martedì 29 luglio 2025

La Evangelium vitae nella Dottrina sociale della Chiesa




Pubblichiamo il testo della conferenza tenuta a Bergamo al VII Seminario Mario Palmaro dedicato ai 30 anni dell’enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II, a cura del Comitato Verità e Vita.





Di Stefano Fontana, 29 lug 2025

In questa relazione mi propongo di considerare il rapporto tra l’enciclica Evangelium vitae (EV) e la Dottrina sociale della Chiesa (DSC). Le due si richiamano a vicenda, si implicano, e la loro relazione risulta fondamentale sia per l’una che per l’altra. L’impegno e la lotta per una cultura della vita sono destinati a indebolirsi se non radicati nel più vasto impegno per la costruzione di una società cristiana, che rimane, in fondo, lo scopo della DSC. Dal canto suo, quest’ultima mancherebbe di un elemento fondante la propria identità se la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale si indebolisse o venisse dimenticata. Quando si riscontra, in certi periodi come il nostro, che la Chiesa e i cattolici sono meno attenti a difendere la vita umana si noterà anche che essi hanno perso di vista l’idea stessa di DSC, e viceversa. Ciò accade per l’intero “mondo cattolico”, non solo per i singoli fedeli o per le loro associazioni ma anche per il clero, i vescovi e gli ecclesiastici che occupano posizioni di vertice.

Nella Chiesa italiana il presidente dei vescovi, il cardinale Zuppi, ha più volte affermato che la legge 194 sull’aborto procurato è una buona legge, dissuadendo quanti si sentono impegnati nella società e nella politica ad abolirla. La tesi ufficiale proposta dai vertici ecclesiastici è che difettosa non sia la legge ma la sua insufficiente applicazione: bisogna applicarla bene e fino in fondo, ma non combatterla, anzi difenderla. La settimana scorsa abbiamo assistito ad un dibattito interno al mondo cattolico sul suicidio assistito. Anche in questo caso ecclesiastici che occupano posizioni di vertice nella Santa Sede hanno aperto al dialogo e alla possibilità di trovare dei punti di compromesso tra le diverse posizioni, anche se il tema non permette nessun dialogo né alcun compromesso perché definito nei suoi contorni morali e di fede da precedenti atti irreformabili del magistero, tra cui anche la EV. Veniamo da un lungo periodo in cui sulla politica per la vita i Pastori rinunciano al loro dovere magisteriale e dottrinale e si limitato ad invitare al dialogo, in vista di una concordia sociale che però, se non è fondata sulla verità, diventa impossibile. I vescovi italiani appoggiano nuove forme di aggregazione di laici ed amministratori nate dalla Settimana sociale di Trieste del luglio 2024, nonostante i loro programmi tacciano completamente sul tema della difesa della vita e della famiglia. Partecipare e lavorare insieme a tutti è ritenuta questione primaria e fondamentale, mentre i fini e i contenuti passano in secondo piano. Quando qualcuno di questi dovesse sembrare “divisivo”, dovrebbe essere messo da parte.

Gli esempi potrebbero continuare, ma interessa qui soprattutto notare che, in parallelo con questo indebolimento e con questa confusione sia dottrinale che pratica sulla difesa della vita, si è dovuto notare anche una considerevole trascuratezza della DSC. Nel periodo che abbiamo alle spalle essa è stata intesa come un intervento umanisticheggiante a fianco di tutti gli altri uomini senza distinzione, secondo i principi di una fratellanza universale fondata sull’essere tutti sulla stessa barca dell’esistenza. Ma la DSC non è un atteggiamento bensì un contenuto, non è una postura esistenziale, è un modo di essere della Chiesa. La DSC è un “corpus dottrinale” ordinato e organico, costituito non da esortazioni pastorali ma da principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive d’azione fondati nella Tradizione della Chiesa, ed avente per soggetto la Chiesa stessa nella sua interezza e articolazione e nella sua missione evangelizzatrice. Questa era la visione della DSC di Giovanni Paolo II, dalla quale oggi la Chiesa è molto lontana. Soprattutto un aspetto centrale è stato messo da parte, ossia che la fede cattolica, nella sua capacità di illuminare la ragione senza sostituirvisi, sia in grado di dare un contributo unico e decisivo alla società degli uomini. Non uno dei tanti contributi, ma un contributo unico e decisivo, ossia non solo utile ma indispensabile. C’è qualcosa che solo la Chiesa può fare, in virtù della propria essenza e missione. Con la parola “mondo” la DSC ha sempre inteso l’ordine naturale finalistico della società umana, capace di sé ma non completamente perché gravato dal peccato, bisognoso di salvezza anche al suo stesso livello. Oggi per “mondo” si intende invece la storia dell’umanità con la Chiesa che sta dentro di essa, assieme e alla pari di tutti gli altri attori. Lo aveva anticipato Leone XIII che nella Immortale Dei aveva previsto che la Chiesa sarebbe stata equiparata a qualsiasi altra agenzia sociale e il suo riconoscimento sociale, ma non pubblico, sarebbe dipeso dallo Stato. Prima con la parola mondo si intendeva un ordine da costruire, ora si intende un processo da accompagnare. Alla metafisica è stata sostituita l’ermeneutica e alla dottrina la prassi. L’assunzione di questo cambiamento da parte della Chiesa ha comportato la revisione della DSC, che a sua volta ha impedito al tema della difesa della vita di venire affrontato dentro un suo contesto adeguato. Sia l’impegno per la vita che quello per la DSC, insieme, sono come evaporati.

Vorrei qui accennare a due novità che conseguono a quanto finora visto. La prima è che si dà ormai una prevalenza al “come” piuttosto che al “cosa”, alla pastorale più che alla dottrina, alla relazione più che al contenuto. Nessuna parrocchia oggi organizzerebbe un incontro pubblico di condanna dell’aborto, perché provocherebbe divisione, ossia avrebbe effetti negativi sul “come” si vive la fede. In questo modo viene impedito il “popolo della vita” di cui parla la EV. Lo stesso accade per la DSC: non ho notizia di un suo insegnamento sistematico in qualche diocesi. Ancora una volta, come si vede, la difesa della vita e la DSC risentono delle medesime difficoltà. Oggi solo soggetti periferici e non istituzionalizzati ecclesiasticamente possono portare avanti delle battaglie per la vita e per la DSC correttamente intesa. Quando questi soggetti – penso al Comitato Verità e Vita e al nostro Osservatorio, ad esempio – dovessero collegarsi istituzionalmente con la struttura ecclesiale avrebbero vita grama e breve. Come è successo, ricorderemo, per Scienza e Vita dopo la normalizzazione della CEI. La lotta per la vita e la promozione della DSC oggi si fanno pressoché clandestinamente e sulla propria responsabilità di laici, senza copertura ecclesiastica alle spalle.

L’altra novità riguarda la modalità del coinvolgimento della Chiesa. La EV, soprattutto nel capitolo IV, elenca ed illustra gli ambiti della costruzione di una “cultura della vita” e i compiti di ogni singola componente della comunità ecclesiale perché “è un atto profondamente ecclesiale, che chiama in causa tutti i diversi operai del Vangelo, ciascuno secondo i propri carismi e il proprio ministero”. La EV è anche un Direttorio di pastorale della vita. Questa impostazione era tipica di Giovanni Paolo II che egli adoperava sia per la difesa della vita che per l’intera DSC. Dalle madri ai vescovi, dai nonni agli intellettuali, dal volontariato ai politici, dai sacerdoti agli operatori sanitari: tutti i soggetti, debitamente elencati, avevano un compito da svolgere dentro una finalità unica. Oggi non è più così: i compiti specifici non sono definiti e chiariti ma sono mescolati come se la Chiesa non avesse un ordine interno e come se tutti fossero chiamati a fare tutto. È evidente la confusione che ne risulta, essendo carente sia l’ordine oggettivo dei contenuti da trattare sia l’ordine interno al soggetto Chiesa. Non sono più chiari i fini nei loro diversi livelli di contenuto e non è più chiaro chi deve fare cosa.

La EV parlava ancora di “castità” coniugale, oggi si accettano e talvolta si consigliano le convivenze. I vescovi parlano di tutto, tranne che di quanto dovrebbero parlare. Molto spesso tacciono su quanto dovrebbero invece dire. I laici, dal canto loro, si dividono quasi su tutto, anche sul suicidio assistito. Non ci si deve allora stupire se la questione della lotta all’aborto diventa qualcosa di facoltativo e, al massimo, di estemporaneo. La Chiesa, nelle sue strutture educative – laddove ancora esistono – non educa più al rispetto della vita, se non in modo generico ed evanescente, in modo che non faccia male a nessuno. Oltre che qualcosa di facoltativo ed estemporaneo, l’attenzione al tema della vita è mescolato dentro tante altre questioni ritenute egualmente importanti, o forse di più. 

Oggi non si riesce più a distinguere sul piano assiologico la politica abortista e la politica delle immigrazioni o della lotta alla povertà. L’unica cosa che la Chiesa insegna a questo proposito è che bisogna tenerle davanti entrambe per non cadere nell’errore di considerare l’una di destra e l’altra di sinistra. Ma questo et-et non è cattolico, perché privo di un ordine di importanza. L’”ecologia umana” gerarchizzava perché si fondava su un ordine finalistico e l’aborto era considerato un male intrinseco da combattere in ogni caso, mentre l’immigrazione deve essere governata e lo può essere in molti modi non essendo un male intrinseco. L’”ecologia integrale”, fino ad oggi di moda, fa invece di ogni erba un fascio e le “comunità energetiche” acquistano il primo piano, mentre il “popolo della vita” viene visto con sospetto. 

