «Senta – risponde il relatore – se voleva altre risposte, poteva andare da quelle lì con gli striscioni in mano».

Le forze dell’ordine intanto hanno chiuso via San Francesco. I collettivi rosa hanno compreso che gli sbirri, come li chiamano loro, vogliono organizzare un cordone per far entrare nel teatro relatori e pubblico e dunque tutte la giacobine convergono in via San Francesco. Un agente inizia a discutere con loro. Il relatore è troppo lontano e non riesce a sentire.

Invece accosta un altro uomo in borghese della questura: «Senta, voglio entrare». E lui: «Allora mi segua». Fanno un ampio giro per seminare alcune sentinelle. La scena è surreale: un agente di polizia deve seminare chi si è macchiato almeno di qualche reato in quella giornata. «L’hanno già inquadrata», fa l’agente al relatore e questi pensa: «Ovvio, sono venuto vestito in alta uniforme da conferenziere». Tornano a via dei Mille, ormai deserta. L’agente chiama il custode che apre la porta mentre si avvicinano altri partecipanti al convegno. Purtroppo questi sono stati pedinati. Ecco allora che il relatore e i partecipanti si fiondano nello stretto vano della porta immediatamente seguiti da una ragazza che riesce mettere un piede tra la porta e lo stipite. Con eccelsa grazia e delicatezza il piede viene divelto dalla porta.

«Sono dentro», mormora tra sé il relatore. Altra scena surreale. Sembra di essere in un fortino. Asserragliati dai nemici dei bambini, che dentro quel teatro invece trovano protezione, sequestrati dall’abortismo estremo, ostaggi del pensiero unico che fa passare dentro il teatro unicamente chi vuole, che dialoga solo con chi la pensa uguale, che ha l’esclusiva sull’inclusione, che accetta le differenze solo se sono identiche al suo modo di pensare, che è per il pluralismo delle idee a patto che quelle idee vengano solo da una parte, che è per la pace ma solo con gli amici. All’uomo in cappottino viene da pensare che la libertà di pensiero in Italia è tutelata benissimo: intervengono addirittura dozzine di agenti e carabinieri per difenderla. Il relatore entra in teatro. Le luci sono fioche. Una decina di persone recitano il rosario guidato da Mons. Giovanni d’Ercole, vescovo emerito di Ascoli Piceno e uno dei relatori. L’uomo con la ventiquattrore incontra poi un amico che ha parlato con alcune di queste ragazze. Incalzate sul fatto che il nascituro è un essere umano ad un certo punto se ne sono andate. Il buio oltre lo slogan.

Dopo due ore il cordone di polizia fa entrare i partecipanti e finalmente iniziano le relazioni. Adinolfi e l'assessore regionale Marrone non verranno. Strategia mediatica per farsi passare come vittime di una protesta illiberale. Una consapevolezza pare aleggiare in platea: convegno riuscitissimo. Le agenzie di stampa battevano la notizia già prima dell’inizio del convegno.

Arriva l’ora di pranzo. Le femministe tornano a casa. La mamma ha fatto i ravioli con ripieno di ricotta. I ravioli sono più efficaci dei manganelli e la rivoluzione può attendere. La fame è pro-life.








Il cerchio del tempo nel mondo pre-medievale. Nessun inizio, nessuna fine




Nella traduzione a cura di Chiesa e post-concilio da Via Mediaevalis, la prosecuzione degli articoli che mostrano la visione, nelle varie epoche, del tempo nelle sue varie dimensioni: abbiamo visto il tempo lineare teleologico dei monasteri nella sua dimensione più pragmatica [qui] e poi nell'oltre della sua dimensione metafisica [qui]. Nell'articolo che segue ne analizziamo il concetto di ciclo infinito di ripetizione e rinnovamento. Gli articoli continueranno e per me sarà una gioia condividerli per chi, sulla stessa lunghezza d'onda, li trovi interessanti.





Robert Keim, 8 ottobre 2024

Così fluisce e rifluisce la corrente del suo dolore,
E il tempo stanca il tempo con le sue lamentele.
Lei cerca la notte, e poi brama il domani,
E ad entrambi pensa anche troppo a lungo con ciò che le resta.
Il breve tempo sembra lungo nel duro sostegno del dolore;
Sebbene il dolore sia pesante, tuttavia dorme di rado.
E coloro che osservano vedono quanto il tempo è lento a insinuarsi.
—Shakespeare, “Lucrezia”

Domenica abbiamo iniziato il nostro viaggio nella temporalità medievale esaminando la concezione lineare e teleologica del tempo che ha accompagnato e influenzato potentemente la cultura post-medievale. Oggi prenderemo in considerazione l'estremità opposta dello spettro teorico: il tempo come un ciclo infinito di ripetizione e rinnovamento. Per quanto estraneo o non scientifico possa sembrare questo modello ciclico del tempo a coloro che sono stati istruiti nell'Occidente moderno, è davvero così che il tempo e la storia umana erano concepiti nelle antiche civiltà dell'India, della Grecia e, forse in misura minore, di Roma.
Nell'antica cultura indiana, l'esistenza cosmica e umana erano così profondamente cicliche che non esisteva essenzialmente alcuna nozione di storia come la intendiamo oggi. Lo storico indiano RC Majumdar dichiarò che ad eccezione del Rajatarangini di Kalhana, che è semplicemente una storia locale del Kashmir, non esiste nessun altro testo storico nell'intera gamma della letteratura sanscrita che ... possa essere considerato storia nel senso proprio del termine.

E questo nonostante il fatto che "non c'è quasi un ramo della conoscenza umana o un argomento di interesse umano che non sia adeguatamente rappresentato nella letteratura sanscrita". Pensate a tutti i libri di storia che oggigiorno potreste trovare in una sola biblioteca universitaria. Nell'antica India, il genere non esisteva. Provate a immaginare quanto sarebbe diversa la vostra esperienza di vita se tutti quei libri e tutta la conoscenza che contengono, semplicemente scomparissero: storie del passato, sconosciute; ciò che è venuto prima, non raccontato; l'origine e l'evoluzione del mondo in cui vivete ora, dimenticate. Il tempo era un ciclo, la vita era un ciclo e la storia, come ha spiegato un altro studioso, era una pericolosa illusione da cui l'uomo, nella ricerca della saggezza, deve liberarsi.


Re Dabschelim dell'India e il filosofo favolista Bidpai 
(vedi Kalila e Dimna ); ca. XI secolo. (immagine a lato)

La situazione nell'antica Grecia era meno estrema. Innanzitutto abbiamo la mitologia greca, che era profondamente interessata all'origine delle cose e agli eventi cruciali (il trionfo di Zeus, l'età dell'oro della pianura di Mecone, Prometeo e il fuoco, Pandora e il vaso) che aiutavano a spiegare la natura precaria e paradossale dell'esistenza dell'uomo.

