sabato 31 maggio 2025

Cardinale Eijk: l’Istituto Giovanni Paolo II e la Pontificia Accademia per la Vita devono essere «chiari e inequivocabili»


Cardinale Willem Eijk




Di Sabino Paciolla, 31 maggio 2025

L’intervista di Edgar Beltran al cardinale olandese di Utrecht Willem Eijk, pubblicata su The Pillar, esplora il ruolo della bioetica da una prospettiva cristiana, sottolineando la necessità di contrastare una cultura che non riconosce il valore intrinseco della vita umana. L’interlocutore evidenzia la sfida di trasmettere le verità cristiane in un contesto globale che promuove pratiche come l’aborto e il suicidio assistito, ma invita a non perdere coraggio, notando segnali di speranza tra i giovani, specialmente in Olanda, dove un crescente numero di persone si avvicina alla Chiesa tramite i social media. L’intervista celebra l’eredità del venerabile Jérôme Lejeune, genetista e difensore della vita, e riflette sull’attualità dell’enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II, proponendo la necessità di un aggiornamento per affrontare nuove questioni bioetiche come l’identità di genere. La sintesi integra il contesto, le implicazioni culturali e le citazioni più significative per offrire una comprensione completa.

Il ruolo della bioetica cristiana

Il cardinale sottolinea che la bioetica cristiana ha il compito di opporsi alla cultura attuale, che nega il valore intrinseco della vita umana. Il suo ruolo è trasmettere “la verità su Dio, sull’uomo e sul mondo”, incluse le verità metafisiche, i valori e le norme morali. Tuttavia, riconosce le difficoltà in un mondo dove pratiche contrarie a questi principi sono in aumento. Cita dati preoccupanti, come “negli Stati Uniti l’anno scorso ci sono stati quasi un milione di aborti”, e decisioni legislative come quella del Parlamento francese, che ha inserito il diritto all’aborto nella Costituzione e legalizzato il suicidio assistito: “È un problema crescente”. Nonostante ciò, invita alla perseveranza: “Non dobbiamo arrenderci, [non dobbiamo] perdere il coraggio”, sottolineando l’importanza di continuare a proclamare la verità cristiana.

Segnali di speranza tra i giovani

Un punto centrale dell’intervista è l’ottimismo per un cambiamento generazionale nella Chiesa, specialmente tra i giovani. In Olanda, il cardinale nota un aumento di giovani che si avvicinano alla fede cattolica, spesso scoprendo Cristo e gli insegnamenti morali attraverso Internet, TikTok e i social media: “Non te lo aspetteresti, ma è così”. Questi giovani, quando si rivolgono ai sacerdoti per il battesimo o la cresima, dimostrano una conoscenza sorprendente della fede, acquisita online: “Sanno già sorprendentemente molto sulla fede perché leggono molto sul cattolicesimo su Internet e sui social media”. Sono inclini ad accettare l’intera dottrina della Chiesa, suggerendo un rinnovato interesse per i principi tradizionali. Inoltre, il cardinale osserva un atteggiamento meno ostile verso la Chiesa in Olanda rispetto al passato: “Vedo anche un atteggiamento meno negativo nei confronti della Chiesa e della fede rispetto a qualche anno fa. Quindi c’è un cambiamento, un cambiamento positivo”. Cita Papa Benedetto XVI, che parlava di una “minoranza creativa” capace di avviare una nuova cultura, prevedendo una Chiesa più piccola ma vibrante: “La Chiesa sarà forse piccola, ma Papa Benedetto XVI parlava sempre di una minoranza creativa che può dare inizio a una nuova cultura”.

L’eredità di Jérôme Lejeune


Parlando alla conferenza della Fondazione Jérôme Lejeune, il cardinale celebra l’eredità del genetista cattolico, noto per aver scoperto la trisomia 21 (sindrome di Down) nel 1958 e per la sua strenua difesa del valore della vita umana. Lejeune, un cattolico praticante, pagò un caro prezzo per le sue posizioni, diventando un “emarginato” tra i colleghi: “È diventato un po’ un emarginato, ma nonostante ciò non si è arreso”. Fu uno dei pochi a sostenere il valore intrinseco della vita negli anni ’60, ’70 e ’80, contribuendo alla fondazione della Pontificia Accademia per la Vita. Il cardinale condivide un ricordo personale di un incontro con Lejeune durante una vacanza in Francia, descrivendolo come un uomo gentile e profetico: “Mi ha detto: ‘Forse un giorno diventerai vescovo, quindi devi annunciare la verità’”. Sottolinea la sua autenticità cristiana: “Si capiva subito che era un cristiano convinto sotto tutti gli aspetti”.

Attualità e limiti dell’Evangelium vitae

Nel trentesimo anniversario dell’enciclica Evangelium vitae (1995), il cardinale ne riconosce l’attualità, definendo la sua analisi della “cultura della morte” ancora valida: “L’Evangelium vitae è ancora molto utile, anche dopo trent’anni. La sua diagnosi della cultura della morte è ancora accurata”. Tuttavia, ammette che nuove questioni bioetiche, come l’identità di genere e il cambio di sesso biologico, non sono affrontate nell’enciclica, poiché all’epoca non erano così diffuse: “Evangelium vitae non parla del problema del genere, della scelta dell’identità di genere, del cambiamento del sesso biologico per adattarlo il più possibile all’identità di genere scelta”. Sebbene il Dicastero per la Dottrina della Fede abbia pubblicato una dichiarazione sui trattamenti transgender, il cardinale suggerisce che una nuova enciclica potrebbe essere utile per affrontare queste tematiche emergenti: “Una nuova enciclica che dicesse qualcosa sulle nuove tecniche che non erano in voga nel 1995 sarebbe piuttosto utile”.

L’intervista prosegue con le domande che seguono.



Qual è secondo lei il ruolo appropriato di istituzioni come l’Istituto Giovanni Paolo II e la Pontificia Accademia per la Vita nelle discussioni accademiche sulla bioetica e la difesa della vita durante questo pontificato?


È molto importante cercare di ristabilire l’unità nella Chiesa. E questo deve venire da una proclamazione della fede chiara e inequivocabile. E questo dovrebbe avvenire anche nel campo della morale e dell’etica.

Non è facile testimoniare la morale cattolica. Le persone possono avere difficoltà, ma noi dobbiamo essere chiari e inequivocabili sulle verità fondamentali della nostra fede.

Anche in questo campo, però, le cose stanno cambiando. Abbiamo introdotto nella nostra diocesi dei corsi di preparazione al matrimonio in cinque serate. Spieghiamo la teologia del corpo. Parliamo della dottrina della Chiesa sulla contraccezione, parliamo di pianificazione familiare naturale. E la reazione è per lo più: «Oh, che bello. Non l’avevamo mai sentito».

E questo mi rende molto chiaro che dobbiamo trasmettere la verità sul matrimonio, sulla vita sessuale. Può essere difficile, ma è possibile. Nel nostro corso più recente abbiamo avuto 12 coppie, quindi 24 giovani che hanno ascoltato questo messaggio e sono aperti ad accoglierlo.

Sabato scorso ho spiegato questa questione anche a gruppi di giovani adulti della diocesi di Den Bosch, e tutti si sono dimostrati molto aperti. C’erano alcune persone più anziane che erano più critiche, erano i ribelli degli anni ’60, ’70 e ’80, persone della mia età. Questo dimostra un cambiamento generazionale.

Papa Leone XIV ha detto di aver scelto il suo nome in riferimento al suo predecessore, Leone XIII, e alla sua offerta di una risposta nuova, ma fedele, alle questioni sociali del suo tempo.
Le questioni bioetiche sono una delle principali questioni sociali del nostro tempo. Che consiglio darebbe a Papa Leone per affrontare queste questioni?

Penso che ciò che ho appena detto valga anche per lui: dobbiamo essere chiari nell’insegnamento, inequivocabili. Chiari e coraggiosi nell’insegnare la verità della fede cattolica, compresa la dottrina cattolica sulle questioni morali, che è la questione più controversa.

Quando il papa è chiaro e inequivocabile nel proclamare questa parte della dottrina, ciò sarà molto utile alle persone per riscoprire la verità. E dovrebbero essere aiutate in questo. Quando le persone vedono ambiguità, iniziano a confondersi. Iniziano a dubitare. Ma quando il papa e i vescovi sono chiari nell’insegnamento, e naturalmente anche i sacerdoti, questo aiuterà molto le persone a riscoprire la verità di Cristo, il Vangelo e il modo in cui possono seguirlo.


Perché non rinunciare a queste questioni? Perché continuare a sperare che la società possa davvero cambiare?

Quando guardo i giovani e vedo come abbracciano la fede della Chiesa, questo mi dà molto coraggio.

Certo, la Chiesa sarà piccola. Sarà molto piccola. È già emarginata. Ho dovuto chiudere molte chiese, soprattutto nei villaggi, a causa della mancanza di fedeli attivi e di mezzi finanziari. Dipendiamo totalmente dalle offerte dei fedeli.

Ma nelle città vediamo che le parrocchie sono fiorenti e lì vediamo la maggior parte dei frutti della conversione. Quindi penso che dobbiamo solo continuare. E non dovremmo preoccuparci del numero dei fedeli, ma della loro qualità.

Quindi vediamo che il numero dei fedeli sta diminuendo nei Paesi Bassi, ma la qualità sta aumentando, anche tra i cattolici più anziani, perché le generazioni più anziane che rimangono nella Chiesa continuano ad andare in chiesa la domenica: credono, pregano, hanno un rapporto con Cristo. Vengono per pregare. Quindi sono più aperti a tutti gli insegnamenti della Chiesa.

Quando sono diventato vescovo, molti criticavano le mie omelie (ride). Ora sento più spesso approvazione, anche quando predico del paradiso e dell’inferno. Quindi le persone sono più aperte all’insegnamento della fede. Dobbiamo avere il coraggio di proporre questa verità alle persone affinché non siano confuse, ma possano accettare e conoscere Cristo e il Vangelo.






venerdì 30 maggio 2025

In Carolina del Nord c'è un vescovo che ha paura della Tradizione



Non solo restrizioni al rito antico: il vescovo di Charlotte prepara linee guida anche sul rito nuovo, dichiarando guerra alle balaustre, alle pianete e alla lingua latina, fonte di possibili "contagi" tradizionali. Un documento per ora rinviato, ma indicativo di una diffusa ideologia clericale.


Tradizio-fobia

Ecclesia 



Nella diocesi di Charlotte, Carolina del Nord, si apre un nuovo capitolo della guerra liturgica. Ma questa volta non si tratta soltanto dell’ennesima restrizione alla liturgia tradizionale, appena decretata dal vescovo Michael Martin sulla scia di Traditionis Custodes. La lotta si estende anche alla liturgia post-conciliare, da cui mons. Martin avrebbe in animo di bandire qualsiasi “contaminazione” tradizionale.