La scomparsa della dottrina dei principi non negoziabili pone con grande evidenza in collegamento tra loro le difficoltà di un impegno cattolico per la difesa della vita contro l’aborto e le difficoltà di diffondere e promuovere la DSC. La dottrina dei principi non negoziabili stabiliva un ordine ad un doppio livello. Il primo livello era quello di questi principi rispetto ai valori da difendere nella società, sicché diventava facile capire le priorità. Il secondo livello era interno ai principi non negoziabili stessi, dove il diritto alla vita, sempre citato per primo, assumeva un significato fondativo anche degli altri.

Finora ci siamo soffermati su questa relazione tra la EV e la DSC: l’una ha bisogno dell’altra, se si indebolisce l’una nascono difficoltà anche per condurre avanti l’altra, attualmente questa è proprio la situazione reale. Per questo chi lotta per la vita e per la DSC deve farlo ai margini, in modo pressoché clandestino e, quando non osteggiamo, solo tollerato. Questo comune destino negativo è forse la principale conferma della relazione che stiamo sostenendo.

Tornando ora a temi più specifici, è lecito chiedersi cosa dia la EV alla DSC e viceversa. Al n. 101 della EV si legge che “Il Vangelo della vita è per la comunità degli uomini. Agire a favore della vita è contribuire al rinnovamento delle società mediante l’edificazione del bene comune”. Con questo fine, la EV non solo rimanda indirettamente alla DSC ma in alcuni suoi paragrafi ne richiama organicamente i principi. Sappiamo che lo spunto che ha motivato il magistero a redigere questo documento è stato proprio la volontà di affrontare il tema della difesa della vita non solo sul piano della morale personale ma soprattutto in quello della morale sociale e politica. La EV non è un testo di bioetica, ma di teologia morale sociale, categoria in cui rientra, come chiarito dal magistero stesso, anche la DSC. La cosa risulta evidente dal rapporto stabilito all’inizio del testo tra i poveri dei tempi di Leone XIII, gli operai, e i più poveri tra i poveri di oggi di cui intende occuparsi l’enciclica: gli esseri umani concepiti e poi abortiti in ossequio ad una legge dello Stato che oggi lo permette fino al nono mese come in Inghilterra e Galles e viene incentivato economicamente come in Australia. Questo parallelo spinge, e in un certo senso obbliga, la EV a parlare della società, dei suoi fondamenti e del suo corretto funzionamento. In questo senso essa dà un proprio contributo alla DSC e diventa, a suo modo, una enciclica sociale.

I paragrafi più importanti da questo punto di vista sono il numero 20 e poi quelli dal dal 69 al 73. In questi luoghi dell’enciclica le considerazioni diventano politiche, in riferimento alla società, alle leggi, al potere, con evidenti riprese esplicite ed implicite della Centesimus annus (CA). Può sembrare singolare che in questi paragrafi decisivi per il nostro discorso non si prenda le mosse da un “ordine naturale finalistico”, dal “diritto naturale” e dalla “legge naturale”. Giovanni Paolo II intendeva sfidare la modernità sul suo stesso terreno. Egli imposta le cose in termini di libertà e di diritti, nel tentativo di togliere all’avversario l’uso esclusivo e distorto di questi concetti. Per questo nel paragrafo 20 non parte dal diritto naturale ma dai diritti che, se fondati su una libertà assoluta e priva di indisponibili legami di senso, distruggono sia la libertà che se stessi e trasformano la democrazia in totalitarismo. Però il testo non si ferma qui, e lo stesso paragrafo precisa che la società non è “un insieme di individui posti uno accanto all’altro”, perché in questo caso non potrebbero esistere valori comuni, tutto sarebbe negoziabile, il relativismo regnerebbe incontrastato e la persona verrebbe assoggettata alla volontà del più forte. Se si considerano i cittadini come dei semplici “conviventi”, aveva scritto al n. 18, le nostre città ben presto diventeranno società di “esclusi”. Perché i cittadini non siano solo dei conviventi, giustapposti gli uni agli altri come un mucchio di sassi, occorre che qualcosa li preceda e fondi la convivenza in modo indisponibile come una vocazione ineludibile. Ed ecco che si torna al diritto naturale e alla legge naturale di cui l’enciclica parla negli altri paragrafi, soprattutto nel n. 70, dicendo che essa deve essere “il punto di riferimento normativo della stessa legge civile”, e nel n. 71 ove parla di “valori nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell’essere”, citando infine San Tommaso nel n. 72. Il percorso è una applicazione del “personalismo” che ha creato non pochi guai alla teologia cattolica. Partire dalla relazione e non dall’essere poteva essere fuorviante, ma la EV riesce a governare l’argomentazione, mantenendola dentro la corretta impostazione cattolica.

Vorrei sottolineare, in aggiunta a ciò, un aspetto singolare. L’enciclica EV, unitamente alla Centesimus annus, costituisce una fortissima critica teoretica alla democrazia, stabilendo una relazione non occasionale tra essa e il totalitarismo e in ciò ricollegandosi con le note invettive del magistero ottocentesco. A mio parere non è mai stata seriamente sviluppata questa radicale impostazione del problema, si è puntato di più sull’accettazione della democrazia moderna da parte della Chiesa che non su questa condanna. Se sviluppata, sarebbe potuta nascere una significativa teoria critica della democrazia liberale e, su questa scia, degli errati presupposti della teoria politica della modernità. Nella EV Giovanni Paolo II metteva le basi, e in un certo senso chiedeva, questa revisione ad ampio raggio e in profondità del rapporto non occasionale né contingente tra democrazia e totalitarismo, che però non è stata fatta. Al contrario, la Chiesa italiana oggi è appiattita su una misera venerazione ideologica per la democrazia della vuota partecipazione e per il dogmatismo della Costituzione secondo un certo dossettismo, per di più tardivo e impoverito.

Cerchiamo ora di dire qualcosa dal punto di vista della DSC: cosa dice quest’ultima alla EV? Le dice che questa lotta alle leggi sull’aborto o sulla eutanasia non è sufficiente affrontarle in modo circoscritto, ma costruendo una società cristiana. La DSC fornisce questo quadro completo e interconnesso, sostenendo che è assurdo pretendere leggi in sintonia con il diritto naturale se nella testa non solo dei parlamentari ma della grande maggioranza dei cittadini e degli stessi cattolici questo concetto non esiste nemmeno più. La EV parla di valori morali e umani “essenziali” che “scaturiscono dalla verità stessa dell’essere”, ma nella cultura di oggi le parole essenza, verità, essere sono completamente scomparse. La legge sull’aborto ha alle spalle molteplici sradicamenti dell’ordine naturale finalistico, tuttora in corso. Essi riguardano la famiglia ma anche l’economia, l’educazione e la scuola, la tecnica e la filosofia, la società e la politica e così via. Quando una società approva una legge sull’aborto vuol dire che è stata dissestata in tanti altri suoi settori vitali ed è una società morente. Per questo la risposta deve essere a vasto raggio, deve essere una ricostruzione alternativa, e per questo serve il quadro fornito dalla DSC. Quando Leone XIII affrontava le cose nuove della industrializzazione e della questione operaia, sapeva bene che esse erano conseguenza di altre cose nuove precedenti che ormai avevano prodotto tutti i loro effetti devastanti non solo nella politica ma anche nell’economia e nella società. Leone XIII non si limitò ad affrontare la questione operaia, ma ripropose nel suo ampio magistero, l’intero quadro della società cristiana. In fin dei conti è quello che dobbiamo fare anche oggi.

Permettetemi, in conclusione di tirare qualche somma. Bisogna mettere insieme, in un’unica prospettiva, lotta per la vita e DSC; la dottrina dei principi non negoziabili non è rinunciabile: anche se la gerarchia dovesse rinunciarvi, come ha fatto, noi non lo possiamo accettare; occorre agire da laici, non necessariamente in relazione con le strutture ecclesiastiche, almeno fino a quando queste non riconsidereranno la loro posizione su questi temi; occorre sviluppare il rapporto tra democrazia e totalitarismo, che non è solo accidentale; occorrere rivendicare alla fede rivelata, alla religione e alla Chiesa un proprio mandato unico ed esclusivo evitando di assimilarle ad altre agenzie culturali e sociali; bisogna riprendere e rilanciare la corretta impostazione filosofica del realismo metafisico per poter tornare a parlare di ordine naturale finalistico.


Seminario Mario Palmaro – 25 luglio 2025




Qualche domanda ai vescovi sul suicidio assistito



Tutto questo prodigarsi di Cei e Pav a favore di una legge che legittimerà la pratica suicidaria, fa nascere il dubbio che i nostri pastori non abbiano chiaro come funziona la vita dell'uomo, quale sia il fine dell'unzione sacra che hanno ricevuto e cosa siano i comandamenti di Dio.

CHIESA

Editoriali 


Luisella Scrosati, 29-07-2025

La Conferenza Episcopale Italiana – la quale, grazie a Dio, non è la Chiesa cattolica in Italia – ha deciso che il proprio ruolo, nel frangente storico attuale di discussione di depenalizzazione del suicidio assistito, sarebbe quello di contrattare con il governo per porre presunti paletti legislativi nel terreno del male, che eviterebbero derive ben più gravi. Anche la Pontificia Accademia per la Vita, nella persona del suo presidente, mons. Renzo Pegoraro, ritiene atteggiamento realistico e conforme al Vangelo, quello di opporsi al principio di legittimità del suicidio assistito, ammettendone nel contempo l’effettiva praticabilità, mediante depenalizzazione. Un ragionamento da curatori fallimentari, più che da servi di Cristo Gesù, apostoli per vocazione, prescelti per annunziare il vangelo di Dio (cf Rm 1, 1), costituiti per portare un frutto che rimanga (cf. Gv 15, 16).