Inoltre, le supreme glorie della letteratura greca, l'Iliade e l'Odissea di Omero, erano narrazioni poetiche chiaramente radicate in un senso di realtà storica. Omero e le sue opere non avrebbero mai potuto raggiungere una stima così immensa se gli antichi greci avessero liquidato la storia come un'illusione che ostacola il cammino verso la saggezza. Ad esempio, in un breve passaggio della Poetica , Aristotele fa riferimento sia alla grandezza di Omero sia alla natura storica del suo argomento:

Qui… abbiamo un'ulteriore prova della meravigliosa superiorità di Omero rispetto agli altri. Non tentò nemmeno di trattare la guerra di Troia nella sua interezza, sebbene fosse un tutt'uno con un inizio e una fine definiti.

Dobbiamo però anche ricordare che Aristotele considerava la poesia più nobile e edificante della letteratura storica:
Il poeta e lo storico non differiscono dallo scrivere in versi o in prosa... La vera differenza è che uno racconta ciò che è accaduto, l'altro ciò che potrebbe accadere. La poesia, quindi, è una cosa più filosofica e più elevata della storia: perché la poesia tende a esprimere l'universale, la storia il particolare.
E nonostante il senso della storia che vediamo nella letteratura greca, le idee di ciclicità epica erano diffuse nell'antica Grecia. Nel Politicus, ad esempio, Platone menziona una credenza nei cicli di rigenerazione che governano l'esistenza del cosmo e della razza umana:
Questi primi antenati erano figli di genitori di origine mortale; sono vissuti nel periodo immediatamente successivo alla fine dell'era dei mortali, alla fine del precedente periodo di rotazione cosmica e all'inizio di quello attuale.

Anche nel Timeo leggiamo di eventi catastrofici dopo i quali l'umanità deve "ricominciare tutto da capo come bambini, e non sapere nulla di ciò che è accaduto nei tempi antichi". Aristotele, nella Metafisica, allude in modo simile alla storia come a un ciclo in cui la civiltà umana ripetutamente prospera e muore, evocando i ritmi di vita di una foresta decidua piuttosto che la marcia in avanti della modernità del continuo progresso scientifico: "probabilmente ogni arte e ogni scienza sono state spesso sviluppate il più possibile e sono di nuovo perite".

Aristotele inginocchiato davanti alla personificazione
 della Sapienza; XIV secolo. (Immagine a lato)


Di nuovo, facciamo un passo indietro e pensiamo a cosa significhi realmente. Le affermazioni di Platone e Aristotele, prese come mera cosmologia o antropologia, possono sembrarci stravaganti. Ma dobbiamo guardare oltre la superficie delle loro parole e cercare i principi sottostanti; dopotutto, erano amanti della saggezza, non scienziati nel senso moderno. Ciò che vedo nel tempo ciclico degli antichi Greci è sensibilità alle lusinghe e protezione dai pericoli del tempo lineare. Vedo un avvertimento contro l'idolatria del progresso, ovvero contro l'ammirazione eccessiva per i nostri successi culturali; contro la fede quasi religiosa nel nostro potenziale di magnificenza autoprodotta; contro la convinzione arrogante che stiamo sempre superando ciò che è venuto prima, che le nostre cose nuove sono necessariamente cose migliori e che il mezzo principale per risolvere i problemi dell'umanità è l'innovazione piuttosto che la restaurazione.


Il terzo giorno della Creazione; XIV secolo.

La concezione romana antica del tempo storico mostra una miscela di modalità lineari e cicliche e ci conduce, attraverso Sant'Agostino, alla temporalità multiforme e altamente spiritualizzata del Medioevo.

Per prima cosa prendiamo in considerazione la filosofia stoica. Lo stoicismo ebbe origine in Grecia nel terzo secolo a.C. e non era affatto un sistema di credenze universale. Tuttavia, era ben conosciuto a Roma e lasciò un'impressione durevole sulla cultura romana. La cosmologia stoica proponeva un modello di storia di estrema ciclicità; David Sedley, professore di filosofia antica a Cambridge, lo ha spiegato nel modo seguente:

Il mondo stoico è una creatura vivente con un ciclo di vita fisso, che termina in una "conflagrazione" totale [cioè, distruzione tramite fuoco o, come alcuni credevano, tramite acqua] …. Essendo il miglior mondo possibile, sarà poi seguito da un altro mondo identico, poiché qualsiasi variazione della formula dovrebbe essere in peggio. Così gli stoici giungono alla sorprendente concezione di una serie infinita di mondi identici: la dottrina della ricorrenza ciclica, secondo la quale la storia si ripete in ogni minimo dettaglio.
Nessun inizio, nessuna fine: per gli stoici, il tempo storico era un ciclo infinito di autodistruzione e identica ricomparsa. Ti sembra assurdo? A me sembra assurdo. E tuttavia, ci credevano membri intelligenti di una civiltà notoriamente erudita.

Come contrappunto allo stoicismo, tuttavia, abbiamo la mitologia romana, che include la nozione di un Inizio, quando il mondo emerse dal caos. Abbiamo anche l'Eneide di Virgilio ; sebbene non sia affatto priva di temporalità ciclica, trasmette una visione notevolmente teleologica della storia: c'è la sensazione che la narrazione storica epica del poema si muova costantemente dall'origine verso il completamento. E, cosa interessante, entrambi questi punti finali possono essere identificati con individui: ciò che inizia in Enea si compie nell'imperatore Augusto.

Nella poesia epica del cristianesimo, una Persona 
è “l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine” 
(Apocalisse 22:13); XIV secolo. (Immagine a lato)


E ora che ci stiamo avvicinando al completamento di questo saggio, passeremo da Augusto ad Agostino. Nella Città di Dio, affronta direttamente la questione del tempo ciclico rispetto a quello lineare:

Alcuni filosofi non hanno trovato altro mezzo approvato per risolvere questa controversia se non quello di introdurre cicli del tempo, nei quali dovrebbe esserci un costante rinnovamento e ripetizione dell'ordine della natura; e hanno quindi affermato che questi cicli si ripeteranno incessantemente.
Agostino rifiutò tali nozioni, che attribuì all’ignoranza dei filosofi che non riuscivano a “penetrare l’imperscrutabile sapienza di Dio”:

Poiché, benché Egli stesso fosse eterno e senza inizio, tuttavia [Dio] fece sì che il tempo avesse un inizio… E l'uomo, che non aveva mai creato prima, volle crearlo nel tempo.Inoltre,
Cristo morì una volta per i nostri peccati; e, risorgendo dai morti, non muore più.
Per Agostino, il tempo ciclico era un'impossibilità teologica. Egli vedeva la modalità temporale fondamentale della storia della salvezza e della civiltà cristiana come "movimento lineare dalla Creazione all'Apocalisse, un processo teleologico diretto verso l'unico obiettivo della salvezza individuale".(1)

Sant'Ambrogio battezza Sant'Agostino; XV secolo. 