Sul fronte del rito antico le misure draconiane sono veicolate dal più soft Completare l’implementazione di Traditionis Custodes, che dà il titolo alla lettera di mons. Martin datata 23 maggio. Saggia scelta linguistica, adottata pure in altre diocesi, alla scuola del cardinale Roche: in fondo, «implementare Traditionis Custodes» fa meno paura di «eliminare il rito antico», anche se l’obiettivo è il medesimo. Insediato un anno fa, il vescovo di Charlotte ha anticipato la scadenza della proroga concessa da Roma al suo predecessore per poter continuare la celebrazione more antiquo nelle chiese parrocchiali (scadenza prevista a ottobre, come riporta The Pillar) e dispone che dall’8 luglio nessuna di esse potrà più ospitarla. Da quella data i luoghi in cui si potrà celebrare secondo il Messale del 1962 passeranno pertanto da quattro a uno solo in tutta la diocesi: «La cappella destinata a questo scopo si trova al 757 di Oakridge Farm Hwy., Mooresville, North Carolina 28115. Il nome della cappella è ancora da definire», si legge nel documento. La cappella senza-nome sembra l’immagine più eloquente del trattamento riservato nella Chiesa ai fedeli del rito antico, che dal 2021 non sanno più a che santo votarsi.

Ma a Charlotte la tradizione deve sparire anche dalle Messe in rito “nuovo”, stando alle norme non ancora promulgate ma anticipate in esclusiva da Rorate Caeli. Norme dettagliate da cui trapela un timore quasi maniacale che l’aborrita mentalità tradizionale possa riaffacciarsi anche solo attraverso un paramento o un candelabro. La pubblicazione del documento è stata temporaneamente rinviata dopo che alcuni sacerdoti hanno consigliato di riformulare almeno i punti più estremi e in contrasto con lo stesso Ordinamento Generale del Messale Romano, ma vale la pena rileggere la bozza perché indicativa di una mentalità e di una battaglia ideologica che il vescovo sembra comunque deciso a portare avanti. Il tutto sotto la nobile bandiera dell’unità (confusa però con l’uniformità, come del resto avviene in Traditionis Custodes) che non può essere minata da «preferenze personali». Peccato però che in questo caso si tratti non di un capriccio ma di un rito plurisecolare e che mons. Martin tolleri ben altre «preferenze personali», per non dire bizzarrie. Come la trovata di far indossare la sua mitria episcopale a una ragazza durante la Messa del 29 agosto 2024 presso la Charlotte Catholic High School, forse nell’intento di rendere meno noiosa la sua omelia. «Grazie al Cielo il vescovo di Charlotte si preoccupa della correttezza liturgica», commenta sarcasticamente Rorate Caeli pubblicando la foto su X.

Il primo nemico di mons. Martin è il latino. A preoccuparlo è «un uso frequente e diffuso della lingua latina nelle nostre liturgie parrocchiali» e per scongiurare il pericolo si avventura in un funambolismo ermeneutico per neutralizzare la raccomandazione del Vaticano II di conservare la lingua latina nei riti latini, pur permettendo l’uso delle lingue nazionali. Per il vescovo invece va conservata, sì, ma in soffitta e ne trova addirittura «inquietante» l’uso da parte dei sacerdoti, perché allontanerebbe la gente. E quei fedeli che invece ne vengono attratti? «Una minoranza rumorosa». Viene da chiedersi se il problema principale siano i fedeli che non capiscono il latino o i vescovi che non capiscono i fedeli.

Ma non è la sola fonte di preoccupazione, anzi è la fonte delle preoccupazioni di mons. Martin: «Quando il latino viene usato nelle nostre parrocchie, altri elementi del Messale del 1962 vi si intrecciano sempre», portando con sé altri elementi che per lui risultano inaccettabili, e pertanto da vietare o scoraggiare: le candele e la croce sull’altare (che per lui andrebbero posti solo accanto e di lato) o la preghiera finale a San Michele Arcangelo, così come (ma era facilmente intuibile) l’altare rivolto ad orientem. Chiariamo che nessuno di questi aspetti è vietato da nessuna norma del Novus Ordo Missae ma solo dalla “tradi-fobia” che traspare da questo documento fortunatamente non ancora promulgato.

Per scongiurare qualsiasi possibile “infiltrazione”, ci si avventura a disciplinare anche la foggia dei paramenti: fortemente sconsigliate le «casule con taglio comunemente detto “a violino» (ovvero le pianete, anch’esse mai abolite da nessuno), poiché sarebbero «un chiaro segno che il celebrante preferisce la vita liturgica (e forse teologica) della Chiesa prima del Concilio Vaticano II». Men che meno – orrore! – si osi recitare le classiche preghiere che un tempo erano prescritte al momento di indossare i paramenti. Sospetto di preconciliarismo, quindi vietato, è pure il campanello con cui si segnala ai fedeli l’inizio della celebrazione. «Un benvenuto verbale da parte del lettore (o di altro ministro idoneo) seguito dall'indicazione dell'inno da cantare e da un invito ad alzarsi è più appropriato e dovrebbe essere normativo in tutte le Messe». Come se nell’attuale prassi liturgica, il rito non fosse già sepolto da fin troppe chiacchiere e monizioni...

Ci fermiamo qui perché la quantità e la minuzia dei dettagli fa sorgere il dubbio che quelli attaccati alle forme esteriori non siano i fedeli legati al rito antico, bensì i chierici che lo avversano. Bisogna al tempo stesso riconoscere che anche la loro avversione non è questione di sartoria, bensì di ideologia. E di un trauma non ancora superato da parte di certa gerarchia il cui core business sembra l’odio del (proprio) passato più che l’annuncio di Cristo, temendo di non essere sufficientemente alla moda per essere accettata dal mondo. Una rottura interna al mondo cattolico che, dopo la pacificazione promossa da Benedetto XVI, è riesplosa con il motuproprio Traditionis Custodes, innescando «una nuova guerra contro la Messa tradizionale, che si è rivelata divisiva e piena di amarezza», come ha affermato in una recente intervista l’arcivescovo di San Francisco, mons. Salvatore Cordileone, auspicando che l'elezione di Leone XIV possa riavviare anche su questo fronte un’opera di ricucitura e riconciliazione: «Vuole essere un costruttore di ponti: questo è stato chiarissimo fin da quando ha messo piede per la prima volta sulla loggia della Basilica di San Pietro. Credo che possa porre fine alle guerre liturgiche». Di ponti, a dire il vero, ce n'erano in abbondanza anche prima, ma i soli destinati a chi segue l’antico rito o a chi soffre la carenza di sacro in quello nuovo erano ponti levatoi.





giovedì 29 maggio 2025

Carità, solidarietà, filantropia: sono la stessa cosa






Di Diego Benedetto Panetta, 29 mag 2025

«Gesù Cristo ci rivela che “Dio è amore” (1 Gv 4, 8) e ci insegna che “la legge fondamentale della perfezione umana, e quindi della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento della carità[…]”» (n. 54). Con queste parole il Compendio di dottrina sociale della Chiesa, richiamando la Costituzione conciliare Gaudium et spes, ci presenta quella che viene altresì definita, qualche riga dopo, come «misura e regola ultima di tutte le dinamiche in cui si esplicano le relazioni umane», ossia la carità.

Se negli ultimi decenni vi è stato un Pontefice che a più riprese si è prodigato nello spiegare, approfondire e sviluppare, in cosa essa consista esattamente, questo è Benedetto XVI. Delle tre encicliche da lui redatte, due contengono addirittura già nel titolo il termine «carità» (Deus caritas est, Caritas in veritate). Risulta allora assai opportuno ripercorrerne alcuni punti, per comprendere meglio la portata di ciò che Joseph Ratzinger definisce anche come «via maestra della dottrina sociale della Chiesa» (Caritas in veritate, n. 2).

La carità: forza propulsiva che trasforma l’uomo e la società


Come abbiamo visto nelle righe iniziali, dopo la Rivelazione di Cristo e della Buona Novella, la trasformazione dell’uomo, e dunque della società, passa dalla legge della carità manifestatasi nell’amore di Dio per gli uomini. «“Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4, 16). Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino», leggiamo nelle prime righe dell’enciclica Deus caritas est. Benedetto XVI non può che iniziare da qui, cioè dall’essenza della Rivelazione così ben sintetizzata dall’apostolo «che Egli amava» (Gv 19, 26). Accettare e credere nell’amore di Dio, significa dare un senso ben preciso alla propria vita e a quella di coloro con cui ciascuno di noi entra in contatto. Che cosa «aggiunge» però Nostro Signore che l’Antico testamento non mostra ancora? In fondo, il precetto «Amerai il tuo prossimo come te stesso» non è «un’invenzione» di Gesù; la troviamo infatti nella parte finale del Libro del Levitico (19, 18), tra le norme di condotta che Dio rivela a Mosè. Tuttavia, ciò che Gesù con la sua vita e il suo esempio rende visibile, è il volume, la consistenza, la dimensione effettiva dell’amore, dandocene una prova concreta lungo tutto l’arco della Sua esistenza, sino all’immolazione finale. «Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr. 1 Gv 4, 10), l’amore adesso non è più solo un “comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro», spiega Benedetto XVI. In altre parole, l’esemplarità dell’amore di Gesù Cristo, seconda persona della Santissima Trinità, rivela a noi la legge della carità, al quale l’uomo è chiamato a partecipare per essere perfetto, vale a dire «completo».


La forma archetipica d’amore: il rapporto tra uomo e donna


Nella vita di tutti i giorni facciamo spesso esperienza della difficoltà di afferrare in tutti i suoi aspetti quello che rischia di restare pur sempre un bellissimo «concetto». Infatti, sebbene Cristo ci abbia spiegato e, soprattutto, mostrato nella concretezza delle sue piaghe cosa significhi amare, la tentazione di autosufficienza, ossia di declinare l’amore secondo un’ottica a noi congeniale, finisce inevitabilmente col frapporsi con la sua reale ed autentica espressione. Ed ecco allora che viene in soccorso dell’essere umano, la forma archetipica di amore, ossia quello tra un uomo e una donna. Tramite un rapporto libero e volontario, questi accettano scambievolmente di donarsi, dando vita ad una famiglia. Benedetto XVI ricorre a due termini greci, eros ed agape, per mostrarci la dialettica sottile ma profonda che si instaura dietro ogni rapporto d’amore. Con il primo termine, si suole indicare un «amore» che è orientato essenzialmente alla ricerca della gratificazione personale; con il secondo, invece, si allude a un amore che «scopre» l’altro da sé e che non resta chiuso nella dimensione del piacere personale, ma che mira a un piacere di altro tipo, che genera pace e comunione interiore. Quando la forza impetuosa dell’eros si lascia fondere e conquistare dalla docilità e saldezza dell’agape, l’amore «diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca».