1. Prima domanda: ma i nostri pastori hanno ben presente come funziona la vita dell’uomo, singolo e in società? Sono davvero seri quando pensano che abbia minimamente senso condannare un principio, mentre acconsentono ad una legge che permette di contraddire questo principio? Chi scrive, spera che si tratti semplicemente di un disorientamento causato dalla frequentazione di labirinti giuridici, fatti di leggi, articoli, commi e sentenze… Ma sta di fatto che i nostri pastori hanno perso di vista la prospettiva del mondo reale. Se vescovi, parroci, sindaci e magistrati, colpiti dalle stragi sulle strade durante i week-end, si profondessero per spiegare quanto è sbagliato, pericoloso, immorale, irresponsabile guidare ad alta velocità, magari dopo l’assunzione di alcool e stupefacenti, ma poi gli stessi garantissero che tuttavia il trasgressore non subirà alcuna conseguenza, quale risultato reale avrà l’intransigente e accorata difesa del principio? I nostri pastori credono ancora alle conseguenze del peccato originale sulla natura umana?

2. Seconda domanda: i nostri pastori hanno ben presente qual è il fine dell’unzione sacra che hanno ricevuto? Ricordano che la predicazione del Vangelo, in tutta la sua integrità, è un grave dovere che incombe su di loro? E ricordano che, se anziché dare luce e mettere sale in un mondo tenebroso e insipido, dovessero accontentarsi di dialogare sulle bollette della luce più o meno vantaggiose per il consumatore o su rischi e vantaggi del sale iodato nella dieta degli ipertesi, non starebbero adempiendo alla loro missione? Non solo, ma che andrebbero incontro ad un destino poco felice, che Nostro Signore riassume con l’essere gettati via e calpestati dagli uomini (cf. Mt 5, 13)? La sensazione – agghiacciante, ma solo una sensazione – è che nella testa dei nostri pastori, e di non pochi cristiani divenuti a loro immagine e somiglianza in virtù della “santa obbedienza”, si creda che sia proprio l’umiltà a chiederci di farci calpestare dagli uomini, a domandarci di non esagerare nel voler far risplendere la luce della verità, per non correre il rischio di mancare di carità nell’accecare i nostri fratelli, a spingerci verso una mimetizzazione che ci renda indistinguibili dal resto del mondo, quasi una sorta di perfettamente adempiuto amore al nascondimento.

3. Terza domanda: ma i nostri pastori sanno cosa sono i comandamenti di Dio? Non quali sono, ma cosa sono? Per quale ragione il Signore si è scomodato in prima persona nel dare dei comandamenti ben definiti al suo popolo e nell’esigere che fossero osservati, senza aver previsto alcuna depenalizzazione? Non è che gradualmente e impercettibilmente, nonostante la promozione di percorsi sulle “dieci parole”, hanno assimilato l’idea che i comandamenti siano delle norme estrinseche un po’ rigide e che dunque la bontà di un pastore la si ritrovi proprio nel non prenderle eccessivamente alla lettera, nell’accomodarle a misura della miseria umana e in conformità alla legge della realpolitik, consentendo eccezioni caso per caso, o almeno evitando che i trasgressori debbano incappare in penalità?

Il punto è cruciale: se i comandamenti divini sono norme estrinseche, allora è chiaro che il buon padre di famiglia le leviga, le piega, le modella a misura delle situazioni in cui vivono i propri figli. Se invece sono, come spiegava anni fa un vero pastore, il cardinale Giacomo Biffi, il “libretto di istruzioni” per dirci come far funzionare adeguatamente la nostra umanità, come evitare che si inceppi drammaticamente, allora si comprende come concessioni e depenalizzazioni non solo non hanno senso, ma diventano delle trappole devastanti che hanno una sola conseguenza: il male dell’uomo. Detto in altro modo: se il divieto di uccidere la vita innocente, propria o altrui, ha a che fare con il bene temporale ed eterno della mia persona e dell’intera comunità umana, allora si comprende che anche il solo pensiero che i pastori possano sostenere una depenalizzazione dell’omicidio/suicidio fa a pugni con il senso stesso dei comandamenti divini.

Non bisogna essere dei fenomeni per capire che l’impunità legislativa favorirà il progressivo diffondersi del fenomeno. La natura umana è un piano inclinato: togliere il freno equivale a spingere sull’acceleratore. Che i vescovi non siano consapevoli di ciò è estremamente grave; non serve a nulla promuovere il bene, difendere i principi, se poi all’atto pratico non ci sono sanzioni adeguate alla preziosità del bene che si vuole difendere. Non c’è ragione politica che tenga: i vescovi italiani e i vertici della PAV si rendono conto che non si tratta di depenalizzare il furto di un sacco di patate, ma di atti deliberatamente volti a uccidere e uccidersi? Ossia a minare il fondamento della convivenza umana, della fiducia reciproca, del senso della vita? Si rendono conto verso quale direzione si orienta la società umana, allorché le persone familiarizzeranno con la prassi che non si incorre in alcuna sanzione nel concorrere a toglier la vita ad un altro, nel tradire quell’indispensabile collante della vita comune che sta in una implicita tutela del bene della vita della persona che mi sta a fianco e della mia stessa vita? Ancora, ci si rende conto che così facendo si contribuirà a svuotare ancora più radicalmente non solo il senso del vivere, ridotto al principio della “qualità della vita”, ma anche quello del morire, riducendolo ad un cessare di una vita biologica non più “di qualità”?

In un mondo che non sa far altro che dare la morte a tutti i livelli, i vescovi italiani stanno venendo meno al loro preciso dovere di condannare il male, in tutte le sue forme astute e striscianti, di controbattere con fermezza ai poteri forti con l’unica parola che dissipa le tenebre e offre salvezza: «non ti è lecito» (Mc 6, 18). Il cincischiare con una legge che, promuovendo la depenalizzazione, favorirà atti di morte e il rafforzamento di quella cultura tanatofora che da questi atti e da questa legge sarà alimentata, è il tradimento della missione di un vero pastore. Come è il tradimento di un pastore tacere la ripercussione eterna delle nostre scelte in questa vita: chiunque uccide e concorre ad uccidere, perde la vita della grazia e si prepara un destino eterno di oscurità e tormenti. Senza alcuna depenalizzazione.






lunedì 28 luglio 2025

Suicidio sì, ma non in cliniche private. L'assurda richiesta della PAV



Il presidente della Pontificia Accademia per la Vita. mons. Pegoraro, stupisce ancora chiedendo che il suicidio assistito sia garantito dal Servizio sanitario nazionale. L'associazione "Sui tetti" e il Centro Livatino lo criticano, ma alla fine spingono anche loro per la legge.


MORTE ASSISTITA

Vita e bioetica 



Stefano Fontana, 28-07-2025

La Pontificia Accademia per la Vita (PAV), con le parole del suo nuovo Presidente da poco nominato da papa Leone XIV, mons. Renzo Pegoraro, ha dichiarato di accettare una eventuale prossima legge del Parlamento italiano che preveda l’aiuto al suicidio nei casi già stabiliti dalla Corte costituzionale. Lo ha fatto giorni fa in una intervista al quotidiano La Repubblica di cui la Bussola si è già occupata in un precedente articolo, sottolineando le contraddizioni e le gravi debolezze della posizione assunta dall’organismo della Santa Sede: la linea, purtroppo, rimane quella della presidenza Paglia e questa continuità, dopo la nomina del nuovo Papa, preoccupa non poco.

Ora dobbiamo tornare sul tema perché giovedì 24 luglio mons. Pegoraro ha concesso un’altra intervista, stavolta al quotidiano Avvenire, nella quale non solo ritorna sulle precedenti sue argomentazioni, confermandone la gravità, ma anche ne aggiunge altre che le appesantiscono ulteriormente. Intanto viene confermata la contraddizione principale, che consiste nell’opporsi al suicidio assistito ma di accettarlo poi nei casi che il Parlamento volesse prevedere sulla linea di quelli già stabiliti dalla Consulta. Egli ribadisce che il suicidio assistito è «una sconfitta per tutti, lo è per il paziente che rinuncia al suo diritto a vivere, lo è per il medico, che viene meno ai suoi principi deontologici», però conferma anche che «non è in discussione la riconferma dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio come reati», sicché si tratta di una sconfitta accettata e da gestire. Pegoraro continua a ritenere che la depenalizzazione circoscritta ad alcune situazioni non equivalga ad una approvazione legislativa di un diritto, anche se così non è.

Improprie sono anche le sue osservazioni sui comitati etici che dovrebbero, caso per caso, dare o meno il via alle pratiche di assistenza al suicidio. Cose già dette, anche queste, nella precedente intervista, ma qui ulteriormente approfondite e che confermano l’adesione al principio della depenalizzazione come riconoscimento di un diritto da soddisfare. Pegoraro propone di superare il livello degli attuali «comitati etici per la pratica clinica, che esprimono pareri non vincolanti e aiutano a comprendere e analizzare la singola situazione», come di recente accaduto nella regione Toscana, e propone «l’istituzione di commissioni medico-legali a livello regionale che valutino le condizioni richiamate dalla sentenza della Corte e le eventuali modalità di attuazione del suicidio assistito». Osserviamo: se queste commissioni svolgono un compito previsto da una legge ingiusta e inaccettabile, sono eticamente inaccettabili esse stesse. E se già fanno danni i comitati etici, come visto, oltre che in Toscana, anche in Veneto, le cose sono destinate ad aggravarsi di gran lunga se la palla passa in mano a commissioni medico-legali, che non emetteranno solo «pareri non vincolanti». Pegoraro non vuole un comitato di valutazione etica nazionale, li vuole regionali, ma il principio di sussidiarietà e di vicinanza al bisogno e al bisognoso non è applicabile nell’aiutare qualcuno a suicidarsi.