Abbiamo iniziato con il tempo lineare e teleologico come modalità temporale prevalente del pensiero moderno, poi siamo tornati al tempo ciclico dell'Antichità e ora siamo tornati al tempo lineare e teleologico, ma non siamo neanche lontanamente vicini alla modernità!

Piuttosto, stiamo guardando con Sant'Agostino all'alba del Medioevo. Dato che Agostino e la cultura moderna sono compatibili quanto il fuoco e l'acqua, dobbiamo risolvere questa situazione.

Lo faremo nel prossimo post, quando esploreremo la via media: non il tempo ciclico, non il tempo lineare, ma il tempo medievale.



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1 Andrew Fichter, Poeti storici: epica dinastica nel Rinascimento. Yale University Press (1982), p. 64







domenica 13 ottobre 2024

La commedia sinodale: Atto II


Sinodo sulla sinodalità (foto di GettyImages) ottobre 2023


Articolo scritto da Padre John A. Perricone, pubblicato su Crisis magazine.  Ecco l’articolo nella traduzione curata da Sabino Paciolla (13 Ottobre 2024).



Padre John A. Perricone*

Gli assalti alla città di Roma, sede di Pietro, non sono stati infrequenti nel corso dei millenni.
Attila ci provò. Ma fallì quando si trovò di fronte alla formidabile presenza di Leone, detto “il Grande”, con un drammatico voltafaccia.
Napoleone conquistò Roma nel 1809.
I nazionalisti italiani del Risorgimento attaccarono Roma nel 1848, costringendo il Beato Pio IX a fuggire con una semplice tonaca romana nera a Gaeta, nel Regno delle Due Sicilie.
Hitler sottomise Roma il 4 giugno 1944.

Ma nessuna di queste può essere paragonata all’assalto che Roma sta subendo oggi. Questa volta il nemico è l’Ascolto Sinodale II, e non è altro che lo sperpero dell’eredità salvifica di Cristo. Assistere alla sfilata di principi della Chiesa e di prelati assortiti, come in un esercizio di auto-realizzazione rogersiana, fa rabbrividire un cattolico. Se non fosse per le parole di Cristo: “E le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”, un cattolico sarebbe tentato di pensare di essere testimone della fine del cattolicesimo.
Questa élite al potere si è comportata come se fosse un fanatico partecipante a una sessione di lotta maoista. Queste mostruose manifestazioni storiche hanno trascinato i cittadini cinesi in una specie di tribunale e li hanno gratuitamente accusati di essere “nemici di classe”. Venivano poi umiliati, accusati, picchiati, torturati e messi a morte.

Nelle sessioni sinodali, è la Fede a essere trattata così. La sua maestosità viene calpestata, per poi essere scambiata con i gingilli a buon mercato della migliore psicologia che il denaro possa comprare. Tanto più agghiacciante è la gioiosa disponibilità con cui i successori degli apostoli hanno partecipato. Immaginate. Sul terreno consacrato dal sangue di Pietro e Paolo e di innumerevoli altri martiri, i loro successori si esibiscono come una troupe di saltimbanchi. Mostrano la gravitas degli spaventapasseri.
Si esita ad accusare questi sinodali di eresia, perché c’è troppo poco per meritare il peso di un tale biasimo. L’eresia richiede probità e finalità. È roba da uomini seri. Questi sinodali sono portatori vertiginosi del cadavere di una sinistra cattolica spenta.

Prima dell’inizio del Sinodo, è stato imposto un “ritiro”. Sapete, l’insipido richiede preparazione. Per ingannare le masse cattoliche, la follia richiede di imitare il vecchio cattolicesimo, anche se è solo un guscio vuoto. Da qui la veste altrimenti rispettabile del “ritiro”. Il ritiro sinodale è stato tanto vicino a un ritiro autentico quanto l’astronomia lo è all’astrologia.

Date una rapida occhiata a una copia dell’ordine del giorno e preparatevi a rabbrividire. Inizia così:

La liturgia penitenziale intende orientare i lavori del Sinodo verso l’inizio di un nuovo modo di essere Chiesa. Nella Basilica di San Pietro, la celebrazione penitenziale, presieduta da Papa Francesco, prevede l’ascolto di tre testimonianze di persone che hanno subito il peccato: il peccato dell’abuso: il peccato della guerra: il peccato dell’indifferenza ai drammi presenti nei crescenti fenomeni di migrazione in tutto il mondo. Confesseranno i:

– Peccati contro la pace.
– Peccati contro la creazione, contro le popolazioni indigene, contro i migranti.
– Peccati di abuso.
– Peccati contro le donne, la famiglia, i giovani.
– Peccati di usare la dottrina come pietre da scagliare.
– Peccati contro la povertà.
– Peccati contro la sinodalità / mancanza di ascolto, comunione e partecipazione di tutti.

Questo è il frastuono di Babele. Da dove si comincia? Il compito è simile a quello di inchiodare le gocce di pioggia. La domanda più ovvia: Qual è il “peccato di usare la dottrina come pietre da scagliare”? Potrebbe riferirsi alla difesa della Rivelazione di Cristo? Se è così, ci si chiede cosa ci sia da credere. Se la dottrina è qualcosa di offensivo, allora lo scopo della Chiesa di Cristo svanisce. La dottrina è l’insegnamento immutabile della fede. Se questo non può essere usato come corazza e scudo, allora cosa lo è?
Questa stessa domanda mette in discussione lo scopo del martirio. San Giovanni Fisher è andato incontro alla morte perché “scagliava la dottrina contro i suoi nemici”? La sua decapitazione fu allora inutile? Anzi, un peccato? Il Concilio di Trento è stato un episodio nefasto perché ha definito le dottrine come modi per sedare il fuoco dell’eresia protestante?

La ragione qui rimane stupefatta. L’analisi teologica si arresta. Contro questi luoghi comuni da flusso di coscienza non c’è via d’uscita. Nella sua Metafisica, Aristotele osserva che cercare di discutere con un uomo che ha abbandonato la ragione è come parlare a un vegetale. È questa la nostra situazione?
I cattolici che non sono imbarazzati da questa nebbia devono verificare se il loro carattere battesimale si è affievolito. Le cerimonie della Pachamama e i nuovi riti maya e amazzonici della Messa sono stati solo un debole preludio alle inanità del ritiro del Sinodo. Questi sinodali si presentano come un branco di nuovi Mosè che promulgano una lista di peccati terribilmente all’avanguardia. Una volta i teologi modernisti degli ultimi anni erano impegnati a seppellire qualsiasi menzione del peccato. Questa nuova generazione è ora impegnata a rianimarlo. Ma peccati di colore diverso. Un colore che non ha alcuna somiglianza con il cristianesimo.

