Gemelle Kessler
Di Sabino Paciolla, 18 novembre 2025
Unite nella vita e nel ballo – così le ricordiamo tutti – lo sono state anche nell’ultimo addio, con un doppio suicidio assistito. Alice ed Ellen Kessler, protagoniste del celebre duo artistico tedesco delle Gemelle Kessler, amatissime in Italia dagli anni Sessanta in poi, sono morte a 89 anni.
La notizia ha colpito molti, non solo per la loro celebrità, ma per la singolare scelta di andarsene insieme in assenza, a quanto pare, di una malattia terminale. Avevano stretto tempo prima un patto: morire nello stesso momento ed essere sepolte nella stessa urna, accanto alla madre e al loro amato cane Yello.
“Dopo i tanti successi, molti in Italia, – riporta l’ANSA – si erano ritirate nella loro casa a Gruenwald, un piccolo comune alle porte di Monaco. Ed è stato lì che la polizia bavarese, intervenuta con una pattuglia intorno a mezzogiorno, le ha trovate oggi senza poter fare altro che constatarne il decesso, escludendo la responsabilità di terzi. A confermare che la loro è stata una scelta consapevole e pianificata è stata l’Associazione tedesca per una morte dignitosa (Dghs), che ha spiegato al quotidiano Sueddeutsche Zeitung che si è trattato di un suicidio assistito. Le due sorelle erano in contatto con l’organizzazione già da tempo per ricorrere ad una pratica che, in Germania, è consentita a determinate condizioni: possono ricorrere al suicidio assistito i maggiorenni, capaci di agire e di farlo esclusivamente sotto la propria responsabilità (nel Paese è vietata l’eutanasia).”
Ciò che mi ha particolarmente colpito è una loro frase, ripetuta in diverse interviste: «Non abbiamo più parenti e se li abbiamo non li conosciamo». Una solitudine profonda, attenuata solo dal legame indissolubile tra gemelle, ma evidentemente non sufficiente a vincere la paura di rimanere sole. L’imprevedibilità della morte faceva infatti temere che una sarebbe sopravvissuta all’altra, condannandola a un’esistenza vuota.
Questo doppio suicidio fa riflettere su quanto sia diffusa, nella nostra società, una cultura senza orizzonte ultraterreno, una cultura nichilista che sostituisce la figliolanza a un Padre buono – che per amore ci ha voluti e creati dal nulla – con un rapporto umano, per quanto forte, necessariamente limitato e incapace di colmare il desiderio di pienezza ed eternità che portiamo dentro. Quando viene meno la percezione della sacralità della vita, la paura della solitudine e il senso di vuoto esistenziale non possono che produrre esiti aberranti.
Qui non si tratta di un suicidio causato da una malattia terminale e insopportabile, ma del cosiddetto “male di vivere”: quel pessimismo esistenziale, quel disagio di fronte a un’esistenza percepita come assurda e priva di senso. Quando le luci della ribalta si spengono da tempo e ci si avvia verso la fase finale della vita senza un orizzonte oltre la morte, questo “non senso” diventa insostenibile.
Eugenio Montale, nella poesia «Spesso il male di vivere ho incontrato» (da Ossi di seppia, 1925), lo descrive con immagini icastiche e crude:
Spesso il male di vivere ho incontrato:Ma nel caso delle Kessler c’è qualcosa di più: una mala pianta culturale con radici velenose che produce inevitabilmente morte.
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia riarsa,
era il cavallo stramazzato.
Il cardinale Giacomo Biffi parlò ripetutamente di Bologna (ma basta sostituire «Bologna» con «società» e il risultato non cambia) come di una realtà «sazia e disperata». Nell’omelia di Natale del 1985 disse:
«Bologna è una città sazia e disperata. Sazia di beni, di divertimenti, di possibilità; disperata perché non sa più perché vive, perché lavora, perché soffre, perché muore. È la disperazione di chi ha tutto e non ha più nulla da sperare.»E aggiunse altrove:
«…disperata perché questo benessere non è riuscito a darle un motivo per cui valga la pena di vivere e di morire. È la disperazione di chi possiede tutto e non possiede più se stesso.»Il cardinale Biffi aveva perfettamente ragione: questo è il male che attanaglia la nostra società – un male che nasce dalla perdita del senso del vivere e del morire. Quando vengono meno queste ragioni ultime, resta solo la solitudine (anche in mezzo al frastuono) e la freddezza tombale della morte.
Gli amici di Pro Vita & Famiglia Onlus hanno scritto con lucidità:
«Dopo una carriera di successi che ha rallegrato la vita di milioni di persone, l’esistenza delle gemelle Kessler non doveva finire così. In una società davvero umana, nessuna vita dovrebbe finire così. Le gemelle Kessler si aggiungono alla lunga e triste schiera di persone indotte a uccidersi dalle leggi sul suicidio assistito, prodotte da una società malata, incapace di includere e valorizzare fino in fondo ogni persona anche nelle fasi più precie dell’esistenza, preferendo invece offrire la morte come soluzione più economica e sbrigativa.»Il rischio concreto è che questo caso diventi un tragico precedente, applaudito dai cantori del nichilismo pratico, dalle sirene del mainstream e dai tromboni del vuoto assoluto come un gesto “cool”, una sciccheria di dignità. In realtà è solo un evento tragico e insensato.
Fa bene Brandi a lanciare un “allarme”: narrare la scelta delle Kessler come “autodeterminazione” rischia di spingere “migliaia di cittadini fragili” verso lo stesso baratro, normalizzando l’eutanasia per anziani o malati.
È bene che coloro – soprattutto cattolici – che si stanno adoperando per introdurre anche in Italia una legge sul suicidio assistito riflettano profondamente su questo caso e facciano ammenda. Una cultura malata genera una società malata. Non ci sono dubbi.

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