La novità principale contenuta in questa nuova intervista è però un’altra. Alla domanda se si debba mantenere la prassi del suicidio assistito prevista da una futura legge all’interno del sistema sanitario nazionale o se possa essere anche concessa a strutture sanitarie esterne ad esso, mons. Pegoraro nega risolutamente la seconda possibilità. La motivazione è sorprendente: perché queste strutture potrebbero essere «già orientate al suicidio assistito», e ad effettuarlo «al di fuori di ogni controllo», cioè oltre i famosi quattro limiti di legge. C’è allora un suicidio assistito buono e uno cattivo, se lo fa lo Stato è buono, se lo fa una clinica privata non lo è. Il rischio, per Pegoraro, è di «reintrodurre dalla finestra ciò che si è escluso dalla porta», ma con l’approvazione della legge che Pegoraro sostiene, il suicidio assistito verrà già fatto entrare, sicché è ridicolo dire di temere che esso rientri dalla finestra dopo averlo già fatto entrare dalla porta.

Questo ultimo aspetto viene toccato anche da una Dichiarazione congiunta di Ditelo sui Tetti e del Centro Studi Livatino che merita attenzione. Essa considera giusta la preoccupazione di Pegoraro che non si inneschino percorsi privati speculativi, ma non ritiene lecito che «per evitare un male si possa accedere a una ipotesi ancora peggiore». Propongono di tenere fede alla prima certezza valoriale: «se il Servizio Sanitario Nazionale venisse ribaltato nel suo scopo di curare in ogni condizione e piegato con competenze dirette per la morte di malati, ciò significherebbe dare a tutta la società un gravissimo messaggio pubblico di disvalore della vita fragile, cedendo alla “cultura dello scarto”». A supporto di ciò citano due studi scientifici [qui e qui] i quali «dimostrano come a ogni procedura sanitaria che possa direttamente disporre della vita debole, segua sempre una impennata di domande di suicidio assistito».

Due osservazioni: quanto la Dichiarazione congiunta chiama “prima certezza valoriale” riguarda le possibili conseguenze negative e non l’illiceità dell’azione in sé e può essere interpretata nel senso della morale consequenzialista. Non è, in altre parole, la prima certezza valoriale e, se assunta da sola per dire no ad una legge ingiusta, è debole. Inoltre, i due studi richiamati non parlano di procedure sanitarie ma di leggi. Queste due incertezze si riflettono sulla conclusione del Comunicato che contempla ancora alcune incertezze che possono diventare fessure: va mantenuta la struttura di illiceità anche penale dell’aiuto al suicidio, ma «con varie modalità giuridicamente possibili anche ai fini del rispetto della sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, modalità che ci auguriamo con forza che il Parlamento possa considerare». E così ci risiamo.






L'inno della Cei per il suicidio assistito



Sabato altri due interventi sul quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, a sostegno del ddl sul suicidio assistito: Marazziti (Comunità S. Egidio) che difende anche la legge sulle Dat, e sei firmatari tra cui le ex parlamentari Binetti e Santolini, sempre con i soliti argomenti (sbagliati). Così si legittima il male.


Verso la legge

Vita e bioetica



Questa legge s’ha da fare. La legge è quella sul suicidio assistito all’esame al Senato e promossa dal centrodestra. L’imperativo categorico è invece pronunciato dalla Chiesa italiana. Leggasi: Conferenza episcopale italiana. La quale, con evidente certezza ha intessuto rapporti di partnership con esponenti del governo per collaborare ad avallare la legge. Non è più moralmente riprovevole che Giuda si sia tolto la vita, ma che non fu aiutato da nessuno a farlo grazie ad una legge e contro la legge di Dio.

Per bocca del suo organo di stampa, il quotidiano Avvenire, la Cei da settimane sta perorando la causa (talvolta ce ne siamo occupati anche noi: clicca qui, qui e qui). Il 26 luglio scorso Avvenire ha sfornato due articoli a sostegno della legge. Il primo è a firma di Mario Marazziti. L’invito di Marazziti è quello di guardare alla legge 219/17 sul consenso informato, a cui da parlamentare contribuì nella stesura, per poter legiferare sul suicidio assistito in modo corretto. «È una legge di diritto mite, che non norma tutto ma offre strumenti per umanizzare il morire senza chiamare la morte», scrive il nostro. Una legge di diritto mite? Una legge che ha umanizzato il morire? Una norma che ha legittimato il suicidio e l’eutanasia nella sua forma di omicidio del consenziente sarebbe una legge di diritto mite e umana?

Al comma 5 dell’art. 1 infatti possiamo leggere: «Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare […] qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario […]. Ha, inoltre, il diritto di revocare […] il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento. […] Sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l'idratazione artificiale». Dunque se ad esempio una persona chiede, anche tramite Disposizioni anticipate di trattamento (DAT), che le venga tolta la nutrizione e l’idratazione assistita, può esigerlo e il medico deve obbedire, quindi deve ucciderla come espressamente indicato al comma 6.

Noticina a margine: vero è che il comma 6 dice anche che «il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali», ma il rifiuto di trattamenti salvavita non è contrario alla legge alla deontologia e alle buone pratiche, anzi è permesso da queste tre fonti. Seconda noticina a margine: la mite e umana legge 219 permette l’eutanasia anche su persona non consenziente, ossia su minori e maggiorenni incapaci, se è questo che hanno deciso genitori e rappresentanti legali (art. 3). Questa nostra noticina serve a rispondere a Marazziti laddove, trovando ammirevole coraggio, scrive: «Fosse stata in vigore già nel 2009 Eluana Englaro avrebbe continuato a vivere». Se ci fosse stata questa legge Eluana, persona incapace, molto probabilmente sarebbe morta prima e non dopo anni di battaglie legali.

Su questo invece Marazziti ha perfettamente ragione: se ci fosse stata la legge 219 «Piergiorgio Welby avrebbe potuto rifiutare legalmente il sostegno vitale», prova provata che anche per il collaboratore di Avvenire la legge 219 permette l’omicidio del consenziente. Ciò detto, con sprezzo del principio di non contraddizione, il Nostro così conclude: «La legge 219 umanizza il morire quanto si può».

Poi sulla legge sul suicidio assistito appunta: «La Corte ha invitato a colmare una assenza, non per introdurre il suicidio assistito, ma per dare la possibilità di non sanzionare chi assecondi, in casi molto circoscritti». Una cortina fumogena di parole nemmeno tanto fitta. Ma se non punisco Caio che ha aiutato Tizio a togliersi la vita, la legge non sta introducendo il suicidio assistito nel nostro Paese, ossia non lo sta permettendo?

Passiamo al secondo articolo di Avvenire. Si tratta di una lettera siglata da sei firmatari, tra cui le ex parlamentari Paola Binetti e Luisa Santolini, che chiede di approvare la legge sul suicidio assistito perché altrimenti verrebbe approvato il ben peggiore disegno di legge Bazoli targato PD: «Alla fine l’alternativa sarà tra la legge Bazoli e l’attuale testo base». Non solo, ma la legge della Toscana che ha legittimato l’aiuto al suicidio e le sentenze della Corte costituzionali non lasciano scampo: questa legge s’ha da fare.

Anche in questa lettera aperta emerge una certa incomprensione della lingua italiana e/o della logica di base. Infatti i sei mittenti della missiva, tra cui anche due medici e un avvocato, scrivono a proposito della proposta di legge della maggioranza: «In nessun punto di tale testo si favorisce il suicidio assistito. Anzi, è vero il contrario» e citano l’art. 1 della proposta in cui si dichiara che «La Repubblica assicura la tutela della vita di ogni persona». Ma, come già appuntavamo qualche giorno fa, «l’art. 1 dice di tutelare la vita e poi già all’art. 2 ritira questa tutela permettendo l’aiuto al suicidio».

E in merito al fatto che questo Ddl non favorisca il suicidio assistito facciamo un esempio semplice semplice. Fingiamo che domani ci fosse una legge che depenalizzasse la pedofilia. Secondo voi, questa legge favorirebbe o no la pedofilia? Se togli una sanzione ad una condotta questa condotta verrà scelta sicuramente da più persone proprio perché non finisci più in galera o non devi più pagare una sanzione pecuniaria. Non ci pare così difficile da capire. Senza poi aggiungere che in realtà questa norma legittimerebbe il suicidio assistito e non semplicemente prevederebbe la sua depenalizzazione (qui proviamo a spiegare il perché, un perché che riguardava la sentenza della Corte costituzionale, ma che si può applicare per analogia all’attuale Ddl).

Veniamo ad una sintesi di questi due articoli. La Cei sceglie il male minore. Noi invece scegliamo un santo per rispondere al cardinal Zuppi. La scelta è caduta su Sant’Agostino: «Ammesso infatti che noi possiamo commettere un peccato più leggero per impedire che un’altra persona ne commetta uno più grave, sarà lecito impedire a un altro lo stupro con un furto commesso da noi, l’incesto con un nostro stupro; e se esiste un’empietà che a noi sembri peggiore dell’incesto, si dirà che noi possiamo commettere anche l’incesto se in questo modo si otterrà che quella empietà non venga perpetrata da quell’altra persona. In questo modo, nell’ambito di ogni singolo peccato, si crederà lecito commettere furti per furti, stupri per stupri, incesti per incesti, sacrilegi per sacrilegi; crederemo lecito commettere noi i peccati anziché farli commettere agli altri» (Contra mendacium, 9, 20, corsivo nostro).



domenica 27 luglio 2025

Al centro della Sua volontà: il luogo più sicuro sulla terra


Il vescovo Joseph Strickland di Tyler, Texas, USA

Articolo scritto da mons. Joseph E. Strickland, vescovo emerito, pubblicato sul suo blog, nella traduzione curata da Sabino Paciolla.



Miei cari fratelli e sorelle in Cristo,

grazie per esservi uniti a me per un altro episodio di “A Shepherd’s Voice”.

Oggi voglio parlare al vostro cuore, non solo alla vostra mente. Voglio parlare alla stanchezza, all’incertezza, al dolore che molti provano in questi tempi. Voglio parlare al luogo dentro di voi che desidera la sicurezza, non solo quella del corpo, ma quella dell’anima.