I lettori di Crisis potrebbero sorridere di tutto questo. E dovrebbero farlo. La tragedia è che il novanta per cento del mondo cattolico penderà dalle labbra di questo Sinodo e lo tratterà con la riverenza del Vangelo.
Forse loro, e i sinodali, dovrebbero leggere la Guida pastorale di San Gregorio Magno del 599:
Avanzare contro il nemico implica un’audace resistenza alle potenze di questo mondo in difesa del gregge. Resistere in battaglia nel giorno del Signore significa opporsi al nemico malvagio per amore di ciò che è giusto. Quando un pastore ha avuto paura di affermare ciò che è giusto, non ha forse voltato le spalle ed è fuggito rimanendo in silenzio? Se invece interviene a favore del gregge, erige un muro contro il nemico davanti alla casa d’Israele…
La parola di rimprovero è una chiave che apre una porta, perché il rimprovero rivela una colpa di cui il malfattore è spesso inconsapevole. Per questo Paolo dice del vescovo: deve essere capace di incoraggiare gli uomini nella sana dottrina e di confutare quelli che vi si oppongono…

Chiunque venga ordinato sacerdote si assume il compito di predicare, affinché con un forte grido possa precedere il terribile giudice che lo segue. Se, dunque, un sacerdote non sa predicare, che tipo di grido può emettere un araldo così muto? È per far capire questo che lo Spirito Santo discese sotto forma di lingue sui primi pastori, perché egli fa sì che coloro che ha riempito parlino spontaneamente.

San Gregorio Magno sta forse “usando la dottrina come pietre da scagliare”?
Che terreno pericoloso hanno scelto di percorrere questi sinodali.
Ma tutto questo non deve essere accolto né con rancore né con disperazione. Nei cuori autenticamente cattolici non c’è spazio per questi sforzi.

Ricordiamo l’occasione della visita di Sant’Ignazio poco dopo l’approvazione della Compagnia di Gesù nel 1540 da parte di Papa Paolo III. Egli si recò in Spagna per incontrare il cardinale arcivescovo di Toledo, Juan Pardo de Tavera, per chiedere il permesso di far lavorare la sua nuova Compagnia nella sua arcidiocesi. Il cardinale rifiutò categoricamente. Il santo tornò quindi dal suo piccolo gruppo di nuovi sacerdoti e annunciò la notizia. I sacerdoti rimasero sconcertati. Subito Sant’Ignazio li incoraggiò: “So che siete tristi, ma questo significa semplicemente che Nostro Signore si aspetta grandi cose da noi”.
Sant’Ignazio ci ripete oggi la stessa esortazione dal cielo. In mezzo a una crisi senza precedenti, c’è l’invito di Cristo vittorioso. In due millenni, la Sua Santa Chiesa è risorta da crisi ben più grandi. Lo farà anche oggi. Ma non senza laici ispirati come i lettori di Crisi e i loro amici.

Siate certi che la crisi si aggraverà e il tempo per trovare una soluzione si allungherà ulteriormente.
Ma i cattolici attenti e intelligenti non hanno altra possibilità che la preghiera. Ognuno deve esaminare le proprie azioni alla luce delle parole profondamente toccanti del nostro Salvatore nel Libro dell’Apocalisse: “Ma poiché sei tiepido e non sei né caldo né freddo, comincerò a vomitarti dalla mia bocca” (Apocalisse 3:16).

Questi devono essere considerati tempi per i cattolici per fare grandi cose.
Cominciamo.





*P. John A. Perricone, Ph.D., è professore aggiunto di filosofia presso la Iona University di New Rochelle, New York. I suoi articoli sono apparsi su St. John’s Law Review, The Latin Mass, New Oxford Review e The Journal of Catholic Legal Studies. Può essere contattato all’indirizzo www.fatherperricone.com.






Ci interessa una coscienza cristiana?



Part. della vetrata dedicata a F. Jägerstätter nella Votivkirche di Vienna. (Haeferl, wiki)





Marta Dell'Asta, 11 Ottobre 2024

Il discernimento di una coscienza illuminata dal Vangelo non è roba d’altri tempi. È quello che ci manca oggi.

«La vera storia della Chiesa è la storia dei santi e dei martiri» ha detto papa Francesco, ricordandoci implicitamente che la testimonianza è essenziale per i cristiani: in quanto battezzati, tutti vi siamo tenuti. Ricordarlo e capirne il valore non è solo un gesto di pietà: l’esperienza dei confessori della fede e dei testimoni getta una nuova luce sulla nostra vita e sui fatti della storia in cui siamo immersi, offrendoci un orientamento in un periodo che per la sua drammaticità ci vede sempre più sgomenti, quasi incapaci di vedere una via di uscita tra la disperazione che ci annichila e il desiderio di voltare la faccia dall’altra parte, non solo per non vedere, ma anche per dimenticare, o per convincerci che non sia successo nulla.

Non siamo capaci di un giudizio, e anche quando ci riferiamo alla tradizione cristiana, il Vangelo e i santi ci sembrano cose di un altro mondo, ormai scomparso e irripetibile, troppo spirituale per i nostri tempi: la verità e la misericordia, la giustizia e il perdono sembrano inconciliabili e anche il solo accostare queste parole ci sembra uno scandalo insostenibile.

Ci sembra di vivere in un tempo maledetto dove non è più possibile essere cristiani. Eppure, la testimonianza dei martiri è stata spesso, se non sempre, scandalosa e questo non ha impedito la loro esistenza né, poi, la loro venerazione. Persino l’antico martire sant’Alessandro – se proviamo a immedesimarci in una situazione storica concreta – in quanto soldato e comandante di centuria avrà fatto scandalo tra i suoi commilitoni per essersi rifiutato di eseguire gli ordini e far strage di cristiani. Il suo era un tradimento dell’impero, del giuramento militare. Noi oggi questo non lo consideriamo, per cui ci sembra che allora tutto fosse più semplice e spirituale. Lo stesso se pensiamo ai recenti «nuovi martiri russi» del XX secolo che caddero vittime del regime bolscevico, o ai ragazzi della Rosa Bianca o a Dietrich Bonhoeffer, tutti loro hanno accettato di testimoniare la verità in circostanze nelle quali per lo spirito non sembrava esserci grande spazio.

E allora – osservava padre Aleksej Uminskij in una predica recente – cosa possiamo chiedere ai nuovi martiri che vediamo in fotografia non col nimbo della gloria ma con volti sfatti e sconvolti, così poco spirituali: che ci vada bene l’esame? Di trovar casa?

Con il nostro materialismo, questi santi non ci servirebbero a granché; a meno che gli si possa chiedere ancora qualcosa che c’entra con la loro santità: semplicemente, che ci aiutino ad essere come loro, fedeli a Cristo. Però chiedere questo implica una condizione importante: «I nuovi martiri e confessori – continuava Uminskij – dicevano la verità; non avevano paura della verità (…). Invece a noi viene comodo chiedere ai santi d’altri tempi che ci facciano vivere felici e contenti (…) mentre varrebbe la pena che noi chiedessimo di diventare dei veri cristiani, delle persone oneste che non hanno paura di dire la verità, di testimoniare quella stessa verità divina che ci annuncia il Vangelo».