È tutt’altro che inutile soffermarsi a considerare tali aspetti e le dinamiche che fanno loro da sfondo. E non lo è specialmente ai nostri giorni, nei quali una delle sfide più insidiose e svilenti che affrontiamo, è proprio l’abuso che si fa dell’espressione «amore». Ecco spiegato il motivo per cui se è vero che «la verità va cercata, trovata ed espressa nell’ “economia” della carità», «la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità», ricorda Benedetto XVI nella Caritas in veritate (n. 2).


La solidarietà: principio sociale e virtù morale

Le parole di papa Ratzinger ci permettono di approcciare il tema della solidarietà in modo diverso. La solidarietà cristiana rivela l’uomo a se stesso, laddove gli ricorda l’intrinseca natura sociale che lo caratterizza, la comune dignità di uomo creato ad immagine e somiglianza divina che lo unisce agli altri membri della comunità umana, così come il desiderio di unità e amicizia che lo lega agli uomini e ai popoli di tutta la Terra.

Il Compendio di dottrina sociale della Chiesa mette in evidenza due aspetti della solidarietà, che è bene richiamare. Esso fa infatti riferimento sia alla solidarietà intesa come «principio sociale», sia come «virtù morale». Quest’ultima è definita come «la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, per tutti siamo veramente responsabili di tutti», facendo eco alle parole che si leggono nell’enciclica Sollecitudo rei socialis di Giovanni Paolo II. Essa è la virtù sociale per eccellenza e si colloca nella dimensione della giustizia, la quale è orientata al bene comune.

Tuttavia, come anticipato, la solidarietà — secondo la dottrina sociale della Chiesa — «deve essere colta, innanzi tutto, nel suo valore di principio sociale ordinatore delle istituzioni». Secondo quest’ottica, essa è chiamata a trasformare le strutture di peccato che si annidano e dominano i rapporti sociali in strutture di solidarietà, mediante la creazione o la modifica di «leggi, regole di mercato, ordinamenti» (n. 193).

Giunti a questo punto, però, potrebbe facilmente insinuarsi un dubbio in ciascuno di noi. Ma tra solidarietà e giustizia non vi è una contraddizione di fondo? In apparenza si potrebbe constatare una conflittualità chiara, evidente tra le due, ma a uno sguardo più profondo, è vero il contrario. La solidarietà non solo non si oppone alla giustizia, ma anzi la presuppone e la trascende. «Non posso “donare” all’altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia», ricorda Benedetto XVI (Caritas in veritate, n. 6). La giustizia è dunque inseparabile dalla carità, e anzi, per dirla con Paolo VI, «è la misura minima di essa».


La filantropia prescinde dalla verità


La solidarietà, così come la carità, ha senso solo nella dimensione della verità, lo ricordavamo poc’anzi. Cosa significa concretamente? In altre parole, che differenza c’è tra la carità, che fa rima con misericordia, e la filantropia?

Iniziamo dall’etimologia: il termine filantropia rimanda all’amore per l’uomo e, come è noto, divenne uno degli ideali per eccellenza che vennero predicati dall’illuminismo settecentesco e che furono esaltati dalla Rivoluzione francese. Il pedagogista tedesco Johann Bernhard Basedow coniò addirittura un metodo educativo ispirato agli ideali filantropici, che prese il nome di «filantropismo». Sul sito internet del Grande Oriente d’Italia, la più antica e numerosa obbedienza massonica della Penisola, al termine di un articolo in cui si pubblicizza l’inaugurazione di una mostra tenutasi a Rimini nel 2019, si legge quanto segue: «La filantropia affonda le sue radici teoriche negli ideali illuministici che saranno esaltati dalla Rivoluzione francese. Il motto di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza, che caratterizza ancora oggi la Massoneria, assumerà una forma operativa lungo il corso dell’Ottocento con la fondazione di ospedali, l’apertura di scuole, case di riposo, e altro ancora, realizzati dai Liberi Muratori in tutto il mondo[…]».

Il termine carità, invece, indica semplicemente l’amore ed è descritto dal Catechismo della Chiesa cattolica con queste parole: «La carità è la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio» (n. 1822). Si tratta di una virtù che ha «come origine, causa ed oggetto Dio Uno e Trino». Il riferimento ultimo a cui guarda la carità, non è dunque l’uomo in sé e per sé, come per la filantropia, ma Dio che si è fatto carne e che ha mostrato all’uomo la via di redenzione, riscattandolo dal peccato. La carità può spiegare i suoi effetti soltanto nella verità, la quale fa uscire l’uomo da se stesso e dai suoi limiti, dalle sue sensazioni e opinioni soggettive, e gli permette di incontrare l’altro da sé basando la relazione su un fondamento obiettivo, solido riguardo la valutazione del valore e della sostanza delle cose.



[originariamente pubblicato nel numero di aprile 2025 de La Bussola Mensile]



Dossetti, il Dossettismo e l’ideologia della Costituzione




Relazione di chiusura della Scuola di Dottrina sociale della Chiesa della Lombardia 2024/2025 tenutasi ad Annicco (Cremona), l’11 maggio 2025.





Di Stefano Fontana, 28 mag 2025

Premessa

Vorrei partire da alcune osservazioni di attualità. Il 18 gennaio 2025 i cattolici democratici hanno organizzato una convention per il lancio di un nuovo soggetto politico chiamato “Comunità democratica”. I personaggi politici coinvolti erano Prodi, Castagnetti, Del Rio, Stefano Lepri, Patrizia Toia, Silvia Costa, Fabio Pizzul, Francesco Russo, Paolo Ciani (Demos), Emiliano Manfredonia (Acli), Maria Pia Garavaglia, e Ernesto Maria Ruffini, che poi è stato designato come coordinatore.

La dizione “cattolici democratici” significa che la democrazia è più importante del cattolicesimo, che la democrazia, e quindi la costituzione democratica, impone un “pudore democratico”. Nella espressione cattolici democratici sta tutta la contraddizione dell’esperienza: quando, infatti, il cattolico democratico entra nella politica, deve dimenticare di essere cattolico per poter essere democratico. Come fa, allora, a portare la cultura cattolica in politica? Eppure, la nuova iniziativa è stata benedetta dal presidente dei vescovi italiani, il cardinale Zuppi.

Un secondo cenno riguarda la Settimana sociale dei cattolici italiani che si è tenuta a Trieste nel luglio 2024. In quella occasione il cardinale Zuppi e il presidente Mattarella si sono trovati pienamente d’accordo tra loro nel dire che la democrazia si fonda su se stessa, ossia sulla “partecipazione”. La difesa della costituzione è diventata espressamente il primo impegno della Chiesa italiana sicché non è più molto chiaro se il capo dei cattolici italiani sia Zuppi o Mattarella.

Sergio Mattarella è un dossettiano, ossia un seguace di Giuseppe Dossetti. Quando è stato eletto per la prima volta, gennaio 2015, avevo scritto un articolo dal titolo “Mattarella al Quirinale per liquidare i cattolici”, prevedendo che avrebbe diluito il cattolicesimo in una laicità accettata nella sua radicalità e avremmo rivisto leggi contro la vita e la famiglia firmate da un Presidente della Repubblica cattolico, in quanto “uomo delle istituzioni”. Così, in effetti, è poi stato, e quando egli firmò la legge Cirinnà, il cardinale Caffarra disse: “Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, firmando questa legge, ha sottoscritto una ridefinizione del matrimonio”. Però nel maggio 2023 papa Francesco gli ha conferito il Premio Paolo VI, additandolo come “maestro”, “testimone” e modello cristiano di “servizio”.

Il Dossettismo è l’ideologia della costituzione, ossia la priorità delle istituzioni democratiche sulla fede cattolica con l’annullamento conseguente della Dottrina sociale della Chiesa.

La vita

Giuseppe Dossetti, genovese ma reggiano di adozione, nato nel 1913 e morto nel 1996, giurista e professore, partigiano, partecipò alla vita della Democrazia Cristiana come leader della corrente di sinistra, fino al 1951, quando abbandonò la politica diretta per poi essere ordinato sacerdote nel 1959. In quella data il gruppo dossettiano nella Democrazia Cristiana fu sciolto. Il dossettismo però continuò ad esistere e ad influire anche in seguito, come abbiamo ricordato sopra.

Dossetti era uno dei quattro “Professorini” insieme a Lazzati, Fanfani e La Pira, dai quali nel 1947 era nata la rivista Cronache sociali che rappresentava l’anima progressista e avanzata del cattolicesimo italiano e il cui ultimo numero uscì appunto nel 1951.

Nel 1946 Dossetti fu eletto all’Assemblea Costituente ed ebbe un notevole ruolo nella elaborazione della Costituzione repubblicana. In vista delle elezioni politiche del 18 aprile 1948 Dossetti espresse posizioni molto critiche rispetto a De Gasperi e ai Comitati civici di Gedda. Non apprezzò l’abbandono da parte di De Gasperi del governo tripartito DC-PCI-PSI, che aveva guidato il Paese fino ad allora, né apprezzò la costituzione di un governo monocolore democristiano con la presenza di esponenti liberali. Fu critico anche sulla vittoria elettorale della DC del 18 aprile 1948, come era stato critico verso la campagna elettorale incentrata sull’urto frontale con le sinistre. Fu anche contrario all’entrata dell’Italia nel blocco occidentale, sostenendo invece la neutralità.

Con il prevalere della linea di De Gasperi, Dossetti finì per considerare impossibile il proprio progetto politico e uscì dal partito. Nel 1951 si dimise dalla direzione nazionale e nel 1952 da deputato.

Nel 1952 Dossetti fonda a Bologna una istituzione culturale, il Centro di Documentazione, trasformato poi nell’Istituto di studi religiosi per diventare alla fine Fondazione Giovanni XXIII, presieduta a lungo dall’amico Giuseppe Alberigo e attualmente da Alberto Melloni. La scelta di Bologna come città di adozione era dovuta all’arrivo in città di Giacomo Lercaro, arcivescovo e cardinale. Tra Dossetti e Lercaro ci fu un’ampia collaborazione.