C’è solo un posto del genere. E non si trova nelle circostanze o nel comfort. Si trova al centro della volontà di Dio.

Ancoriamo questo messaggio nella Sacra Scrittura:

“Il mondo passa con le sue concupiscenze, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (I Giovanni 2:17).

Cominciamo:

I. La volontà di Dio non è un piano, è una persona

Spesso pensiamo alla volontà di Dio come a una mappa o a un puzzle da decifrare. Ma la volontà di Dio non è un segreto da svelare, è un’unione da abbracciare. La sua volontà scaturisce da ciò che Egli è: onnisciente, amorevole, santo.

Gesù Cristo, nella sua vita terrena, ci ha dato il modello perfetto. Nel Vangelo di Giovanni, Egli dichiara:

«… Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato, affinché io compia la sua opera» (Giovanni 4:34).

E nell’agonia del giardino, quando il peso della Passione gravava su di Lui, disse:

«Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia, non siano fatta la mia volontà, ma la tua» (Luca 22, 42).

Questa è la prima verità: essere nella volontà di Dio non significa sempre essere liberi dalla sofferenza, ma essere uno con Cristo.

II. La volontà di Dio è la nostra santificazione


San Paolo scrive con penetrante chiarezza:

«Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione» (I Tessalonicesi 4, 3).

La volontà di Dio non riguarda in primo luogo la nostra carriera, i nostri beni o il nostro benessere. Riguarda la santità. Riguarda il diventare santi.

Sant’Alfonso Maria de’ Liguri insegna:

«La gloria più grande che possiamo dare a Dio è fare la sua volontà in tutto» (Sant’Alfonso Maria de’ Liguri, Uniformità con la volontà di Dio, p. 6).

Non solo in alcune cose. In tutto. Le cose piccole, invisibili, amare, gioiose: tutte possono essere atti di santa obbedienza.

III. Il luogo più sicuro sulla terra


Molti cercano la sicurezza nella politica, nelle istituzioni, nella ricchezza o nella medicina. Ma i santi sapevano meglio. San Francesco di Sales scrive:

«La volontà di Dio è la via più sana e sicura che si possa seguire» (San Francesco di Sales, Trattato dell’amore di Dio, Libro VIII, cap. 10).

Spesso diciamo: «La volontà di Dio è dura». Ma in verità è la ribellione che è dura. È il peccato che porta tormento. La volontà di Dio non è sempre facile, ma è pacifica.

San Pio da Pietrelcina una volta disse:

«La volontà di Dio è il paradiso dell’anima» (San Pio da Pietrelcina, Lettere, vol. 3, 1949).

Anche nel dolore, se sei nella volontà di Dio, sei in un paradiso nascosto.


IV. Nella volontà di Dio, tutte le cose cooperano al bene


San Paolo scrive:

«Noi sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono stati chiamati secondo il suo disegno» (Romani 8, 28).

Questo non significa che ogni evento sia buono. Significa che Dio può usare ogni evento per il nostro bene, se lo amiamo e cerchiamo la sua volontà.

Sant’Agostino diceva:

«Nulla, quindi, accade se non lo vuole l’Onnipotente: egli o permette che accada, o lo fa accadere lui stesso» (Sant’Agostino, Enchiridion sulla fede, la speranza e la carità, cap. 100).

Persino la persecuzione. Persino la perdita. Persino la morte.


V. Discernere la volontà di Dio

Potresti chiederti: «Ma come faccio a conoscere la Sua volontà?». La risposta sta nell’umiltà e nella fedeltà.

Cominciamo con la Scrittura, con gli insegnamenti della Chiesa, con la preghiera e con l’obbedienza ai nostri doveri.

San Giovanni Eudes scrive:

«La volontà di Dio dà a tutte le cose create l’esistenza, l’essere e la vita; ed è la regola e la legge di tutte le loro azioni» (San Giovanni Eudes, Il Regno di Gesù, Parte II, cap. 1).

E Nostro Signore ci dice:

«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Matteo 6, 33).

Cercate Lui, e la sua volontà vi sarà chiara.


VI. Maria: il sì che ha cambiato il mondo


Nessun essere umano si è mai abbandonato più perfettamente alla volontà di Dio della Beata Vergine Maria.

All’Annunciazione, ella disse:

«Ecco la serva del Signore: sia fatto di me secondo la tua parola» (Luca 1, 38).

Papa San Pio X ha dichiarato:

«Lei ha acconsentito all’immolazione di suo Figlio, affinché l’umanità potesse essere salvata. Così, lo ha offerto alla giustizia di Dio e, morendo con Lui nel suo cuore, è stata trafitta dalla spada del dolore» (Papa San Pio X, Ad Diem Illum Laetissimum, 2 febbraio 1904).

Maria ci insegna che arrendersi non è debolezza, ma forza. È così che Dio entra nel mondo.


VII. La croce e la volontà di Dio

La volontà di Dio ha condotto Cristo alla croce. Potrebbe condurre anche noi lì.

San Luigi Maria di Montfort avverte:

«Non siamo come quelle anime codarde che fanno di tutto per evitare la croce. La croce è la via più sicura per il Paradiso» (San Luigi Maria da Montfort, Lettera agli amici della croce, n. 15).

E Nostro Signore dice:

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua» (Luca 9, 23).

La volontà di Dio è spesso lastricata di sacrifici, ma mai senza grazia.

VIII. Parole finali: il Paradiso inizia qui

Essere nella volontà di Dio significa iniziare il Paradiso sulla terra. Significa riposare nell’ordine divino. Significa essere allineati con l’infinita saggezza del Creatore.

Santa Caterina da Siena diceva:

«Tutta la via che porta al Paradiso è Paradiso, perché Gesù ha detto: “Io sono la via”» (Santa Caterina da Siena, Lettera T368, a Fra Raimondo da Capua).


Conclusione: una preghiera di abbandono

Grazie per aver ascoltato questo episodio di «A Shepherd’s Voice».

Rimanete fedeli. Rimanete radicati. E rimanete al centro della Sua volontà, il luogo più sicuro sulla terra.

Concludiamo con una preghiera di abbandono ispirata agli scritti del beato Charles de Foucauld:

«Padre, mi abbandono nelle tue mani; fa’ di me ciò che vuoi. Qualunque cosa tu faccia, ti ringrazio: sono pronto a tutto, accetto tutto. Sia fatta solo la tua volontà in me e in tutte le tue creature –

Non desidero altro, o Signore. Nelle tue mani affido la mia anima: te la offro con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo, Signore, e ho bisogno di donarmi, di abbandonarmi nelle tue mani senza riserve e con fiducia illimitata, perché tu sei mio Padre» (Preghiera di abbandono).

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

Vescovo Joseph E. Strickland





Non si mettono più al mondo bambini. C’entrano davvero i motivi che ci dicono?



Posted By: admin 26 Luglio 2025


In Italia mancano molte nascite all’appello. Si parla di oltre 12.000 bambini in meno negli ultimi anni. La spiegazione? I soliti problemi economici: redditi bassi, il non arrivare a fine mese, la precarietà del lavoro, la disoccupazione… Ma è davvero così?

C’è un piccolo, ma importante, particolare della storia dell’arte, che riguarda la costruzione delle cattedrali medioevali. Queste non solo venivano edificate impiegando più generazioni, ma erano adornate fino all’inverosimile. Finanche le guglie più alte erano scolpite alla perfezione con decori che mai nessuno avrebbe potuto vedere, se non qualche piccione e ovviamente Dio che dall’ “alto” guarda tutto. Che centra tutto questo con la denatalità contemporanea? Un po’ di pazienza e capirete.

Un tempo le condizioni economiche erano quelle ch’erano, così i disagi, così le fatiche (per dirne una: non c’erano i pannolini usa-e-getta), così le epidemie, eppure i figli si facevano eccome. In Italia si è iniziata a riscontrare la denatalità proprio quando le condizioni economiche e sanitarie sono migliorate. Lo spartiacque è stato il boom economico degli inizi degli anni ’60. Quindi, le cause della denatalità sono altre. Precisamente una causa superficiale ed una più profonda.

La causa superficiale ci dice che il benessere, almeno che non si sia spiritualmente maturi, conduce all’egoismo, a chiudersi, a gestire sempre più “comodamente” la propria vita. Ovviamente ciò non significa che bisogna rinunciare al benessere economico tout-court, né che bisogna ambire ad antistorici e deliranti pauperismi, piuttosto che è da ricostruire il rapporto tra l’uomo e il suo esistere, e anche tra la famiglia e il suo esistere.

E qui c’è la causa profonda. Nei nostri tempi c’è stata una perversa alleanza di resa da parte di chi non doveva arrendersi. Si è arresa la cultura, proponendo un dissolutorio nichilismo. Si è arresa la Chiesa mettendo ai margini del suo Annuncio la Croce e appiattendo l’Annuncio stesso in un arido immanentismo, facendo sì che venisse meno quella maturità spirituale che sarebbe stata capace di governare e non farsi governare dal boom economico. Il risultato: un disorientamento esistenziale generale. Non si capisce più perché si vive; e quindi non si capisce nemmeno più perché ci si deve sacrificare; perché si devono mettere al mondo dei figli. Si è perso, insomma, il senso della Speranza.

Un tempo si piantavano i noci, alberi che crescono con una lentezza tediante. Lo si faceva comunque, affinché i figli o i nipoti ne potessero gustare i frutti. Oggi non si piantano più. Si piantano già grossi, con lo zollone, o si piantano i pini dell’Arizona che schizzano subito in alto. C’è, insomma, l’ansia di avere tutto e subito, perché si è inconsciamente convinti che oltre la vita non ci sia nulla.