Questo potrebbe andar bene non solo per i cristiani ma per tutti gli uomini sinceramente innamorati della verità, del bene e della giustizia.

Per essere veri cristiani, però, sosteneva ancora padre Uminskij, bisogna amare così tanto la verità da avere il coraggio di testimoniarla, esponendosi pubblicamente, scontrandosi con la mentalità corrente, essendo disposti a mostrare a cosa si tiene veramente. Come aveva scritto Aleksej Naval’nyj dal lager un mese prima di essere ucciso, chiarendo i termini della questione: «Se le tue convinzioni valgono qualcosa devi essere pronto a difenderle. E, se necessario, devi essere disposto ad accettare dei sacrifici. Se non sei pronto, significa che non hai nessuna convinzione. Pensi di averne, tutto qui. Ma non sono né convinzioni né principi, sono soltanto delle idee che hai nella testa».
La verità implica dunque un sacrificio e, senza arrivare alle prove estreme, il prezzo da pagare può essere anche semplicemente l’isolamento, come osservava il cardinal Pizzaballa, patriarca dei cattolici latini di Terra Santa, confessando che oggi, nel nodo insolubile delle ragioni e torti della guerra, il suo attaccamento alla verità – che è Cristo e non una delle parti belligeranti – lo condanna a una certa solitudine, che lui accetta però come una condizione utile e profetica.

Deve essere chiaro però che, se facciamo fatica ad ascoltare e ad accettare testimonianze come queste, non è perché le condizioni di oggi siano più difficili di quelle che vennero affrontate sotto il potere nazista o bolscevico: è la nostra coscienza cristiana ad essere fragile e smarrita.
E la coscienza non sono «le idee che hai in testa», le opinioni, che facciamo e disfiamo con la facilità con la quale ci si cambia d’abito, ma qualcosa che va formato e verificato ogni giorno in un continuo confronto con i fatti, perché la coscienza non è mai formata definitivamente: essa cammina nella realtà e si lascia continuamente plasmare, in un percorso che, per un cristiano, è segnato dal confronto con la parola di Cristo e con l’insegnamento della Chiesa.

La coscienza implica dunque innanzitutto una questione di responsabilità di fronte al reale, di fronte ai fatti che non possono mai essere confusi con le opinioni che noi ci creiamo su di essi; qui la differenza è radicale e si fonda su un’alternativa evidente: tra la pretesa di creare noi la realtà e la verità, concependola come un nostro possesso geloso che ci rende ciechi di fronte alla complessità del reale e tendenzialmente aggressivi.

Sulla prima questione vale l’acuta puntualizzazione di padre Zelinskij: se le nostre idee costituiscono un muro che i semplici fatti non riescono a penetrare, vuol dire che non stiamo usando la ragione, ma pulsioni che vengono da passioni, voglie, fantasmi che infestano la nostra memoria.

Sull’aggressività con la quale spesso crediamo di poter difendere la verità, varrà la pena osservare che sacrificarsi per la verità non significa sacrificare gli altri: anche i jihadisti sacrificano la vita (non solo la loro, oltre tutto), ma lo fanno per odio; diverso è il sacrificio come forma di incarnazione di un amore concreto per chi abbiamo davanti, la moglie, i figli, gli amici, il proprio paese.

Oltre a richiedere l’impegno della responsabilità, la coscienza ha dunque bisogno anche dell’uso della ragione, secondo un legame che Naval’nyj aveva ben colto: «Rinunciare alla coscienza alla fine dei conti porta a rinunciare al raziocinio», aveva detto alla fine del suo processo farsa per estremismo, ricordando che rinunciare alla prima rende immorali e rinunciare al secondo rende inefficaci, incapaci di una qualsiasi azione, mentre la ragione non è il regno delle astrazioni, accessibile solo a pochi eletti, ma una questione assolutamente concreta che impegna tutti.

Un’illustrazione impressionante di cosa possa fare una retta coscienza che cresce con la vita e usa la ragione la troviamo nel contadino austriaco Franz Jägerstätter che, nonostante fosse un uomo semplice e illetterato, era arrivato a capire la disumanità radicale del nazionalsocialismo, distaccandosi in questo da tutti i suoi compaesani. E, una volta divenuto certo dell’incompatibilità assoluta tra nazismo e cristianesimo, era arrivato a rifiutare la chiamata alle armi, per la qual cosa fu ghigliottinato nel 1943.

Come aveva potuto lui arrivare a tanta chiarezza? Innanzitutto, tenendo gli occhi ben aperti sui fatti che accadevano (e sui quali riusciva trovare il modo di informarsi nonostante la censura nazista, mentre noi spesso viviamo solo di un sentito dire che spacciamo per libertà e pluralismo di informazione) e poi confrontandosi lealmente con la parola di Dio, pregando intensamente; così era arrivato a formulare sul nazionalsocialismo un giudizio di cui né il suo parroco, né il suo vescovo, né tutta la comunità del suo villaggio erano stati capaci.

Ma Jägerstätter si era lasciato muovere da un senso di responsabilità che non poteva mettere a tacere e lo distingueva, come diceva lui stesso, da «quelli che non vogliono riconoscere la pericolosa situazione nella quale ci troviamo o che non nuotano controcorrente semplicemente perché è più faticoso che lasciarsi trasportare dalle onde»; ma la linea del disimpegno priva l’uomo di qualcosa di essenziale: «la capacità di giudizio e di azione».

Questa capacità di giudizio era per lui coessenziale alla fede; per esempio, gli aveva permesso di distinguere il dovere dell’obbedienza civile all’autorità costituita dal dovere di non obbedire là dove la coscienza vedeva l’abuso dello Stato. Jägerstätter a questo proposito arriva a dire qualcosa di veramente sconvolgente per noi, per il nostro qualunquismo: «Davvero queste autorità hanno davanti a Dio una responsabilità così grande, come noi crediamo, e noi siamo incolpevoli? Dio ci giudicherà più per la nostra capacità di discernimento che per il ruolo da noi coperto».

Forse, se non capiamo quel che succede è perché non ci interessa più di tanto farlo, mentre Franz, che aveva un autentico amore per Cristo, aveva raggiunto quel discernimento che a noi manca. Lo stesso «percorso di discernimento» è possibile anche nella nostra epoca così confusa, ma richiede tutta la nostra ragione, la nostra umanità, e un sincero amore per Cristo.