Nel 1959 Dossetti viene ordinato sacerdote. Il cardinale Lercaro lo porta con sé come “teologo privato” al Concilio Vaticano II. Don Dossetti svolge una notevole influenza in senso progressista all’interno del Concilio, sia in forma sotterranea, dietro le quinte come un “partigiano” come egli stesso ebbe a dire, sia alla luce del sole. In particolare, Lercaro ottenne da Paolo VI la nomina di don Dossetti a Segretario unico dei quattro Moderatori dei lavori assembleari, i cardinali Agagianian, Doepfner, Lercaro e Suenens. Era Dossetti a scrivere i loro interventi in aula, in un passaggio molto importante di messa all’angolo della Curia Romana nella conduzione dei lavori conciliari. In quella veste Dossetti escogitò l’idea di sottoporre a tutti i Padri conciliari una serie di quesiti in forma di domanda sul tema della collegialità episcopale, per far emergere nel Concilio una linea apertamente progressista, quesiti che, prima ancora di essere consegnati ai Padri, si poterono leggere su l’Avvenire d’Italia diretto da Raniero La Valle, molto vicino al cardinale Lercaro. Dossetti fu costretto da Paolo VI ad autosospendersi, ma aveva comunque già ottenuto un importante risultato nella linea del “rinnovamento”. Così scrive Roberto De Mattei: “Se Rahner dettava le linee teologiche, Dossetti … suggeriva la strategia procedurale. Sono state sottolineate le molte analogie fra il lavoro di Dossetti nell’assemblea costituente italiana del 1946 e la sua attività di perito conciliare”.

Dopo l’uscita di Dossetti dalla Democrazia Cristiana altri assunsero la sua linea, però anche trasformandola. Fu il caso della “svolta a sinistra” impressa prima da Fanfani e poi da Moro soprattutto nel decennio 1958-1968 e poi, con complesse vicende politiche, fino alla morte di Moro nel 1978 per mano delle Brigate Rosse. Non c’è identità tra dossettismo e moroteismo, ma Dossetti stesso ha rivelato di aver puntato molto su Moro come erede delle proprie posizioni e nell’area morotea gravitarono molti politici legati al dossettismo.

Nel 1975 nacque la “Lega Democratica” di Pietro Scoppola, Achille Ardigò, Ermanno Gorrieri, Francesco Traniello, Paolo Prodi, Romano Prodi, Paola Gaiotti de Biase, Roberto Ruffilli. Era il periodo del “dissenso cattolico”, del confuso fermento suscitato dal Concilio, della proposta di Berlinguer del “compromesso storico”, del successo del PCI alle amministrative del 1975, del possibile “sorpasso” della DC, dell’ingresso nelle liste elettorali del PCI di alcuni indipendenti cattolici: Raniero La Valle, Piero Pratesi, Mario Gozzini e altri. Più tardi, nel 1993, nacquero i “Cristiano sociali” di Gorrieri e Pierre Carniti. Tutte queste forme di mobilitazione culturale e politica non coincisero col dossettismo ma non ne furono nemmeno indipendenti.

Negli anni Ottanta, soprattutto con la segreteria di Ciriaco De Mita iniziata nel 1982, i dossettiani “dilagano” sia nel partito che nel sistema di potere. Il dossettiano e bolognese Beniamino Andreatta collega il dossettismo con la finanza tramite l’operazione del Banco Ambrosiano e impronta un capitalismo gradito alla sinistra, progettando lo smantellamento dell’IRI, ossia dell’industria di Stato. Il dossettiano Romano Prodi sarà l’ultimo presidente dell’IRI. In questa fase i dossettiani hanno un nuovo grande nemico: il PSI di Bettino Craxi.

Nei primi anni Novanta il monaco Dossetti entra ancora in campo. Si pronuncia a sostegno del Pool Mani Pulite e con lo scritto “Sentinella, quanto resta della notte?” chiama a raccolta i partigiani della Costituzione contro – a suo dire – l’”eversione” democratica berlusconiana. Il capo del pool di Milano Francesco Saverio Borrelli pronuncia il suo famoso “Resistere, Resistere, Resistere” proprio nel ritiro di Dossetti, a Montesole. Di contro viene seguita con favore e promossa l’evoluzione del PCI in PdS e poi in PD, processo al quale i dossettiani danno un grande contributo fino a realizzare una confluenza sistematica dei politici cattolici dentro il PD che ormai eredita direttamente il dossettismo storico.

Nel 1996 don Giuseppe Dossetti tiene a battesimo l’Ulivo di Romano Prodi. Quando nacque l’Ulivo, Dossetti ne piantò simbolicamente uno nel suo ritiro di Montesole. La fine della Democrazia Cristiana a seguito dell’inchiesta Mani Pulite toglieva di mezzo il principale ostacolo al progetto dossettiano che ora si sarebbe potuto dispiegare.

Poco dopo questi eventi, il 15 dicembre 1996 don Dossetti morì a Monteveglio. È sepolto a Montesole, tra le tombe delle vittime dell’eccidio di Marzabotto.

Il pensiero

Dossetti leggeva la situazione italiana della Resistenza e della fase costituente come l’occasione di dar vita ad una nuova democrazia, in netta discontinuità rispetto alla democrazia liberale. La lotta al fascismo e la resistenza erano stati secondo lui eventi epocali e di alto significato storico che dovevano produrre frutti continuativi. A questo scopo egli riteneva fondamentale un’apertura politica al Partito comunista italiano che esprimeva, secondo lui, una partecipazione di popolo di cui la nuova democrazia aveva bisogno. Ciò era reputato necessario anche per opporsi alla democrazia liberale anglo-americana. In ciò il suo pensiero finiva per convergere con quello di Togliatti che, dopo il discorso di Salerno, aveva posto le basi per un innesto dei comunisti nella vita democratica italiana. In questo modo Dossetti va posto in relazione con altri cattolici che si ponevano la stessa questione del rapporto con il PCI, come Franco Rodano e Felice Balbo.

In questo quadro si comprende la grande importanza che egli diede, e che sempre darà, alla nuova Costituzione repubblicana, considerandola un testo rivoluzionario, non solo un insieme di norme, ma un progetto di rivoluzione democratica da realizzare, un programma d’azione. La Costituzione diventava così un assoluto quasi sacrale, al di sopra di tutto e di tutti, intangibile, un’utopia da realizzare. Si comprende anche come egli ponesse al centro di questo rinnovamento lo Stato e la sua attività di intervento nella società, nella cultura, nella scuola, nell’economia. La salvezza era vista in una economia governata dal pubblico, che certamente Dossetti non fece a tempo a vedere realizzata ma di cui fu l’ispiratore. Si è parlato per lui di “costituzionalismo autoritario” e di “sacralità dello Stato”, a partire dal suo famoso discorso del 1951 ai Giuristi cattolici in cui appunto invitata i cattolici a “non avere paura dello Stato”.

Questa visione fu alla base della sua attività politica e costituente, spiega l’avversione per la Democrazia Cristiana di De Gasperi e dei Comitati civici di Gedda, ma anche per la tradizione del Partito popolare di Sturzo. Dossetti voleva che la Democrazia Cristiana diventasse un partito cristiano non più legato alla Chiesa e alla religione, un partito post-religioso e post-cristiano. Egli considerava il processo di secolarizzazione come irreversibile e positivo in quanto derivante dallo stesso Cristianesimo, che veniva così liberato da ogni forma ideologica di società sacrale. Per questo egli subiva l’influenza di Maritain di cui condivideva, almeno in una prima fase, il progetto di “nuova cristianità” laica e democratica fondata sul Vangelo come fermento sociale e la visione del marxismo come “eresia cristiana”. Considerato il marxismo in questo modo, lo si doveva aiutare a liberarsi dai suoi presupposti ateistici e renderlo atto a diventare compagno di viaggio per i cattolici nella nuova democrazia compiuta.

Questa visione delle cose politiche era evidentemente in rapporto anche con le questioni ecclesiali. Il progetto della democrazia compiuta ricollocava i cattolici nella scena del mondo secondo modalità nuove e, quindi, richiedeva anche una trasformazione della Chiesa. Si pone qui la relazione, non semplice da decifrare, tra il dossettismo politico da un lato e la partecipazione di don Dossetti al Concilio e l’attività culturale della Fondazione Giovanni XXIII dall’altro.

Sappiamo che la Scuola di Bologna ha avuto un grande influsso nella Chiesa italiana, promuovendo una particolare interpretazione del Concilio. Secondo la Scuola di Giuseppe Alberigo il Concilio è stato soprattutto un “evento” il cui significato va oltre i testi dei documenti. Un evento non concluso e che deve essere continuamente sviluppato nelle sue esigenze evangeliche radicali. Nasce qui la contrapposizione sostenuta dalla Scuola sul piano storico tra Giovanni XXIII e Paolo VI e soprattutto la critica continua e sistematica a Giovanni Paolo II. Paolo VI avrebbe fermato e irregimentato il carattere profetico dell’evento Concilio e Giovanni Paolo II avrebbe normalizzato definitivamente la Chiesa. L’ottica dell’evento deve essere il punto di vista da cui considerare anche i documenti conciliari e non viceversa. I documenti sono da considerarsi come una soluzione di compromesso raggiunta in aula e quindi non possono racchiudere in sé il senso pieno del Concilio.

Una valutazione

Un primo punto interessante è la sua valutazione della Resistenza e del Fascismo visto come male assoluto. Augusto Del Noce ha mostrato il carattere ideologico funzionale alla sinistra sia della vulgata sulla Resistenza sia di quella sul Fascismo come male assoluto. Garantire un proseguimento nelle vicende politiche della nuova repubblica italiana del cosiddetto spirito della resistenza, o meglio del Comitato di Liberazione Nazionale, significava dare una patente di democraticità al Partito Comunista Italiano e, in generale, al comunismo. La definizione del Fascismo come “male assoluto”, che è poi continuata fino ad oggi come si è visto con il governo Meloni, sicché chi si oppone o semplicemente critica la mentalità imposta dal potere democratico viene accusato appunto di essere “fascista”, nascondeva il male, molto più grande, del comunismo, facendo in modo che una coltre si silenzio fosse stesa su di esso ed ancora oggi è così. Dossetti fu uno dei protagonisti di questa operazione culturale che però presenta dei lati problematici.

Per immettere il PCI nella democrazia italiana bisognava staccarlo da Mosca e aiutarlo ad evolversi affinché abbandonasse la sua metafisica atea. Questa era anche l’idea di Dossetti. Su questo però pesa un rilevante equivoco a proposito del comunismo, anche questo messo bene in luce da Del Noce in tutte le sue opere e specialmente ne “Il suicidio della rivoluzione”. L’equivoco consiste nel pensare che, una volta superati i suoi presupposti metafisici il comunismo diventi migliore, mentre invece peggiora. 