Un tempo no. Un tempo addirittura si facevano le cose belle anche se non si potevano guardare: i decori sulle guglie delle cattedrali, come abbiamo detto prima. Ciò perché si aveva la certezza che tutto ciò che si faceva sarebbe stato riposto in Dio per poi ritrovarlo nell’eternità.

Un figlio lo ritroveremo nell’eternità? Certamente. E per questo vale ed è giusto qualsiasi sacrificio.







La transustanziazione? Una “teoria”. Parola di sacerdote (“cattolico”)




27 lug 2025

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by Aldo Maria Valli



di Investigatore Biblico

Ringrazio sentitamente un lettore che mi ha inviato il video con la relativa trascrizione della parte importante, nella quale un sacerdote, don Luciano Locatelli della diocesi di Bergamo afferma (e soprattutto-cosa più grave- insegna) che la transustanziazione sarebbe una “teoria” e che, parole sue “Gesù è vero che offre ai suoi il suo Corpo e Sangue (il suo offrirsi come dono), ma in quella cena non è che hanno mangiato il Corpo di Gesù o bevuto il suo Sangue: pane e vino, dopo le parole di Gesù restano tali..”.

Il mio amico lettore ha fatto anche la trascrizione della parte che ci interessa, che vi ripropongo. Se volete ascoltare con le vostre orecchie, il video è questo Corpus Domini 2025 – YouTube e dovete andare dal minuto 11’.25’’ in poi. A seguire il mio commento.

Le parole di don Locatelli

“L’ultima provocazione la prendo dalla cosiddetta presenza reale. L’unicità, la particolarità dell’eucaristia è quella che ha fatto scivolare un po’ questa realtà dalla simbolica alla fisica, nel senso “questo è il mio Corpo questo è il mio Sangue” sono stati intesi in senso proprio, ammettendo e annettendo piena identità tra pane-corpo e vino-sangue; quindi nel corso dei secoli questo passaggio da un’identità pane all’altra identità corpo (così come per vino e sangue) è stato compreso e proposto in varie modalità, fino alla cosiddetta teoria della transustanziazione, dove la materia pane viene trasformata nella materia Corpo di Gesù. Ora, Gesù è vero che offre ai suoi il suo Corpo e Sangue (il suo offrirsi come dono), ma in quella cena non è che hanno mangiato il Corpo di Gesù o bevuto il suo Sangue: pane e vino, dopo le parole di Gesù restano tali, ma acquistano un significato nuovo che il pane e il vino comunemente non hanno. Acquistano un significato ulteriore e questo non per qualche virtù magica, ma in funzione del memoriale: è la vita di testimonianza di chi si accosta e accoglie quel pane a rendere presente e attuale la presenza di Gesù, non in senso fisico ma in quanto testimone odel messaggio che egli ha portato del suo stile di vita. Ecco perché partecipare all’eucarestia significa accettare di partecipare a costruire il vero Corpo di Gesù che è la comunità, la Chiesa. Quando ci rechiamo a condividere il pane (la cosiddetta Comunione) il sacerdote o chi per lui ci presenta l’ostia con le parole “il Corpo di Cristo” e noi gli rispondiamo “amen”. Ora, amen può essere tradotto “così è” o “così sia“: quando dico “amen” di fronte a quel pezzo di pane che mi viene presentato, dico “è così, ci credo che questo rappresenta la portata della vita e del messaggio di Gesù”, ma dico anche “così sia”, cioè non guardo solo quel pane davanti a me, ma mi rendo cosciente di chi sta dietro a me per ricevere quel pane, per costruire con lui o con lei il Corpo di Gesù dentro la storia attuale, dentro il mondo attuale attraverso, una comunità che vive e rende presente il messaggio di Gesù dentro la storia.”

Il commento dell’Investigatore Biblico

Ho letto e ascoltato con attenzione e rispetto le parole di don Luciano Locatelli a proposito dell’Eucaristia (a cui suggerirei di leggersi questi articoli “La Presenza Vera Reale e Sostanziale di Gesù Cristo nell’Eucaristia. Studio biblico sulla “Anamnesis” : dove sbaglia la teologia protestante” di IB – Investigatore Biblico, “Teologia Eucaristica: dall’Anamnesi Biblica alla Transustanziazione tomistica” – Investigatore Biblico), e in particolare la sua riflessione sulla cosiddetta “presenza reale”. È evidente il suo desiderio di proporre una visione accessibile e coinvolgente, che sottolinei la responsabilità comunitaria del celebrare, l’impegno di vita che deriva dal partecipare alla Messa, e l’importanza di tradurre il sacramento in uno stile concreto di testimonianza cristiana. Tutto questo è nobile e condivisibile.

Tuttavia, ciò che desta preoccupazione è la chiara negazione — più o meno diretta — della realtà della transustanziazione, che viene liquidata come “una teoria” tra le altre, come se fosse un’opzione tra molte, una formulazione teologica superata o discutibile. Questo non è accettabile. La transustanziazione non è una teoria tra le tante, ma un dogma della fede cattolica, solennemente definito dal Concilio di Trento nella XIII sessione del 1551, con queste parole:
“Per la consacrazione del pane e del vino si opera una conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo nostro Signore e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo Sangue. Questa conversione la santa Chiesa cattolica ha convenientemente e appropriatamente chiamata transustanziazione.”
Il concilio prosegue dicendo che chi nega questa verità “sia anatema”, cioè si pone fuori dalla comunione con la Chiesa. Non è una proposta accademica, né una scuola interpretativa. È una verità di fede: nel momento della consacrazione, per la potenza della Parola di Cristo e l’azione dello Spirito Santo, tutta la sostanza del pane si trasforma nella sostanza del Corpo di Cristo, e tutta la sostanza del vino nella sostanza del Suo Sangue. Le specie esteriori restano — il colore, il gusto, la consistenza — ma la realtà profonda, ciò che quel pane e quel vino sono, cambia ontologicamente. Questo è ciò che la Chiesa crede e professa da secoli.

Don Luciano afferma che “pane e vino restano tali” e che “acquistano un significato ulteriore”, ma queste parole non sono compatibili con la fede della Chiesa. Egli dimentica che la formula di Gesù riportata nei Vangeli e nella Prima Lettera ai Corinzi non lascia spazio a interpretazioni puramente simboliche. Gesù non dice “questo rappresenta” o “questo evoca”, ma “questo è il mio corpo” (Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 22,19; 1Cor 11,24). Il testo greco utilizza il verbo ἐστίν (estin), che è il presente del verbo “essere” e ha valore identitario e non metaforico. Nella lingua greca del tempo, e nel contesto cultuale ebraico, quella dichiarazione non può essere intesa come un semplice segno. È un’affermazione reale, concreta, e performativa: la Parola di Gesù compie ciò che dice.

Negare questo significa porsi fuori dalla comunione con la fede cattolica. È una questione molto seria. Non si tratta di un’opinione personale che può essere messa in circolazione come un semplice spunto di riflessione, ma di una verità essenziale, da accogliere con obbedienza del cuore e della mente. Ogni sacerdote, al momento della sua ordinazione, ha promesso di custodire, insegnare e trasmettere fedelmente la dottrina della Chiesa. La transustanziazione è parte integrante di questa dottrina. Chi non crede in essa — e soprattutto chi insegna pubblicamente qualcosa di contrario — viene meno a quella fedeltà, e dovrebbe con coerenza interrogarsi se il ministero sacerdotale sia ancora per lui la strada giusta.

L’Eucaristia non è un semplice gesto simbolico, né un’occasione per ricordare insieme un messaggio di amore e fraternità. È il cuore vivo della fede della Chiesa. È la presenza reale, vera e sostanziale di Cristo tra noi. È il sacrificio di Cristo reso presente nei segni sacramentali, non come ricordo psicologico o comunitario, ma come atto di salvezza che ci raggiunge qui e ora. È la fonte da cui scaturisce tutta la vita cristiana e il vertice a cui tende ogni azione ecclesiale. Per questo, minimizzare o ridurre l’Eucaristia a “pane che assume un significato nuovo” non solo è teologicamente errato, ma pastoralmente pericoloso.

San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, ammonisce con forza: “Chi mangia e beve senza riconoscere il Corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11,29). Non dice: “chi non riconosce il significato comunitario” o “il simbolo della condivisione”, ma il Corpo del Signore. È un linguaggio forte, ma necessario, perché è in gioco la verità stessa della nostra fede.

I Padri della Chiesa, già nei primi secoli, non ebbero dubbi nel parlare di presenza reale. Sant’Ignazio di Antiochia chiama eretici coloro che “non confessano che l’Eucaristia è la carne di Cristo”. Sant’Ireneo, Tertulliano, Ambrogio, Agostino, tutti affermano che ciò che si riceve è il Corpo di Cristo, non un simbolo, ma una realtà che salva. Questa è la fede della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Non una costruzione medievale, non una formula scolastica da archiviare, ma una verità viva, sorgente di speranza e di salvezza.

Dire “Amen” davanti all’Ostia non significa semplicemente “accetto che questo ha un significato bello”. Significa: “Io credo che qui è presente il Signore, il Risorto, il Figlio di Dio vivo”. È un atto di fede profonda, e insieme una chiamata alla conversione e alla comunione con tutta la Chiesa.

Se davvero vogliamo costruire la comunità come Corpo di Cristo, dobbiamo partire da Lui, realmente presente nel sacramento. È l’Eucaristia che edifica la Chiesa, non il contrario. È Cristo che ci unisce nel Suo Corpo, non la nostra capacità di essere solidali. La carità non nasce dal simbolo, ma dalla Presenza. Una Presenza che ci precede, ci plasma e ci invia nel mondo.

Chi ha ricevuto il dono e la responsabilità di predicare deve custodire con fedeltà questa verità. Non come un peso, ma come una grazia. Perché dove c’è l’Eucaristia c’è la Chiesa. Dove c’è il Corpo di Cristo, lì c’è la vita eterna.