Davvero, come diceva padre Uminskij, venerare i santi significa imitarli e seguirli nel loro cammino, a patto che si desideri veramente questo cammino e che si capisca che è possibile in qualsiasi condizione, di fronte a qualsiasi male. Ce lo ci ricorda un testimone purtroppo dimenticato, Michail Novosëlov (1864-1938), storico e pensatore russo che nel periodo staliniano trascorse dieci anni in prigionia, privato della possibilità di insegnare e di scrivere; e che oltretutto patì l’atroce delusione di vedere i vertici della sua Chiesa conniventi con il potere ateo; e che infine subì la condanna alla fucilazione, apparente trionfo finale del nemico.
Evidentemente quest’uomo visse lo scontro con l’imponenza del male, ma pur nella drammaticità della sua vita conservò al fondo una certezza positiva che ricomprendeva anche il male:

«Ai nostri giorni – scriveva – si mostra con forza il “mistero dell’iniquità” ma non deve turbare i cristiani, fiduciosi nell’incrollabilità della Chiesa di Dio. L’anticristo e i suoi profeti non devono far paura ai figli della Chiesa che è “colonna e fondamento della verità”. (…) Non affliggetevi, gli sconvolgimenti sono necessari per risanare il corpo ecclesiale. (…) Misteriosamente, attraverso le mani degli empi, il Signore compie la sua santa volontà, lavando la sua Sposa nel sangue dei martiri e dei confessori».

La sfida di questa coscienza si ripropone a noi oggi in tutta la sua luce.








sabato 12 ottobre 2024

Il relativismo che non guasterebbe, oggi...



Il mondo moderno e relativista ha a lungo brandito la libertà di parola come un’arma contro l’egemonia culturale cattolica. Ora quello stesso mondo rifila Tso, licenziamenti, arresti, eccetera, a chiunque si esprima o addirittura preghi e pensi in modo non gradito.


Tempi bui

Editoriali



Roberto Marchesini, 12-10-2024

Ve la ricordate la «dittatura del relativismo»? Era l’aprile del 2005, durante il conclave, quando il cardinale Joseph Ratzinger tenne una splendida omelia per la Missa pro eligendo Romano Pontifice (che poi fu lui stesso). A un certo punto, come una bomba, esplose una frase destinata a segnare il discorso pubblico: «Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». E proseguiva: «Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È Lui la misura del vero umanesimo». Divenne, quello, un grido di battaglia che fu subito colto da ampie parti del mondo cattolico: combattere la «dittatura del relativismo» affermare Cristo come Via, Verità e Vita dell’uomo. Bei tempi, quelli in cui c’era ancora una battaglia da combattere; quelli in cui c’era la dittatura del relativismo.

La cultura moderna metteva in discussione l’egemonia culturale cattolica, chiedeva un ascolto rispettoso per culture altre, diverse dal cattolicesimo. La sola idea che l’errore non avesse diritti, compresi quelli costituzionali di espressione, era rifiutata come medievale, oscurantista eccetera eccetera. Erano anni che si tentava di scardinare quel punto, persino a scuola. Quanti di noi si sono sentiti ammonire: «Bisogna ascoltare anche l’altra campana»? In fondo, ognuno ha le sue ragioni, no? Bei tempi, quelli dell’altra campana...

E poi: come dimenticare il falso aforismo attribuito a Voltaire che recita: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire»? Che levatura morale, questi illuministi: tengono così tanto alla libertà d’espressione da dare la vita per garantirla anche a coloro che non la pensano come loro… E che grettezza, questi cattolici, intolleranti e illiberali, che hanno bruciato libri, liberi pensatori, fior di scienziati, eccetera, eccetera, eccetera. Bei tempi, quelli del «Non sono d’accordo ma...», buttato qua e là, a proposito e sproposito, come il prezzemolo.

Insomma: il mondo moderno, occidentale, liberale si è sempre posto in cattedra per quanto riguarda la libertà di parola, di espressione, di pensiero. Del resto, non si chiamavano liberali? Non chiedevano più libertà? Per tutti, ovvio. Per quasi tutti… Bei tempi, bei tempi. Purtroppo finiti. Già, perché adesso il mondo occidentale, il mondo libero, non è più molto intenzionato a sentire l’altra campana. Darebbero volentieri la vita… di chi non la pensa come loro. E il relativismo si è rivelato la dittatura più breve della storia dell’umanità.

Adesso, nel mondo libero, se qualcuno osa esprimersi in modo non gradito subisce dei trattamenti sanitari obbligatori, perde il lavoro, finisce in galera. Magari per aver pregato (in silenzio) davanti a una clinica abortista. C’è chi finisce in galera per dei commenti sui social media, persino per dei «like». Imprenditori vengono arrestati perché, sui mezzi di comunicazione da loro creati, c’è troppa libertà d’espressione. Chi si illude che in Occidente ci sia libertà di parola rischia di venire additato come un agente al soldo di potenze straniere. Ci stupiamo? Del resto, sono anni, decenni che nel mondo libero esistono leggi che puniscono chi la pensa in un modo o nell’altro; che, se i cittadini votano in modo non gradito, devono rivotare o subiscono delle «sanzioni». La libertà d’espressione in Occidente è così sacra che si possono imbrattare impunemente capolavori d’arte e monumenti; ma basta manifestare per la parte sbagliata e si finisce manganellati, colpiti da cannoni d’acqua, ci si vede comminato un Daspo, nato come divieto di accedere a manifestazioni sportive e finito come limitazione del diritto di circolazione e soggiorno in qualsiasi parte del territorio nazionale.

Insomma, i casi sono due: o il mondo occidentale ha perso i suoi riferimenti filosofici, culturali e politici; oppure non li ha mai avuti e quella del «Non sono d’accordo ma...» era la solita manfrina acchiappa gonzi. Insomma: adesso un pochino di tolleranza e relativismo, cioè di rispetto per le mie opinioni, mi farebbe anche comodo...







venerdì 11 ottobre 2024

IL TESTAMENTO SPIRITUALE DI SAMMY BASSO








“Se state leggendo questo scritto allora non sono più tra il mondo dei vivi. Per lo meno non nel mondo dei vivi per come lo conosciamo. Scrivo questa Iettera perché se c'è una cosa che mi ha sempre angosciato sono i funerali. Non che ci fosse qualcosa di male, nei funerali, dare l'ultimo saluto ai propri cari è una tra le cose più umane e più poetiche in assoluto. Tuttavia, ogni volta che pensavo a come sarebbe stato il mio funerale, ci sono sempre state due cose che non sopportavo: il non poter esserci e dire le ultime cose, e il fatto di non potere consolare chi mi è caro. Oltre al fatto di non poter parteciparvi, ma questo è un altro discorso... E perciò, ecco che ho deciso di scrivere le mie ultime parole, e ringrazio chiunque le stia leggendo. Non voglio lasciarvi altro che quello che ho vissuto, e visto che si tratta dell'ultima volta che ho la possibilità di dire la mia, dirò solo l'essenziale senza cose superflue o altro.

