domenica 15 marzo 2020

Coronavirus. “Il Regno” fa appello ai vescovi e al papa: “Dite una parola vera”



Pasqua


di Sandro Magister,

Giovedì 12 marzo, lo stesso giorno in cui l’intera Italia è stata blindata per contrastare l’espandersi del coronavirus, la rivista cattolica “Il Regno”, voce autorevole delle correnti progressiste, ha pubblicato con la firma del suo direttore Gianfranco Brunelli un appello ai vescovi italiani e anche al “vescovo di Roma” perché sappiano dire quella “parola vera” che “è mancata sin qui”.
È la parola – spiega l’appello – che nasce dalla Pasqua di risurrezione e che può trasformare in una vigilia di attesa e di speranza anche la decretata chiusura (1) delle chiese, come per le pie donne davanti al sepolcro vuoto, nel dipinto del Beato Angelico.
Qui di seguito sono riprodotte, qua e là abbreviate, le parti iniziale e finale dell’appello, che può essere letto per intero sul blog della rivista.
Intanto, in questo stesso 12 marzo, la conferenza episcopale italiana ha promosso un momento di preghiera comune in tutto il paese, invitando ogni famiglia, ogni fedele, a recitare in casa il rosario alle ore 21 di giovedì 19 marzo, festa di san Giuseppe, esponendo alle finestre delle case “un piccolo drappo bianco o una candela accesa”.
Mentre il giorno precedente, 11 marzo, dalla terrazza del Duomo di Milano l’arcivescovo Mario Delpini ha elevato una accorata preghiera alla Madonnina che veglia sulla città dalla guglia più alta.
E lo stesso giorno la diocesi di Roma ha pregato e digiunato per impetrare da Dio la cessazione del contagio, “come aveva pregato e digiunato la regina Ester per la salvezza del suo popolo”.

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PREPARARE LA PASQUA NEL SABATO DEL TEMPO


di Gianfranco Brunelli
Ora che è stato detto tutto e di tutto, da parte di tanti; ora che il coronavirus sta assumendo il volto inarrestabile e pervasivo di una pandemia; in quest’ora toccherebbe alla Chiesa fare sentire la propria voce. Perché ci avviciniamo alla Pasqua.
Non sono mancati interventi di singoli pastori, ma una parola unitaria della conferenza episcopale italiana è sin qui mancata, se si escludono singoli comunicati, in genere sul tema dell’apertura e della chiusura delle chiese, sulla opportunità o meno di celebrare le funzioni liturgiche, in “ottemperanza” ai decreti governativi. È mancata sin qui una parola vera.
E su cosa possono e debbono intervenire i vescovi italiani di fronte al dramma soggettivo di migliaia di persone, al dramma collettivo di una nazione, nel dramma globale?
Qui il problema non è sancire la maggiore o minore autonomia della Chiesa e delle sue decisioni come istituzione religiosa distinta dallo stato. Non siamo di fronte a un problema che riguarda, com’è accaduto in altri momenti della storia, il rapporto stato-Chiesa, non in termini istituzionali o ideologici almeno. Anche se le conseguenze di quel che accade non mancheranno neppure su quel piano.
Qui il problema è affrontare il tema della fragilità personale e collettiva, sociale ed economica, politica e istituzionale. È il tema della malattia, della vita e della morte, che tocca e ridefinisce ogni cosa. È dunque il tema dell’annuncio del Vangelo in questo tempo. […]
Per noi cristiani il tema del tempo e dunque il tema della morte è legato al tema della risurrezione: “Se soltanto per ragioni umane io avessi combattuto a Efeso contro le belve, a che mi gioverebbe? Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo” (1 Corinti 15,32).
E questo tempo inatteso e pericoloso non è un altro tempo. Il tempo messianico non è un altro tempo, ma una trasformazione profonda del tempo cronologico. L’escatologia che annunciamo e crediamo implica una trasformazione delle cose penultime a partire da quelle ultime. Non la loro contrapposizione. Qui, ora è l’esercizio della nostra responsabilità per la vita di tutti. La nostra decisione di rinunciare è in realtà un’offerta.
Se si chiudono le chiese è per la vita. Per la vita nel suo significato evangelico di dono. Per eccedenza d’amore. Non semplicemente per un provvedimento pur necessario di sanità pubblica. Come la donna di Betania che versa sul capo di Gesù l’unguento profumato, così anche noi dobbiamo “sprecare” l’amore. “Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto” (Matteo 26,13).
Su un piano personale ed ecclesiale sperimentiamo una forma inedita di solitudine della fede. Certo non poter celebrare l’eucaristia, cioè il centro della nostra fede, non è cosa qualsiasi, da argomentare con un semplice e burocratico “in ottemperanza…”, il che spingerebbe davvero nel senso di un’accelerazione del processo di scristianizzazione.
Tutto questo non è senza conseguenze, né sul piano individuale, né su quello comunitario, ma non è di per sé neppure una crisi della fede, se è sostenuto da un annuncio forte, argomentato, reso condiviso da parte della Chiesa.
La Chiesa italiana, lo stesso vescovo di Roma sono attesi per una parola che ripeta nuovamente il Vangelo in questo tempo; che affronti il mistero della morte e della risurrezione. Perché con questo, oggi, tutti, individualmente e collettivamente, siamo confrontati. Questa è l’attesa, consapevole o meno, di una moltitudine.
Siamo entrati in una lunga vigilia, un’interminabile veglia notturna. È il Sabato santo della fede, il giorno a-liturgico per eccellenza, un tempo denso di sofferenza, di smarrimento, d’attesa e di speranza, che sta tra il dolore della croce e la gioia della Pasqua. Il giorno del silenzio di Dio. La Chiesa deve preparare la Pasqua, perché forse neppure la liturgia pasquale potremo celebrare, il centro della nostra fede: il corpo e il sangue di Cristo dato per noi e per tutti.
Ma che cos’è per il cristiano il vigilare se non l’attendere, scrutare nella notte, prestare attenzione al proprio tempo; se non prendersi cura dell’altro, vegliare con amore qualcuno nelle case o in un ospedale? In questo tempo abbiamo la possibile consolazione della contemplazione della Parola e della preghiera, da quella personale a quella familiare. Possiamo farla risuonare. In molti modi.
È il tabernacolo dei cuori e delle case che in quest’ora viene aperto. Cristo sta alla nostra porta.
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(1) Nella diocesi di Roma la chiusura delle chiese è stata in un primo tempo totale, in forza di un decreto del 12 marzo del cardinale vicario Angelo De Donatis, per essere poi limitata alle sole chiese non parrocchiali da un controdecreto del giorno successivo.
Sia il primo che il secondo decreto sono stati emessi per volontà di papa Francesco, come dichiarato dallo stesso suo vicario nella lettera ai fedeli che ha accompagnato il contrordine.
Lettera che così esordisce:
“Con una decisione senza precedenti, consultato il nostro vescovo papa Francesco, abbiamo pubblicato ieri, 12 marzo, il decreto che fissa la chiusura per tre settimane delle nostre chiese”.
E in cui si legge più avanti:
“Un’ulteriore confronto con papa Francesco, questa mattina, ci ha spinto però a prendere in considerazione un’altra esigenza. […] Di qui il nuovo decreto che vi viene inviato con questa lettera”.
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