Eliminando l’ateismo e la rivoluzione, il comunismo incontra la cultura borghese della società irreligiosa e opulenta, con la quale converge nell’intento di secolarizzare la società non solo dal punto di vista religioso ma anche etico. Come scrive Del Noce, paradossalmente la scomparsa di Dio non è seguita alla rivoluzione comunista ma sembra oggi avvenire nell’ultimo stadio della società borghese, verso cui il comunismo è confluito. L’evoluzione del PCI in questo senso è molto chiara. Il partito che aveva estromesso Pasolini dalle proprie file perché omosessuale in seguito, cambiato di nome, ha promosso in Parlamento tutti i “nuovi diritti” diventando un partito radicale di massa e facendo da ricettacolo anche dei voti dei cattolici democratici che, a seguito del dossettismo, sono in esso confluiti.

Un altro punto che merita una attenzione critica è la visione che Dossetti aveva della Costituzione. Vedere la Costituzione come un assoluto, come un progetto messianico, come la verità politica fondante la comunità è sbagliato. La Carta costituzionale non si auto-fonda, ma dipende dalla Costituzione reale, ossia dall’ordinamento finalistico della società e dal diritto naturale, oltre che dal diritto divino. Liberando la Costituzione da questi fondamenti indisponibili per farne un assoluto autonomo e autofondativo, la si trasforma in un artificio.

Una Costituzione come artificio è però quanto di più fragile si possa intendere, perché si presta ad altri interventi artificiali del potere politico. Questo è infatti avvenuto in Italia: alcune parti della Costituzione sono state disattese, altre sono state rovesciate nella prassi legislativa e politica, altre sono state modificate secondo gli interessi politici del momento, e la Corte Costituzionale in numerose sentenze ha anche rivisto il cosiddetto “spirito della Costituzione”, introducendo sempre di più una visione ispirata al positivismo giuridico. La Costituzione utopica e palingenetica di Dossetti è così diventata un testo legislativo cambiabile, aggiustabile, smontabile e rimontabile come ha per esempio dimostrato la legge Cirinnà, che pure è stata firmata da un Presidente della Repubblica dossettiano di ispirazione.

Quando è scoppiato il caso Mani Pulite all’inizio degli anni Novanta e don Dossetti si è messo dalla parte della Costituzione e quindi del Pool milanese, forse non aveva capito che la magistratura stava diventando apertamente un soggetto politico e che i giudici da lì in poi si sarebbero sostituiti al potere legislativo. La Costituzione non è sufficiente a difendere la Costituzione. Senza il riferimento ad un piano indisponibile che la precede e la legittima, ogni Costituzione crolla dentro la propria natura di artificio. Il partito costituzionale tanto caro a Dossetti è quindi il partito più anticostituzionale che ci sia. Dall’Ulivo in poi è iniziata una sequela di eventi anticostituzionali portati avanti dal partito costituzionale. Del resto per Dossetti il fondamento della Costituzione non era nemmeno la sovranità popolare, ma lo “spirito” della Costituzione e basta.

Si è discusso molto sulla relazione tra la riforma politica disegnata da Dossetti e la riforma ecclesiastica avvenuta nel Vaticano II anche con l’apporto, breve ma interessante, di Dossetti e di cui ho già brevemente riferito. Certamente Dossetti non va direttamente collegato con il dissenso cattolico del Sessantotto anche se le vicende della Lega Democratica e della sinistra cattolica negli anni Settanta e Ottanta non sono a lui estranee. Però va ricordato il suo notevole interesse e impegno diretto e indiretto per l’aggiornamento in senso progressista della Chiesa, e un aspetto di questo aggiornamento secondo lui doveva essere la decisa conquista della laicità della politica rispetto alla religione. La Costituzione doveva essere la chiave totale della politica, sicché la religione doveva rimanere qualcosa d’altro. Qui politica e riforma conciliare della Chiesa si uniscono: il Concilio avrebbe indirizzato la Chiesa al trascendente e la politica avrebbe indirizzato i cattolici a realizzare la Costituzione. Sta di fatto che il dossettismo secolarizzò la presenza politica dei cattolici, anzi la distrusse, facendone solo un inconsistente, fragile e mutevole, atto di coscienza individuale.






Stefano Fontana

(Foto: Dossetti, Di Sconosciuto – Italian magazine Epoca, Vol. XXXVII n. 473, 25 October 1959, Pubblico dominio)

Pistoia: giovedì 29 maggio Messa dell'Ascensione (in latino)

 



Nella Chiesa di San Vitale - Pistoia

via della Madonna 2

Giovedì 29 maggio 2025


ore 18:00


Santa Messa in V.O.
dell'Ascensione


preceduta dal S. Rosario









mercoledì 28 maggio 2025

Finisce l'era Paglia, la morale resta sotto le macerie



A 80 anni il presule amico di Pannella si congeda dal Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II e dalla Pontificia Accademia per la Vita, dopo aver ribaltato l’uno e l’altra. Una gestione disastrosa che ha sfrattato Dio dai desideri e bisogni dell'uomo per andare a braccetto col mondo.


Nuovo paradigma

Ecclesia 



Il motivo indicato dal Vaticano è formale: raggiunti limiti di età. E così l’80enne mons. Vincenzo Paglia ha lasciato la guida del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia e al suo posto, in qualità di Gran Cancelliere, è stato nominato il cardinale Baldassare Reina. Paglia lascia anche la presidenza della Pontificia Accademia per la Vita (Pav) a favore di monsignor Renzo Pegoraro.

Quale l’eredità che ci ha lasciato mons. Paglia? Disastrosa. Ricordiamo per sommi capi l’opera di distruzione che Paglia ha compiuto a danno della dottrina morale cattolica sotto il pontificato di Francesco. Siamo nel 2017 e la Pav organizza un convegno con la World Medical Association. Nel convegno sono intervenuti relatori schiettamente a favore dell’aborto come Yvonne Gilli, rappresentante della sezione svizzera del colosso abortista Planned Parenthood, e dell’eutanasia, quali René Héman, allora presidente dell'Associazione dei medici tedeschi, Volker Lipp, professore di diritto civile all’università Georg-August di Gottingen, Heidi Stensmyren, già presidente dell’Associazione dei medici svedesi, Anne de la Tour, già presidente della Società francese di cure palliative, e Ralf Jox, docente dell’università di Monaco.

Mons. Paglia licenzia alla Pav e all’Istituto Giovanni Paolo II la vecchia guardia, troppo legata agli assoluti morali, e assume personalità più inclini ad una morale votata al situazionismo, alla fenomenologia etica e al proporzionalismo. E così nel 2017 Paglia nomina come membri della Pav Nigel Biggar – professore di Teologia Morale e Pastorale presso l'Università di Oxford – abortista e pro-eutanasia, la professoressa Katarina Le Blanc, docente al Karolinska Institut, che nel suo lavoro usava cellule staminali embrionali, e don Maurizio Chiodi, docente di bioetica presso la Facoltà teologica dell'Italia settentrionale e favorevole alla fecondazione artificiale, alla contraccezione e all’omosessualità. Nel 2022 entra come membro della Pav anche l’economista Mariana Mazzucato, atea, pro-aborto e legata al Forum Economico di Davos.

Altri accadimenti segnano la vita della Pav in quegli anni. Nel 2017 un seminario internazionale per i trenta anni della Donum Vitae viene annullato: quel documento dell’allora Congregazione per la Dottrina della Fede era palesemente in contrasto con il nuovo corso. Nel febbraio dello stesso anno mons. Paglia elogia il leader radicale Marco Pannella da poco scomparso: «la sua è una grande perdita per questo nostro paese», «una storia per la difesa della dignità di tutti», «un tesoro prezioso da conservare», «ispiratore di una vita più bella per il mondo che ha bisogno di uomini che sappiano parlare come lui».

Passiamo al 2018: Paglia interviene sul caso del piccolo Alfie Evans, vivo grazie al supporto di macchinari particolari e poi condannato a morte dalla giustizia inglese, e considera tenere in vita questo bambino come accanimento terapeutico, sposando così la tesi eutanasica dei giudici dell’Alta Corte di Londra.

Siamo nell’agosto del 2020: il Governo ha emanato alcune linee guida per potenziare l’accesso all’aborto chimico in piena emergenza Covid. La Pav pubblica una Nota che critica queste linee guida, ma nella stessa manca una esplicita critica alla legge 194 e al fatto che il tempo di assunzione di queste pillole fosse stato ampliato, ampliando così anche l’efficacia abortiva delle stesse.

Nell’ottobre del 2021 mons. Paglia è ospite di Rebus, talk show di Rai 3. In quell’occasione, tra le altre “sbavature”, l’allora presidente della Pav esprime il suo favore, seppur obtorto collo, ad una legge sul suicidio assistito. Nel novembre di quello stesso anno interviene al convegno Tecnologie e fine vita: il primato dell’accompagnamento, dove incorre in vari inciampi su tematiche come il consenso, le Dat e l’indisponibilità della vita. Nell’aprile del 2023, in occasione di un festival del giornalismo, torna sul tema “legittimazione del suicidio assistito” e questa volta è chiaro il suo appoggio ad una norma legittimante, nonostante una rettifica che tale non è perché conferma il giudizio iniziale.

Arriviamo al giugno del 2022. Il Corsera intervista Paglia sul tema aborto e sulla 194: il già presidente della Pav non approfitta della ghiotta occasione per affermare che la Chiesa auspica la sua abrogazione, anzi pare proprio che Paglia non voglia metterla in discussione. I dubbi spariscono dopo due mesi, quando su Rai 3 Paglia dichiara che la legge 194 è «un pilastro della società», aggiungendo che non «è assolutamente in discussione». Nel novembre dello stesso anno rilascia un’intervista a The Tablet in cui, in merito alla liceità della contraccezione, il monsignore così si esprime: «Credo che verrà il giorno in cui papa Francesco o il prossimo papa, lo farà. Ma cosa posso dire? Di sicuro, lo dobbiamo prendere in considerazione».

Sempre nel 2022 viene pubblicato il volume della Pav Etica teologica della vita. Scrittura, tradizione che sostiene la bontà della contraccezione, per superare i limiti imposti da Humanae vitae, della fecondazione extracorporea e dell’eutanasia. Poi nel 2024 si dà alle stampe il Piccolo lessico del fine-vita in cui si evince che la Pav sia a favore dell’eutanasia, mascherandola da rifiuto di accanimento terapeutico, e del suicidio assistito. Il libretto suscita una certa riprovazione e allora Paglia tenta di metterci una toppa rilasciando alcune interviste, ma la toppa si rivela peggiore del buco.