Voglio che sappiate innanzitutto che ho vissuto la mia vita felicemente, senza eccezioni, e l'ho vissuta da semplice uomo, con i momenti di gioia e i momenti difficili, con la voglia di fare bene, riuscendoci a volte e a volte fallendo miseramente. Fin da bambino, come ben sapete, la progeria ha segnato profondamente la mia vita, sebbene non fosse che una parte piccolissima di quello che sono, non posso negare che ha influenzato molto la mia vita quotidiana e, non ultime, le mie scelte.

Non so il perché e il come me ne andrò da questo mondo, sicuramente in molti diranno che ho perso la mia battaglia contro la malattia. Non ascoltate! Non c'è mai stata nessuna battaglia da combattere, c'è solo stata una vita da abbracciare per com'era, con le sue difficoltà, ma pur sempre splendida, pur sempre fantastica, né premio né condanna, semplicemente un dono che mi è stato dato da Dio.

Ho cercato di vivere più pienamente possibile, tuttavia ho fatto ì miei sbagli, come ogni persona, come ogni peccatore. Sognavo di diventare una persona di cui si parlasse nei Iibri di scuola, una persona che fosse degna di essere ricordata ai posteri, una persona che, come i grandi del passato, quando la si nomina, Io si fa con reverenza. Non nego che, sebbene la mia intenzione era di essere un grande della storia per avere fatto del bene, una parte di questo desiderio era anche dovuto ad egoismo. L'egoismo di chi semplicemente vuole sentirsi di più degli altri. Ho lottato con ogni mia forza questo malsano desiderio, sapendo bene che Dio non ama chi fa le cose per sé, ma nonostante ciò non sempre ci sono riuscito. 

Mi rendo conto ora, mentre scrivo questa Iettera, immaginando come sarà il mio ultimo momento nella Terra, che è il più stupido desiderio che si possa avere. La gloria personale, la grandezza, la fama, altro non sono che una cosa passeggera. L'amore che si crea nella vita invece è eterno, poiché Dio solo è eterno, e l'amore ci viene da Dio. Se c'è una cosa di cui mi non mi sono mai pentito, è quello di avere amato tante persone nella mia vita, e tanto. Eppur troppo poco. Chi mi conosce sa bene che non sono un tipo a cui piaccia dare consigli, ma questa è la mia ultima occasione...perciò ve ne prego amici miei, amate chi vi sta attorno, non dimenticatevi che i nostri compagni di viaggio non sono mai il mezzo ma il fine. Il mondo è buono se sappiamo dove guardare!

In molte cose, come vi ho già detto, sbagliavo! Per buona parte della mia vita ho pensato che non ci fossero eventi totalmente positivi o totalmente negativi, che dipendesse da noi vederne i lati belli o i lati oscuri. Certo, è una buona filosofia di vita, ma non è tutto! Un evento può essere negativo ed esserlo totalmente! Quello che spetta a noi non è nel trovarci qualcosa di positivo, quanto piuttosto di agire sulla retta via, sopportando, e, per amore degli altri, trasformare un evento negativo in uno positivo. Non si tratta di trovare i lati positivi quanto piuttosto di crearli, ed è questa a mio parere, la facoltà più importante che ci è stata data da Dio, la facoltà che più di tutti ci rende umani.

Voglio farvi sapere che voglio bene a tutti voi, e che è stato un piacere compiere la strada della mia vita al vostro fianco. Non vi dirò di non essere tristi, ma non siatelo troppo. Come ad ogni morte, ci sarà qualcuno tra i miei cari che piangerà per me, qualcuno che rimarrà incredulo, qualcuno che invece, magari senza sapere perché, avrà voglia di andare fuori con gli amici, stare insieme, ridere e scherzare, come se nulla fosse successo. Voglio esservi accanto in questo, e farvi sapere che è normale. Per chi piangerà, sappiate che è normale essere tristi. Per chi vorrà fare festa, sappiate che è normale far festa. Piangete e festeggiate, fatelo anche in onore mio. Se vorrete ricordarmi invece, non sprecate troppo tempo in rituali vari, pregate, certo, ma prendete anche dei bicchieri, brindate alla mia e alla vostra salute, e siate allegri. Ho sempre amato stare in compagnia, e perciò è così vorrei essere ricordato. Probabilmente però ci vorrà del tempo, e se voglio veramente consolare e partire da questo mondo in modo da non farvi stare male, non posso semplicemente dirvi che il tempo curerà ogni ferita. Anche perché non è vero. Perciò vi voglio parlare schiettamente del passo che io ho già compiuto e che tutti devono prima o poi compiere: la morte.

Anche a solo dirne il nome, a volte, la pelle rabbrividisce. Eppure è una cosa naturale, la cosa più naturale al mondo. Se vogliamo usare un paradosso la morte è la cosa più naturale della vita. Eppure ci fa paura! È normale, non c'è niente di male, anche Gesù ha avuto paura. È la paura delI'ignoto, perché non possiamo dire di averne avuto esperienza in passato. Pensiamo però alla morte in modo positivo: se Iei non ci fosse probabilmente non concluderemo niente nella nostra vita, perché tanto, c'è sempre un domani. La morte invece ci fa sapere che non c'è sempre un domani, che se vogliamo fare qualcosa, il momento giusto è “ora”!

Per un cristiano però la morte è anche altro! Da quando Gesù è morto sulla croce, come sacrificio per tutti i nostri peccati, la morte è l'unico modo per vivere realmente, è l'unico modo per tornare finalmente alla casa del Padre, è l'unico modo per vedere finalmente il Suo Volto. E da cristiano ho affrontato la morte. Non volevo morire, non ero pronto per morire, ma ero preparato. L'unica cosa che mi dà malinconia è non poter esserci per vedere il mondo che cambia e che va avanti. Per il resto però, spero di essere stato in grado, nell'ultimo mio momento, di vedere la morte come la vedeva san Francesco, le cui parole mi hanno accompagnato tutta la vita. Spero di essere riuscito anch'io ad accogliere la morte come “Sorella Morte”, dalla quale nessun vivente può scappare.

Se in vita sono stato degno, se avrò portato la mia croce così come mi era stato chiesto di fare, ora sono dal Creatore. Ora sono dal Dio mio, dal Dio dei miei padri, nella sua Casa indistruttibile. Lui, il nostro Dio, l'unico vero Dio, è la causa prima e il fine di ogni cosa. Davanti alla morte nulla ha più senso se non Lui. Perciò, sebbene non c'è bisogno di dirlo, poiché Lui sa tutto, come ho ringraziato voi voglio ringraziare anche Lui. Devo tutta la mia vita a Dio, ogni cosa bella. La Fede mi ha accompagnato e non sarei quello che sono senza la mia Fede. Lui ha cambiato la mia vita, l'ha raccolta, ne ha fatto qualcosa di straordinario, e Io ha fatto nella semplicità della mia vita quotidiana.