In tutto questo: il Vescovo di Bergamo (diocesi di don Locatelli) non ha nulla da dire? Tutt’appost’?? Ci sono preti che sono stati relegati in “sgabuzzini” per molto meno. E don Locatelli può realmente continuare a predicare pubblicamente queste cose?





sabato 26 luglio 2025

La bellezza della messa in latino attrae i giovani



L’intervista concessa da mons. Salvatore Cordileone, Arcivescovo di San Francisco, a Michael Haynes e pubblicata su Per Mariam, nella traduzione curata da Sabino Paciolla, 26 luglio 2025.



Mons. Cordileone 


Michael Haynes: Eccellenza Arcivescovo Cordileone, grazie mille per avermi concesso il suo tempo. Vorrei tornare su alcuni commenti pubblicati online nelle ultime settimane. Lei ha scritto online a sostegno di alcune osservazioni del cardinale Goh riguardo alla messa tradizionale e alle autorizzazioni per celebrarla. Ha affermato che «condivido l’idea che abolire le restrizioni sull’uso del Messale del 1962 sarebbe grandioso, terapeutico e unificante».
Mi chiedevo se potesse prima approfondire questo concetto e spiegare in che modo ritiene che sarebbe terapeutico e unificante.

Arcivescovo Salvatore Cordileone: Credo che ci siano molti cattolici che apprezzano la forma tradizionale della Messa – che frequentano entrambe le forme ma sono arricchiti dalla forma tradizionale – che non disprezzano il Concilio Vaticano II, ma apprezzano questa manifestazione della tradizione della Chiesa.

Altri sono molto devoti alla Messa tradizionale e la frequenterebbero sempre, o quasi sempre.

Inoltre, quelli che conosco, stanno cercando di vivere una buona vita cattolica, seguendo tutti gli insegnamenti della Chiesa.

Credo che dobbiamo tenerli nella famiglia, non tenerli a distanza o farli sentire cittadini di seconda classe. Penso che dobbiamo rispettare la loro sensibilità, la devozione che hanno nel cuore e tenerli all’interno della famiglia.

Ho sentito parlare di una fazione molto militante che forse rifiuta alcuni insegnamenti del Concilio Vaticano II. Penso che sia una questione molto più complicata di quanto si pensi.

Non credo che la gente capisca davvero cosa si intende quando si parla di Vaticano II o del Concilio Vaticano II. A mio modo di vedere, ci sono tre livelli.

C’è ciò che il Concilio Vaticano II ha effettivamente detto in quei 16 documenti. Si tratta di un concilio ecumenico. Certo, il Concilio ha affermato fin dall’inizio che il suo scopo non era quello di definire nulla in modo dogmatico. Tuttavia, questo fa parte del Magistero ordinario della Chiesa ed è un insegnamento che deve essere accettato.

Poi ci sono i documenti sull’attuazione del Concilio, che hanno livelli di autorità diversi dal Papa, dai Dicasteri della Curia Romana, dalle conferenze episcopali e dai vescovi nelle loro Chiese locali.

Il terzo livello è quello che è realmente accaduto sul campo, nelle parrocchie, nei banchi delle chiese. Qui ci sono molte complessità. Penso che molte persone che reagiscono contro il Concilio Vaticano II reagiscano principalmente contro ciò che è accaduto a quel terzo livello. Forse al secondo livello, anch’esso aperto alla critica, alla critica costruttiva, si sarebbero potute prendere decisioni prudenziali diverse. Quindi possiamo discuterne.

Non sono in discussione i documenti stessi e l’insegnamento contenuto in essi. Ed è certamente opportuno leggere quei documenti alla luce della costante continuità della tradizione della Chiesa precedente. Penso che pochissimi cattolici rientrino nella categoria di coloro che rifiutano il Concilio Vaticano II a quel primo livello. Penso quindi che, per cercare di mantenere tutti uniti nella famiglia nel rispetto del patrimonio della Chiesa, compreso l’insegnamento del Concilio Vaticano II, sarebbe utile avere una disponibilità più generosa della Messa tradizionale.

Michael Haynes: Certamente le restrizioni alla Messa tradizionale, o la questione della Messa tradizionale, sono state particolarmente importanti in queste ultime settimane e mesi. Penso che il suo intervento e quello del cardinale Goh siano arrivati in un momento in cui c’erano stati annunci di restrizioni piuttosto importanti in varie diocesi degli Stati Uniti. Sembra che, per quanto riguarda questa questione, si presti particolare attenzione alla limitazione della Messa tradizionale, il che sembra strano se si considerano altre questioni che potrebbero essere affrontate e, oserei dire, che devono essere affrontate.
Ha idea di cosa possa esserci dietro questa spinta così zelante ad attuare restrizioni?


Arcivescovo Cordileone: È un’ottima domanda. Posso solo parlare della mia esperienza personale, perché sono abbastanza anziano da ricordare quando tutto stava cambiando. Ho fatto la mia prima comunione nel 1964. Quindi sono appena abbastanza vecchio per ricordare com’era la Messa prima. Ho ricordi molto vividi di quando tutto stava cambiando dopo il Concilio Vaticano II. E c’era una sorta di, se posso usare questa parola, mania o frenesia. C’era una sorta di angoscia che la Chiesa fosse rimasta indietro e che dovessimo recuperare il tempo perduto, che la Chiesa stesse diventando irrilevante. Ora, ovviamente, dobbiamo sempre capire come comunicare in modo più efficace le verità del Vangelo in una cultura particolare, dato il tempo e il luogo in cui ci troviamo – questo è vero.

Ma ciò che evangelizza veramente è la bellezza del patrimonio della Chiesa. Quindi dobbiamo viverlo in modo comunicabile.

Penso che ci fosse questa sensazione che “dovevamo fare le cose in modo nuovo e che il modo vecchio stava per scomparire, che avremmo perso persone”. Penso che questa idea sia ancora presente in alcune persone. E penso che vedrebbero i giovani attaccati alla forma tradizionale della Messa come persone che vivono in una realtà diversa da quella attuale, molto diversa da quella della stragrande maggioranza dei giovani. Penso che ci sia del vero in questo, ma c’è anche del vero nella bellezza della tradizione della Chiesa. E, ancora una volta, bisogna viverla in modo tale da attrarre le persone.

Per me, il segno rivelatore è che i giovani sono attratti da questa tradizione, in entrambe le forme, ma più sono giovani, più sembrano essere attratti dalla forma tradizionale della Messa. Per me, il segno rivelatore è quando scoprono questo aspetto, poi si coinvolgono e lo approfondiscono, e arrivano anche alla verità.

Sperimentano la bellezza, poi arriva la verità. Così abbracciano la pienezza della fede cattolica. Non è solo una questione estetica – è un rito bellissimo, la musica è bellissima – ma la verità è parte integrante di tutto questo.

Questo è un segno rivelatore che [la Messa in latino] è efficace nell’evangelizzazione perché questi giovani vivono la pienezza della vita cattolica, molti di quegli insegnamenti morali che sono stati rifiutati dopo il Concilio Vaticano II.

Non abbiamo visto una vera e propria repressione di coloro che dissentivano [da questi insegnamenti morali], nemmeno dei vescovi che dissentivano da alcuni di essi. E penso che questo abbia danneggiato la Chiesa.

Quindi direi che questa è una cosa, non è l’unica che funziona per l’evangelizzazione, ma è una cosa che sembra essere efficace, specialmente tra i giovani. Quindi usiamola a vantaggio della Chiesa, per il bene del Vangelo e la salvezza delle anime.

M Haynes: Questo si ricollega a qualcosa che credo lei abbia menzionato un paio di anni fa. Mi scuso per tornare indietro di un paio d’anni: lei stava parlando con Raymond Arroyo di come il movimento tradizionale potesse essere un aiuto fondamentale per sostenere l’urgenza del rinnovamento nella Chiesa. Credo che lei lo abbia effettivamente menzionato nella sua risposta al famoso sondaggio che il Vaticano ha inviato prima di Traditionis Custodes. Credo che lei abbia suggerito alla gerarchia di vedere i frutti del movimento tradizionale come parte integrante di ciò che era necessario per promuovere questo rinnovamento, specialmente in un momento in cui assistiamo a una grande perdita di fede in molti angoli del globo e a una grande perdita della pratica della fede tra coloro che si professano cattolici ma che in realtà finiscono per rifiutare gran parte dell’insegnamento della Chiesa.
A distanza di alcuni anni, direbbe ancora che questa è la sua esperienza oggi?


Arcivescovo Cordileone: Ho usato con molta attenzione la parola “movimento” nel mio commento a quel sondaggio perché la Messa tradizionale non è tecnicamente un movimento ecclesiale come gli altri movimenti che conosciamo, giusto? Ci sono stati molti movimenti poco prima e sicuramente dopo il Concilio Vaticano II, come il Cursillo, il Marriage Encounter, il Cammino Neocatecumenale, il Movimento delle Famiglie Cristiane. Questi sono tutti movimenti all’interno della Chiesa.

La Messa tradizionale non è un movimento in questo senso, ma ha tutte le caratteristiche di un movimento. Ora, questi movimenti hanno un grande potenziale per rinnovare la vita della Chiesa, sempre che rimangano all’interno della famiglia, il che significa che l’autorità ecclesiale deve essere coinvolta.

Vedo la vita della Chiesa progredire in modo bidirezionale. Ci deve essere la base e l’esercizio dell’autorità. Non può essere tutta una cosa o tutta l’altra. Se è tutta una cosa, se è imposta dall’alto, non funzionerà perché non è uno sviluppo organico. Se è tutto dal basso senza alcun intervento dell’autorità, allora le cose finiranno per sfuggire al controllo e diventare caotiche.

Quindi le iniziative possono venire da entrambe le parti. Possiamo vedere movimenti dal basso, ma l’autorità deve intervenire per regolarli, magari correggere gli eccessi, assicurarsi che le cose rimangano all’interno della comunione della Chiesa.