In merito all’Istituto Giovanni Paolo II, un motu proprio di papa Francesco del 2017 ne stravolge l’identità, così come era stata pensata da Giovanni Paolo II, perché il documento di riferimento diventa Amoris laetitia: la pastorale soppianta la dottrina, i riferimenti morali sono dati dai casi particolari, dal discernimento personale, dalla prassi, dall’intenzione soggettiva, dalle circostanze, etc. Paglia, naturalmente, sposa appieno questo cambio di paradigma. Una prova tra le tante: nello stesso anno rilascia un’intervista in cui approva la comunione ai divorziati risposati. Nel 2019 Paglia pubblica gli statuti dell’Istituto: cancellata Teologia morale, che è come cancellare l’esame di diritto privato a giurisprudenza, e silurati due docenti simboli del GPII e dalla specchiata ortodossia dottrinale: monsignor Livio Melina e padre José Noriega. A seguire arriveranno altre purghe, mentre verranno chiamati ad insegnare docenti che sposano un orientamento contrario agli insegnamenti di Giovanni Paolo II, come il già ricordato don Maurizio Chiodi, don Pier Davide Guenzi, favorevole alle condotte omosessuali, e monsignor Pierangelo Sequeri, preside dell’Istituto. Forse la sintesi migliore della nuova natura che innerva il GPII la possiamo rinvenire in un post, pubblicato nel gennaio del 2021 sulla pagina Facebook dell’Istituto, che così recitava: «difendere il diritto all’aborto non significa difendere l’aborto».

Veniamo, è proprio il caso di dire, alla morale della favola, che più una favola appare essere un dramma. La Pav e il GPII a guida Paglia sono transitati da una teologia morale fondata sulla Rivelazione e sulla metafisica dell'essere e della persona, ad una teologia storicista e soggettivista. I mala in se sono diventati i mali secondo me, l’intenzione soggettiva ha cancellato il significato morale oggettivo degli atti, le circostanze si sono trasformate in cause legittimanti il male, i fenomeni sociali sono assurti a paradigmi etici di riferimento, la natura umana è stata soppiantata dai costumi, dai condizionamenti, dagli usi, dai tratti psicologici individuali. In definitiva, Dio e le sue esigenze sono stati sfrattati da qualsiasi mero desiderio e bisogno dell’uomo.





Deriva di morte Francia, primo sì al suicidio assistito (e guai a chi lo ostacolerà)



L’Assemblea Nazionale ha approvato due disegni di legge di diverso tenore: uno per ampliare le cure palliative, l’altro per liberalizzare eutanasia e suicidio assistito. E spunta anche il reato per chi ostacolerà il suicidio. Un altro colpo alla civiltà umana, ma Macron parla di «fraternità».




Luca Volontè, 28-05-2025

Altro colpo d’ascia di Emmanuel Macron e della massoneria alla civiltà umana in Francia. Ieri pomeriggio i parlamentari dell’Assemblea Nazionale hanno approvato a larga maggioranza due proposte di legge sul "fine vita": una per ampliare le cure palliative e l’altra per facilitare la "morte assistita". Siamo di fronte all’ennesima rottura antropologica nel Paese transalpino, dopo quella sulla costituzionalizzazione dell’aborto nel 2024 e quella sulla fecondazione artificiale per tutti nel 2021. Un modello mortifero, quello della Francia di Macron, che liberalizza l’omicidio di innocenti, spegne le speranze di vita e di cura e sradica ogni legame di paternità e maternità.

Al termine di una lunga seduta l'Assemblea Nazionale ha approvato dunque sia il progetto di legge volto ad estendere le cure palliative (560 voti a favore, 0 contrari) sia quello che intende aprire “un'assistenza attiva al suicidio" (305 voti a favore, 199 contrari). Entrambi i testi saranno ora inviati al Senato per essere esaminati «in autunno», com’è emerso, e il ministro della Salute francese, Catherine Vautrin, spera che possano essere approvati prima delle elezioni presidenziali del 2027. Macron ha salutato su X l’approvazione dei due testi come un passo importante perché «si sta gradualmente aprendo il cammino di fraternità che avevo auspicato. Con dignità e umanità». Fraternità, dignità e umanità, in realtà, contro la vita umana.

I 199 deputati che hanno votato contro la legge sul “diritto” di morire comprendono: 101 deputati del Rassemblement National (mentre 19 hanno votato a favore e 3 si sono astenuti), 11 deputati del gruppo Ensemble (a fronte di 64 voti a favore e 14 astensioni), un deputato di La France insoumise (a fronte di 71 voti a favore e 3 astensioni), 4 deputati socialisti (mentre 66 hanno votato a favore e 2 si sono astenuti), 34 deputati del gruppo Destra repubblicana (7 hanno votato a favore e 8 si sono astenuti), un deputato del gruppo Ecologisti e Socialisti (mentre altri 33 hanno votato a favore e uno si è astenuto), 9 deputati del gruppo Les Démocrates (20 hanno votato a favore e 7 si sono astenuti), 13 deputati del gruppo Horizons (14 hanno votato a favore e 6 si sono astenuti), 3 deputati del gruppo Liot (11 hanno votato a favore e 9 si sono astenuti), un deputato del gruppo Gauche démocrate et républicaine (12 hanno votato a favore e 3 si sono astenuti), tutti i 16 deputati del gruppo Udr, guidato da Eric Ciotti, 5 deputati non iscritti ad alcun gruppo (mentre 4 hanno votato a favore e uno si è astenuto).

I termini «eutanasia» e «suicidio assistito» non sono stati inclusi nella legge, con grande rammarico degli oppositori che chiedevano maggiore chiarezza; si è preferita l’ambiguità delle espressioni «aiuto nel morire» e «auto-somministrazione» del prodotto letale. Sulla questione dei criteri di ammissibilità alla morte indotta, i dibattiti sono stati più tesi; dopo due settimane di esame, le cose sono cambiate poco e la spaccatura dell’aula dimostra quanto perdurino le divisioni tra e dentro i partiti. Per la previsione di legge francese, i pazienti dovranno soddisfare cinque criteri per avere accesso a un prodotto letale: essere maggiorenni e francesi, affetti da «una patologia grave e incurabile» che «mette in pericolo la vita, in fase avanzata o terminale» e con «sofferenze fisiche o psicologiche legate a tale patologia»; infine, devono poter «esprimere la propria volontà in modo libero e consapevole». Allo stesso tempo, l’altro disegno di legge, dedicato al rafforzamento delle cure palliative, viene presentato come uno strumento per controbilanciare il nuovo ingannevole diritto a una morte «dignitosa».

Una questione tra le più controverse è stata quella relativa all'istituzione del «reato di ostacolo al suicidio assistito», cioè si prevede la punizione, con la reclusione fino a due anni e una multa di 30.000 euro, per chiunque compia atti che di fatto mirino ad «impedire o tentare di impedire la pratica» dell'eutanasia o del suicidio assistito. Per il ministro dell'Interno in carica e neo eletto leader dei Repubblicani, Bruno Retailleau, il testo, con questa modifica, oltrepassa un «nuovo limite non sopportabile». «Tenere la mano a chi soffre è il segno distintivo dell'umanità. Vogliamo davvero una società che condanna chi cerca di dare una ragione di vita a chi non ne ha più? Questo è davvero troppo. Non possiamo essere colpevoli di compassione!» ha dichiarato con fermezza. Lo stesso leader di centrodestra già sabato 24 maggio aveva criticato la norma del reato di ostacolo al suicidio, mentre i deputati completavano l'esame del disegno di legge, votato poi ieri.

In definitiva, questo insieme di norme costituisce quel «nuovo modello di fine vita» auspicato e difeso da Macron davanti alle massonerie di Francia lo scorso 5 maggio, quando aveva promosso il testo sull’eutanasia in discussione e si era congratulato con i massoni per la loro «ambizione di fare dell'uomo (...) il libero attore della propria vita, dalla nascita alla morte».

D'altro canto, i contrari al suicidio assistito riuniti nel Collectif Soins de Vie ritengono che la Francia abbia appena approvato una delle leggi sul fine vita più «permissive» del mondo. «Più che una risposta ad alcune situazioni di sofferenza, questa legge introduce un nuovo diritto che va al di là delle situazioni di fine vita», avverte questo gruppo, composto da una ventina di ordini di medici e di società scientifiche.

Il nuovo testo sulla “morte assistita”, se approvato, rappresenterebbe un peggioramento rispetto alla già problematica legge Claeys-Leonetti del 2016, nel cui quadro si inserisce ad esempio l’eutanasia di Stato perpetrata ai danni di Vincent Lambert (vedi qui e qui).

L’appello di tutti i vescovi dell'Île-de-France non è riuscito a fermare il voto omicida della maggioranza dei deputati francesi: il richiamo a non proseguire verso la rottura antropologica che «creerebbe le condizioni per un crimine contro la dignità, un crimine contro la fraternità, un crimine contro la vita», non ha convinto tutti, ma ha mostrato almeno una Chiesa ferma e chiara in terra francese.






martedì 27 maggio 2025

«Italia demograficamente fragile, ma c’è qualche segnale di ottimismo»


Immagine generata dall'intelligenza artificiale di OpenAi

Il demografo Gian Carlo Blangiardo commenta il Rapporto Annuale dell'Istat: «Il Paese sopravvive dignitosamente in un contesto difficile. Bisogna agire per contrastare gli effetti dell'invecchiamento della popolazione»

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Di Piero Vietti, 26 Maggio 2025

La scorsa settimana l’Istat ha pubblicato il Rapporto Annuale 2024 sulla situazione del Paese. Un documento ricco di dati da cui emergono elementi di forza e di fragilità che, se compresi e affrontati nel modo giusto dalla politica, possono essere molto utili per stabilire strategie nel medio e lungo periodo. Come ovvio il Rapporto è diventato subito spunto di letture di parte: l’opposizione ha sottolineato quello che non va per dare la colpa al governo e la maggioranza ha puntato i riflettori sui numeri positivi per prendersene i meriti. Tempi ha chiesto a Gian Carlo Blangiardo, statistico, demografo ed ex presidente dell’Istat dal 2019 al 2023, un commento.


Professore, che Italia emerge dal Rapporto Annuale 2024 dell’Istat?


Un’Italia che sopravvive, e aggiungerei che sopravvive dignitosamente, in un contesto difficile da tanti punti di vista. Sono abbastanza grande, ma forse lo siamo tutti, per aver visto momenti peggiori.


Quali sono i punti di forza del Paese?