Non stancatevi mai, fratelli miei, di servire Dio e di comportarvi secondo i suoi comandamenti, poiché nulla ha senso senza di Lui e perché ogni nostra azione verrà giudicata e decreterà chi continuerà a vivere in eterno e chi invece dovrà morire. Non sono di certo stato il più buono dei cristiani, sono stato anzi certamente un peccatore, ma ormai poco conta: quello che conta è che ho provato a fare del mio meglio e lo rifarei. Non stancatevi mai, fratelli miei, di portare la croce che Dio ha assegnato ad ognuno, e non abbiate paura di farvi aiutare nel portarla, come Gesù è stato aiutato da Giuseppe di Arimatea. E non rinunciate mai ad un rapporto pieno e confidenziale con Dio, accettate di buon grado la Sua Volontà, poiché è nostro dovere, ma non siate nemmeno passivi, e fate sentire forte la vostra voce, fate conoscere a Dio la vostra volontà, così come fece Giacobbe, che per il suo essersi dimostrato forte fu chiamato Israele: Colui che lotta con Dio.

Di sicuro, Dio, che è madre e padre, che nella persona di Gesù ha provato ogni umana debolezza, e che nello Spirito Santo vive sempre in noi, che siamo il suo Tempio, apprezzerà i vostri sforzi e li terrà nel Suo Cuore.

Ora vi Iascio, come vi ho detto non amo i funerali quando diventano troppo lunghi, e io breve non sono stato. Sappiate che non potrei mai immaginare la mia vita senza di voi, e se mi fosse data la possibilità di scegliere, avrei scelto ancora di crescere al vostro fianco. Sono contento che domani il Sole spunterà ancora...

Famiglia mia, fratelli miei, amici miei e amore mio, Vi sono vicino e se mi è concesso, veglierò su di voi, vi voglio bene!


Sammy Basso


P.s. State tranquilli, tutto questo è solo sonno arretrato...”




Fonte web 









Il manuale della violenza giusta




[Domenica 6 ottobre si è tenuto il primo Incontro di Lonigo sull’attualità politica. Abbiamo ascoltato l’ampia relazione di Giovanni Lazzaretti sul tema “Guerra giusta e pace giusta”. Chi fosse interessato a ricevere il testo completo lo può chiedere qui: info.ossvanthuan@gmail.com. Pubblichiamo qui sotto un secondo estratto (per il primo vedi QUI) dal testo della conferenza].




Di Giovanni Lazzaretti, 11 Ott 2024

Non starò a leggere tutti gli articoli del Catechismo sulla questione della “violenza giusta”. Stanno all’interno del capitolo intitolato “Il quinto comandamento”, dal n. 2258 al n.2330. È importante leggere questo capitolo integralmente, perché ci si dimentica spesso che aborto & guerra sono collocati nella stessa sezione.

Legittima difesa 2263. La legittima difesa delle persone e delle società non costituisce un’eccezione alla proibizione di uccidere l’innocente, uccisione in cui consiste l’omicidio volontario. «Dalla difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria vita; mentre l’altro è l’uccisione dell’attentatore. Il primo soltanto è intenzionale, l’altro è involontario». Importante! Ricordiamoci che il “non uccidere” significa “non uccidere l’innocente e il giusto”. La vita del colpevole è invece “disponibile”. Se un poliziotto vede il tizio che accoltella Sharon Verzeni e gli spara, non commette omicidio.

2264 L’amore verso se stessi resta un principio fondamentale della moralità. È quindi legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita. Chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale. Se uno nel difendere la propria vita usa maggior violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita. E non è necessario per la salvezza dell’anima che uno rinunzi alla legittima difesa per evitare l’uccisione di altri: poiché un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui [,,,].

2265 La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità. Importante anche questo! “Porgere l’altra guancia” riguarda solo la PROPRIA guancia, non la guancia degli altri. L’ingiusto aggressore va posto in stato di non nuocere, anche con le armi dei legittimi detentori dell’autorità.

Resistenza al tiranno 2243. La resistenza all’oppressione del potere politico non ricorrerà legittimamente alle armi, salvo quando sussistano tutte insieme le seguenti condizioni: [1] in caso di violazioni certe, gravi e prolungate dei diritti fondamentali; [2] dopo che si siano tentate tutte le altre vie; [3] senza che si provochino disordini peggiori; [4] qualora vi sia una fondata speranza di successo; [5] se è impossibile intravedere ragionevolmente soluzioni migliori. Qui si vedono due cose importanti. Innanzitutto, merita la reazione anche violenta solo chi fa violazioni certe, gravi e prolungate del diritto naturale. Ma, anche in questo caso, per la dottrina cattolica non esiste il prolungamento illimitato dell’azione violenta finché non sia fatta giustizia. Devi avere fondate speranze di successo e devi agire solo se hai la ragionevole certezza che non provocherai disordini peggiori. È questo, ad esempio, il pensiero che manca a Israeliani e Palestinesi.

La guerra giusta 2307. Il quinto comandamento proibisce la distruzione volontaria della vita umana. A causa dei mali e delle ingiustizie che ogni guerra provoca, la Chiesa con insistenza esorta tutti a pregare e ad operare perché la Bontà divina ci liberi dall’antica schiavitù della guerra. 2308 Tutti i cittadini e tutti i governanti sono tenuti ad adoperarsi per evitare le guerre. «Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa». La legittima difesa lecita per il singolo uomo è lecita anche per gli Stati.

2309 Si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale. Occorre contemporaneamente: che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo. Che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci. Che ci siano fondate condizioni di successo. Che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione. Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della “guerra giusta”. La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune.

Non si fa la guerra per delle sciocchezze. La si fa solo se ci sono fondate condizioni di successo. La si fa dopo aver esplorato tutto l’esplorabile. La si fa solo se si è convinti che il “dopo” sarà meglio del “prima”. 2312 La Chiesa e la ragione umana dichiarano la permanente validità della legge morale durante i conflitti armati. «Né per il fatto che una guerra è disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto». 2313 Si devono rispettare e trattare con umanità i non-combattenti, i soldati feriti e i prigionieri.

Le azioni manifestamente contrarie al diritto delle genti e ai suoi principi universali, non diversamente dalle disposizioni che le impongono, sono dei crimini. Non basta un’obbedienza cieca a scusare coloro che vi si sottomettono. Così lo sterminio di un popolo, di una nazione o di una minoranza etnica deve essere condannato come un peccato mortale. Si è moralmente in obbligo di far resistenza agli ordini che comandano un genocidio. 2314 «Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato». Un rischio della guerra moderna è di offrire l’occasione di commettere tali crimini a chi detiene armi scientifiche, in particolare atomiche, biologiche o chimiche. Mai dimenticare questi passaggi. Se anche avevi i parametri in regola per una guerra giusta, non per questo l’intera nazione avversaria si trasforma in un bersaglio. I civili e le loro città non sono catalogabili tra i colpevoli. La guerra giusta è quindi complessa anche nella realizzazione pratica: non basta che sia giusta nei princìpi, deve esserlo anche nell’esecuzione.