Cominciamo con l’economia, prendiamo i dati sul reddito e sul prodotto interno lordo: ci sono stati anni in cui si era sotto, magari non di tanto, ma si era sotto. Adesso galleggiamo leggermente sopra. In un momento in cui anche gli altri Paesi, compresi quelli “bravi”, faticano a fare altrettanto. Un primo elemento positivo è che l’economia, con tutti i suoi difetti, in qualche modo tiene, nonostante le guerre e, per fare un esempio, i recenti problemi di approvigionamento del gas. Un altro elemento positivo è che i lavoratori sono aumentati, checché ne dica la Cgil promuovendo i referendum del 7-8 giugno, gli occupati hanno raggiunto livelli molto alti come non si vedevano da tempo. Poi si può discutere sulla qualità di questi posti di lavoro, ma anche da quel punto di vista c’è stato un passo avanti sul tempo indeterminato, sulla partecipazione femminile, sulla disoccupazione giovanile. Sono segnali che non sono miracoli, ma inducono a un moderato ottimismo.


E le fragilità?


I salari reali che non tengono il passo con l’inflazione, certamente, sono un aspetto su cui lavorare. Io credo che la risposta ai segnali che emergono dal rapporto Istat sia legata alle trasformazioni interne. Ad esempio, la forza lavoro è invecchiata. Questo ha dei pro e dei contro, perché significa che ci sono maggiore esperienza e più competenze maturate, ma anche più difficoltà ad adattarsi alle innovazioni tecnologiche. Dobbiamo essere capaci di modulare pro e contro per ottimizzare il risultato. Questa è la sfida.


Dal Rapporto emerge con sempre più evidente chiarezza che l’inverno demografico non solo continua, ma sta peggiorando.


La popolazione sta diminuendo numericamente, ma il problema più grande è la scomparsa delle nuove generazioni. Le 370.000 nascite dell’anno scorso, dopo le 379.000 del 2023, rappresentano un record negativo. E i primi due mesi del 2025 registrano già un ulteriore calo del 6-7 per cento rispetto allo stesso periodo del 2024. Il rischio è di non raggiungere nemmeno quei 370.000. Scendere a 360.000 o 350.000 nuovi nati in un Paese che una volta ne registrava un milione significa un cambiamento profondo, anche in termini economici: la forza lavoro futura sarà minore.


Con quali conseguenze?


La potenzialità riproduttiva si riduce. Se oggi abbiamo 370.000 bambini, circa la metà saranno femmine, cioè potenziali future madri. Ma è diverso averne 150-160.000 rispetto a mezzo milione: ci si avvita su se stessi. Poi c’è la questione della mobilità: abbiamo una presenza straniera importante, e una presenza di ex stranieri ormai italiani – quasi due milioni – che sono un contributo significativo, ma non risolutivo. Anche tra loro le nascite calano: nel 2012 erano 80.000, oggi sono 50.000. C’è dunque un adattamento anche da parte degli stranieri a questo trend negativo delle nascite in Italia. In più, perdiamo i nostri giovani: nel 2023 circa 21.000 laureati tra i 20 e i 35 anni sono emigrati all’estero. Abbiamo investito per formarli, per poi vederli mettere a frutto altrove le competenze imparate. Non solo non attiriamo laureati stranieri, ma mandiamo i nostri negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Germania.


Siamo un paese di vecchi e per vecchi?

La popolazione è sempre più anziana, e questo fenomeno è dovuto a tre fattori: la vita si allunga, ci sono meno giovani e gli anziani attuali sono le generazioni numerose del passato. Oggi abbiamo oltre 14 milioni di persone con almeno 65 anni; tra qualche decennio saranno diciassette, diciotto, forse diciannove milioni. Dopo, forse, l’onda si ridimensionerà. Il problema principale legato a questo dato non è tanto quello delle pensioni – che potremmo riuscire a gestire – ma quello della sanità. Oggi abbiamo 850.000 persone con almeno 90 anni, che diventeranno presto due milioni. E con due milioni di ultra-novantenni, di cui quasi 100.000 centenari, il sistema sanitario sarà sotto pressione e potrebbe non reggere. Già oggi ci sono scricchiolii. Quando arriveremo a quei livelli, si porranno anche problemi etici: chi curiamo? Chi no?


Si può fare qualcosa per evitare il collasso del sistema?


Dobbiamo capire come affrontare questi cambiamenti inevitabili senza abbassare la qualità della vita. Per esempio, attivare la sanità integrativa. Chi può permetterselo lo fa già: spendiamo 40 miliardi di tasca nostra per cure sanitarie. Serve trovare modalità normative e contrattuali per integrare l’iniziativa privata col servizio sanitario nazionale.


La crisi demografica, poi, ha già colpito alcune aree interne del paese.


Molti piccoli comuni sono a rischio spopolamento, con carenze nei servizi essenziali. Dobbiamo aiutare la residenzialità decentrata, anche sfruttando il lavoro a distanza, ma servono infrastrutture per permettere a giovani, imprenditori o agricoltori di vivere lontani dai grandi centri urbani in condizioni dignitose.


Ogni anno si commentano questi numeri come se fossero una novità inattesa. Possibile che negli anni non sia stato fatto nulla per provare a invertire questa crisi?

Non è una sorpresa. I dati confermano una tendenza nota da anni. Io queste cose le dicevo già trent’anni fa, quando però prevaleva la logica del “navigare a vista”, si rimandava la soluzione dei i problemi strutturali e si cercava il consenso per le successive elezioni, non per le generazioni future. Oggi io vedo maggiore consapevolezza, anche da parte della classe politica. Il Ministero della Natalità è un bel segnale, anche se è senza portafoglio. Almeno si è cominciato a capire dove si vuole andare. Frenare la caduta richiederà tempo: è come un’auto lanciata a 200 km/h, anche se lasci l’acceleratore, l’inerzia resta.


Un altro aspetto importante ma non nuovo è il cambiamento della famiglia.


Le persone sole, le coppie senza figli, i monogenitori: sono tutti sviluppi di una trasformazione iniziata da tempo. La rete familiare si indebolisce. I figli unici implicano l’assenza di fratelli, e quindi anche di nipoti. Questo rende il welfare familiare più fragile, proprio mentre la domanda di aiuto cresce. Un suggerimento che do, prendendo spunto dalla Francia che dà incentivi economici per chi fa il terzo figlio, è quello di incentivare almeno il secondo figlio. I giovani hanno ancora l’idea di fare due figli, ma le difficoltà che affrontano fanno sì che il rinvio di questa scelta alla fine diventi rinuncia.


C’è poi il capitolo povertà in aumento.

Più che giudicare la dimensione del fenomeno, io porrei l’attenzione sulla dinamica. L’Istat misura la povertà assoluta e l’esclusione sociale soprattutto attraverso l’analisi dei consumi. Ma mi permetto di osservare che lo strumento non è perfetto: farsi dire quanto si spende per tabacco, sale, pepe, elettricità, eccetera, è un meccanismo farraginoso. Le soglie di povertà sono stabilite a tavolino ed è curioso che solo il 6 per cento degli italiani risulti sotto soglia, mentre per gli stranieri si parla quasi del 30. È una differenza significativa, probabilmente più statistica che reale. Quello che conta però è la dinamica che questi dati segnalano: la povertà è cresciuta, soprattutto è cresciuta la distanza tra individui e famiglie. Vuol dire che le famiglie numerose, con figli, sono più colpite. E questo si ricollega di nuovo al tema demografico: avere figli espone di più al rischio di povertà.


Tra i quesiti del referendum dell’8-9 giugno ce n’è uno per dimezzare gli anni necessari a uno straniero per ottenere la cittadinanza italiana. Non è un cambiamento che potrebbe avere ricadute positive?


Io penso che dimezzare gli anni necessari per ottenere la cittadinanza non cambierebbe molto. La maggior parte di chi la ottiene ha già il permesso di lungo soggiorno. Non è tanto una questione di tempo trascorso, quanto di radicamento. Faccio un esempio: mia figlia, professore ordinario a Londra, ha ottenuto la cittadinanza inglese dopo avere frequentato corsi, superato esami di lingua e test di storia, non perché è professore. In Italia, invece, si rischia di dare la cittadinanza solo per il tempo trascorso qui. Io non sono contrario alla riforma della legge, ma serve una revisione più ampia e profonda.





Papa Leone XIV lascia Santa Marta per il Palazzo Apostolico: i motivi dietro la scelta




lunedì 26 maggio 2025





Papa Leone XIV abbandona Santa Marta e sceglie il Palazzo Apostolico come residenza. Le ragioni economiche e simboliche.




L’elezione di Papa Leone XIV ha segnato un punto di svolta nella storia recente della Chiesa cattolica. Dopo anni in cui l’immagine papale si è progressivamente allontanata dalla tradizione, il nuovo Pontefice ha intrapreso una serie di azioni volte a ristabilire la dignità e l’autorità della figura del Sommo Pontefice. I suoi primi gesti hanno colpito non solo per la compostezza simbolica ma anche per la chiarezza con cui ha delineato il suo stile di governo: sobrio, determinato e profondamente legato al significato istituzionale del suo ruolo.
Un nuovo inizio per il Pontificato

Papa Leone ha infatti ripristinato segni e usanze che, sotto il pontificato precedente, erano stati in parte abbandonati. Dall’uso quotidiano dell’anello del Pescatore al rifiuto dei selfie, ogni dettaglio sembra voler ricostruire un’immagine papale più solenne e coerente con la tradizione millenaria. Anche l’abbigliamento, tornato formale con mozzetta rossa e rocchetto, contribuisce a questa visione.
Una scelta simbolica e pragmatica

La scelta più significativa, però, riguarda la residenza papale. Fin dal primo giorno, Leone XIV ha deciso di non soggiornare a Santa Marta, l’edificio che dal 2013 aveva ospitato il suo predecessore, Papa Francesco. Quella che inizialmente era stata presentata come una scelta di semplicità e umiltà si è rivelata, nel tempo, un’operazione logisticamente complessa e economicamente insostenibile.


Durante gli anni di permanenza a Santa Marta, le stanze a disposizione del Papa si sono moltiplicate, trasformando il secondo piano in un’area esclusiva con cappella, cucina, salone di rappresentanza e ambienti riservati allo staff. Tutto questo ha comportato costi mensili di quasi 200.000 euro, tra manutenzione, sicurezza raddoppiata e ampliamento del personale della Gendarmeria e delle Guardie Svizzere.


Ecco quindi la decisione tanto attesa: Papa Leone XIV ha scelto di tornare a vivere nel Palazzo Apostolico, dove i Papi hanno sempre risieduto dal 1870 fino al 2013. Una mossa che unisce prudenza finanziaria e rispetto per la tradizione, segnando simbolicamente l’inizio di una nuova fase per il Vaticano. Santa Marta tornerà così al suo uso originale, riservato ai cardinali in Conclave e agli ospiti temporanei. 





lunedì 26 maggio 2025

LA PERCEZIONE CHE PRETENDE DI DIVENTARE REALTÀ

 



MADRE INTENZIONALE



Antonio Catalano, 25-05-2025

La frazione storica nella quale ci è dato di vivere spesso eleva la percezione a perno centrale della conoscenza, essere ciò che si pensa di essere, fare ciò che si sente, fare a partire da sé sono frasi che rientrano nel linguaggio quotidiano comune. Finché si parla di temperatura percepita potremmo anche starci, ma il fatto è che la percezione spesso riguarda la cognizione della stessa identità, per cui non suscita nessuna perplessità l’espressione “io sento di essere”. 

La recente sentenza della Corte costituzionale ammette nelle coppie lesbiche il ruolo di “madre intenzionale”, con il riconoscimento di due “mamme”, un vero e proprio ossimoro per cui la donna che convive con la madre biologica, quindi estranea alla gravidanza e alla fecondazione, è considerata madre in quanto “intenzionale”. 

Ecco, non è la realtà a definire il soggetto ma il soggetto a definire la realtà. Stesso principio applicato all’appartenenza di genere, per cui non esistono più i due generi maschile e femminile ma il genere che si percepisce (lista indefinita). Percezione che va rispettata in quanto espressione dell’essere dell’individuo, discuterla diventa sinonimo di insensibilità quando va bene, di discriminazione nel resto dei casi. 

Un aneddoto riferito a Tommaso d’Aquino racconta che questi all’inizio dei suoi corsi universitari mostrasse ai suoi allievi una mela dicendo “questa è una mela”, per mettere le cose in chiaro sin dall’inizio: nessuna superbia intellettuale che possa condurre a ritenere che sia il pensiero a determinare l’essere, e non il suo contrario. 

Solo Dio, diceva il teologo Tomas Tyn, può permettersi il lusso di essere idealista, perché solo Dio determina l’essere. Paradossalmente, ma non tanto, spesso proprio chi nega Dio si pone al suo posto in quanto “percepisce” sé stesso in quanto dio creatore. Un bel corto circuito.



Fonte web 


Sinodo tedesco, quattro vescovi dicono addio







Giuliano Guzzo, 24 maggio 2025 

Una frattura stavolta c’è ed è anche piuttosto clamorosa. Sì, perché ben quattro vescovi – e, tra questi, un cardinale – hanno annunciato la loro decisione di sfilarsi dal Sinodo tedesco. Si tratta del cardinale Rainer Maria Woelki di Colonia, di mons. Gregor Maria Hanke vescovo di Eichstätt, di mons. Stefan Oster vescovo di Passau e infine di mons. Rudolf Voderholzer, vescovo Ratisbona. I quattro hanno formalizzato la loro scelta in una lettera inviata il 19 maggio a mons. Georg Bätzing, presidente della Conferenza episcopale tedesca, e a Irme Stetter-Karp, Presidente di Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi.

In questa lettera, i quattro vescovi esprimono una vibrante critica al Comitato sinodale, apostrofandolo come «un organismo che non può rivendicare alcuna autorità canonica» che «decide che tutti i vescovi diocesani in Germania, noi compresi, debbano essere membri di un futuro organo». Il comitato sinodale – continuano questi vescovi – si basa su una risoluzione dell’Assemblea sinodale del Cammino sinodale, «che di per sé non ha valore giuridico vincolante». Per questo, i quattro sottolineano – con quella che è una stroncatura a dir poco pesante – di non considerarsi «né membri né sostenitori del comitato sinodale» e di non esserlo nemmeno de iure.

Di qui la richiesta, sempre contenuta nella lettera, del formale chiarimento che sono 23 (e non più 27) i vescovi diocesani effettivamente membri del Comitato sinodale. Questa opposizione, da parte dei quattro vescovi, non è da considerarsi in alcun modo pretestuosa né, per così dire, gratuitamente polemica. Al contrario, essa si basa su una serie di preoccupazioni teologiche e pastorali. In particolare, ad essere criticato frontalmente è il processo decisionale del Cammino sinodale, descritto senza mezzi termini alla stregua di un «processo parlamentare di pura acquisizione di maggioranze» anziché un autentico discernimento spirituale, quale in teoria dovrebbe – o per meglio dire avrebbe dovuto – essere.

Da parte sua, uno dei vescovi che hanno deciso di salutare il Comitato sinodale – mons. Oster – ha ulteriormente evidenziato le profonde divisioni all’interno dell’episcopato tedesco, definendole un «disastro per i fedeli», sottolineando la mancanza di consenso su questioni fondamentali di antropologia e ecclesiologia, avvertendo che tale polarizzazione potrebbe avere conseguenze catastrofiche per la Chiesa in Germania. Staremo ora a vedere che ripercussioni avrà tutto questo, anche se è indubitabile come la decisione dei quattro vescovi rappresenti un punto di svolta nel dibattito sulla sinodalità nell’episcopato tedesco. Soprattutto, allargando il discorso, sarà da vedere come Roma continuerà d’ora in poi a gestire la partita sinodale tedesca, che aveva spazientito perfino Papa Francesco.

Memorabile, a questo riguardo, resta quell’«è cattolica?» scandito a chiare lettere dal pontefice argentino dopo uno degli appuntamenti del viaggio in Lussemburgo e Belgio, allorquando il vescovo ausiliare di Treviri, monsignor Jörg Michael Peters, gli aveva portato i saluti della Conferenza episcopale tedesca. Ma c’è pure da dire che l’allora cardinale Robert Francis Prevost fu firmatario, nel 2024, insieme al cardinale Parolin, di una lettera ai vescovi tedeschi proprio per chiedere fermare il progetto di un Comitato sinodale. Un precedente che, da un lato, lascia abbastanza intuire quale possa essere il pensiero di Papa Leone XIV al riguardo e, dall’altro, rafforza il gesto dei quattro vescovi teutonici che hanno sce di togliere il disturbo.




domenica 25 maggio 2025

BAMBINI SCHIAVI DELLO SCHERMO, GENITORI COMPLICI




Ansia, depressione, isolamento, suicidi: l'inferno è entrato nella cameretta con la connessione Wi-Fi



BastaBugie n.926 del 21 maggio 2025


di Fabio Piemonte

L'iperdigitalizzazione dei minori è sempre più fuori controllo. Gli ultimi dati che arrivano dagli USA sono infatti tutt'altro che rassicuranti: già all'età di 2 anni la maggior parte dei bambini trascorre circa cinque ore al giorno davanti a uno schermo; stesse ore anch pr i bambini da 5 a 8 anni. E ancora - secondo un sondaggio condotto nell'autunno 2024 dal Pew Research Center su adolescenti tra 13 e 17 anni -, la maggior parte dei ragazzi possiede uno smartphone e utilizza i social; di questi circa il 50% afferma di essere online costantemente.

LE CONSEGUENZE SUGLI ADOLESCENTI

Riguardo alle cinque piattaforme social più diffuse - YouTube, TikTok, Instagram, Snapchat e Facebook - un terzo degli adolescenti ne usa almeno una quasi costantemente. L'85% degli stessi afferma di giocare ai videogiochi e circa 4 su 10 lo fanno ogni giorno. Il gioco in rete isola i più giovani, li scherma dalla realtà e ne compromette pesantemente la costruzione di legami stretti anche con i propri stessi familiari, rendendoli maggiormente vulnerabili rispetto ad ansia e depressione. Questo spiega anche il tragico incremento dei tassi di suicidio anche tra minori di appena 11 anni, come rilevato da The Washington Stand. Tra l'altro il gioco in rete ha un altro effetto particolarmente deleterio su bambini e adolescenti, come rilevato da diversi esperti, nella misura in cui li desensibilizza gradualmente a scene di sangue, violenza e pornografia, per cui talvolta costoro possono giungere anche a mettere tragicamente in pratica ciò che sperimentano online. Di qui «come genitori, dobbiamo fare tutto il possibile per garantire che le menti dei nostri figli non siano contaminate da spazzatura, violenza e sangue. Parte di questo lavoro include fare tutto il possibile per far chiudere l'industria pornografica e quei siti web che mirano a sfruttare i bambini. Infatti, una volta che la mente dei bambini è stata esposta a certe immagini, è impossibile riparare il danno. Dovremmo lavorare tutti insieme per fermare questo male prima che inizi», ha denunciato Mary Szoch, direttrice del Centro per la Dignità Umana del Family Research Council (FRC), evidenziando anzitutto la necessità da parte di mamma e papà di vigilare sui comportamenti online dei loro figli.

IL CASO LIMITE: TERRORISTA A 12 ANNI PER COLPA DEI SOCIAL

Vigilanza e prudenza non sono mai sufficienti, tanto più se ci si illude che gli adolescenti siano al sicuro nel segreto della loro stanza. Recentemente l'Associated Press ha infatti raccontato il caso limite di un ragazzo francese di 12 anni radicalizzato online e diventato un islamista estremista, condannato per due capi d'accusa legati al terrorismo. Sua madre pensava stesse semplicemente giocando ai videogiochi e facendo i compiti, mentre - invece- egli stava imparando a uccidere, guardando video di decapitazioni e torture così orribili da far distogliere lo sguardo persino ai funzionari giudiziari francesi esperti che l'hanno scovato. Tutto è cominciato da ricerche in rete sull'Islam e terrorismo; poi «algoritmi automatizzati, che guidano le esperienze online degli utenti e la curiosità del ragazzo, lo hanno condotto a chat criptate e propaganda ultraviolenta diffusa dai militanti dello Stato Islamico e da altri gruppi estremisti che si stanno insinuando nelle menti dei più giovani tramite app, videogiochi e social media», osserva Tony Parkins, presidente del FRC. E non si tratta purtroppo neanche di un caso tanto sporadico se si considera che solo in Francia nel 2022 i pubblici ministeri avevano incriminato solo due minori con accuse preliminari legate al terrorismo; nel 2023 ne hanno incriminati 15 e nel 2024 ben 19.

Insomma dal momento che «il medium è il messaggio» - come insegna il celebre sociologo canadese Marshall McLuhan - e che i social non sono solo banali strumenti di socializzazione, è fondamentale che genitori, docenti ed educatori non si limitino ad attuare strategie di controllo e di 'uso consapevole', ma al contrario testimonino col proprio buon esempio prima che con le parole l'importanza di ricercare e vivere relazioni autentiche con gli altri e l'esigenza vitale di guardarsi negli occhi, giocare e anche litigare concretamente, ossia 'corpo a corpo' e non a colpi di tasti, cominciando a partire da sé a distogliere lo sguardo dallo smartphone.

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Titolo originale: I pericoli per i minori quando si usano per troppe ore social e smartphone
Fonte: Provita & Famiglia, 5 maggio 2025
Pubblicato su BastaBugie n. 926