L’autorità può aver proposto un’idea, ma invece di imporla inizialmente a tutti, può testarla con la base. Quindi deve esserci questo senso di sinergia in cui entrambi lavorano insieme. Quindi i movimenti, se ignorati, e ancor più se puniti, si sposteranno sempre più ai margini e poi inizieranno a sviluppare una sorta di Chiesa parallela. E questo alimenta il pensiero che “i veri cattolici sono con noi, gli altri non sono veramente cattolici”. Questo è il pericolo.

Ma se l’autorità ecclesiastica è coinvolta, è pastoralmente presente, li mantiene parte della famiglia, allora può aggiungere un enorme potenziale di rinnovamento alla Chiesa. Questo è ciò che vedo applicarsi anche alla Messa tradizionale.

Quando le persone vengono punite e allontanate perché non sono d’accordo con l’opinione di chiunque abbia autorità, questo causa divisione, giusto? E distrugge il corpo di Cristo.

Quindi noi, come autorità ecclesiastiche, come vescovi, dobbiamo correggere gli eccessi. Dobbiamo correggere gli errori. Dobbiamo dare una buona guida alle persone. Ma quando lo facciamo, sì, c’è un enorme potenziale di rinnovamento per la Chiesa.

Inoltre, l’altra osservazione che ho fatto riflettendo su questo argomento è che, da decenni, sentiamo i papi e altri alti funzionari vaticani chiedere la correzione degli abusi liturgici, giusto? Certamente, tornando a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI in particolare, anche Papa Francesco ha denunciato gli abusi liturgici. Lo stesso cardinale Roche, che è la mente dietro Traditionis Custodes, critica gli abusi liturgici. Vuole che la Messa sia celebrata con riverenza, bene e in modo bello.

Quindi tutte queste voci che provengono dai nostri leader vaticani sembrano avere poco effetto.

Il mio pensiero è: dobbiamo fare qualcosa di diverso invece di limitarci a parlarne?

Penso che una maggiore esperienza della Messa tradizionale potrebbe essere il rimedio di cui abbiamo bisogno. Se fosse una parte più regolare della vita cattolica, la gente la vedrebbe, perché quella Messa è molto rigida. Si può celebrare in modo approssimativo, ma la maggior parte delle persone sedute nei banchi non se ne accorgerebbe, perché è molto rigida, quindi è limitata.

C’è un senso intrinseco di riverenza e trascendenza in essa [la Messa tradizionale].

Quindi penso che se le persone la sperimentassero di più, otterremmo ciò che Papa Benedetto ha chiamato l’arricchimento reciproco delle due forme. Questa celebrazione più riverente della Messa nella sua forma attuale comincerebbe a prendere piede e le persone la desidererebbero.

E spero che durante le celebrazioni della Messa tradizionale, avremmo più persone che partecipano alle risposte.

Tutto questo era la partecipazione attiva, risalente a Papa San Pio X, che con Tra Le Sollecitudini del 1903 invitava alla partecipazione attiva. Mi piacerebbe vedere più di questo anche nella Messa tradizionale, soprattutto le persone che cantano le parti ordinarie della Messa in latino.

Quindi penso che con una maggiore familiarità, quando sarà una parte più regolare della vita cattolica, avremo un grande vantaggio nella celebrazione di entrambe le forme della Messa.

M Haynes: E così facendo, ci allontaneremmo anche dalla situazione attuale, che credo lei abbia commentato abbastanza, secondo cui sembra che si sia risvegliata la guerra liturgica, in particolare quando si ha una forma che sembra essere favorita e più libera e l’altra che non gode della stessa libertà ed è leggermente relegata.
Vede qualche pericolo per la Chiesa se queste restrizioni dovessero continuare nella forma attuale, in particolare nello stile piuttosto proibitivo che abbiamo visto? Soprattutto negli ultimi mesi, quando comunità fiorenti hanno finito per vedere la loro Messa tradizionale limitata o spostata o ridotta da molte chiese diverse a una sola.
C’è un pericolo, secondo lei, se questa situazione dovesse continuare a lungo termine?


Arcivescovo Cordileone: Il pericolo immediato sarebbe che le persone si allontanassero dalle comunità o si sentissero semplicemente scoraggiate e smettessero del tutto di andare in chiesa. Questo sarebbe un pericolo immediato, ma penso che non durerà perché io sono l’ultimo della generazione che ha questa mentalità del prima e del dopo il Concilio Vaticano II.

Ci è stata inculcata dalla cultura e dalla Chiesa dell’epoca. Le generazioni dopo la mia non hanno questo. Non vedo nessuno, né tra i giovani né tra le persone di mezza età, che nutra questo astio nei confronti della Messa tradizionale. Quindi penso che alla fine torneremo a un’epoca in cui accetteremo che a certe persone piaccia quella forma di Messa e lasceremo che la celebrino.

Ripeto, il pericolo è quello di essere eccessivamente restrittivi o di non coinvolgersi affatto. Abbiamo bisogno del giusto equilibrio.

M Haynes: E lei ha accennato al fatto che c’è una certa bellezza e un certo ordine che attraggono i giovani. È qualcosa che ho notato anch’io quando ne ho parlato con il cardinale Burke durante alcune interviste. Lui lo ha sottolineato quando ha viaggiato in tutto il mondo incontrando comunità di diverse età: ha sempre riscontrato che si tratta di un aspetto piuttosto costante.
Per concludere, vorrei citare qualcosa che ha scritto recentemente il vescovo Reed di Boston, perché ha fatto un’osservazione piuttosto commovente. Ha raccontato che dopo aver celebrato la sua prima Messa tradizionale, si è tolto i paramenti sacri, è andato in fondo alla navata, si è inginocchiato e ha pianto.
Ha avuto esperienze simili quando ha celebrato la Messa tradizionale, o qual è stata la parte più significativa per lei personalmente quando l’ha celebrata?


Arcivescovo Cordileone: In quella Messa mi sento di respirare i 2000 anni di storia della Chiesa, per come si è sviluppata organicamente nel corso dei secoli. Sento un forte senso di connessione con i miei predecessori nella fede.

L’ho vissuto in modo ancora più intenso quando ho celebrato in modo solenne con la vestizione e la svestizione, perché il pontefice viene vestito per andare a offrire il sacrificio. Una volta mi è venuto in mente il versetto delle Scritture, la profezia di Cristo sul martirio di Pietro, che quando eri giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio ti vestiranno e ti porteranno dove non vorrai andare. Quindi penso che il significato profondo della Messa emerga con più forza.

Mi viene in mente un esempio che mi ha fatto un mio amico sacerdote. Io sono originario di San Diego. Lui è un sacerdote di San Diego. Trascorreva molto tempo a Tijuana ed è anche un devoto della Messa tradizionale. Mi ha fatto questo paragone.

Diceva che quando va in questi nuovi quartieri di Tijuana, sono tutti molto regolari, con linee rette, case ben costruite e tutto disposto a griglia, tutte uguali, molto razionali.

Quando va nei quartieri più vecchi, vede come le cose sono cambiate nel tempo: le strade girano e poi finiscono in un vicolo cieco, vede un garage che ora è un piccolo appartamento, vede dove prima c’era la porta del garage e ora c’è la porta di un appartamento e tutti questi cambiamenti nel tempo. Ha paragonato le due forme di messa a questo.

Ci sono cose che potrebbero sembrarci peculiarità nella Messa tradizionale, ma ci sono ragioni per cui sono state adattate nel corso del tempo. Ed è per questo che dico che c’è un senso di respiro con la Chiesa attraverso i secoli e nella celebrazione di quella Messa.

M Haynes: È un modo bellissimo di vedere le cose. Come credo lei abbia già detto in altri contesti o in altri articoli, c’è [bisogno di] uno sviluppo organico, non uno sviluppo in termini di rivoluzione e rottura, ma uno sviluppo naturale, veramente liturgico.

Arcivescovo Cordileone: Ancora una volta, deve essere un senso bidirezionale, giusto? Non può essere creato dall’alto e imposto. Ci deve essere una direzione dall’alto, a volte un’iniziativa che viene dall’alto, ma deve anche nascere dall’esperienza vissuta dalla gente. Abbiamo bisogno di entrambi per qualsiasi sviluppo legittimo e vivificante nella Chiesa.

M Haynes: Eccellenza, non le rubo altro tempo, ma la ringrazio moltissimo per le sue riflessioni e anche per la sua testimonianza nella sfera pubblica. È sicuramente molto apprezzata da molti cattolici, forse a livello internazionale più di quanto lei possa immaginare.

Arcivescovo Cordileone: Beh, spero che con il mio Istituto Benedetto XVI stiamo promuovendo il Progetto Liturgia Reverente proprio per migliorare la nostra celebrazione della Messa secondo la forma attuale.

Per dare ai sacerdoti, alle parrocchie e alle altre comunità di fedeli risorse per migliorare la bellezza e la riverenza durante la Messa. Le persone possono seguire il progetto sul nostro sito web benedictinstitute.org.





Omicidio del consenziente, la Consulta dice no (almeno per ora)



La Corte costituzionale “salva” l’art. 579 del Codice penale, dichiarando inammissibili le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Firenze. Ma la motivazione dei giudici, visto quanto già deciso sul suicidio assistito, appare fragile. L’impressione è che la Consulta aspetti solo il momento propizio per depenalizzare in parte anche l’omicidio del consenziente.


La sentenza

Vita e bioetica 



L’aiuto al suicidio è parente stretto dell’omicidio del consenziente. La sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale (qui un approfondimento) ha legittimato il suicidio assistito se ricorrono alcune condizioni. Dal permettere che qualcuno aiuti qualcun altro a togliersi la vita al permettere che qualcuno uccida qualcun altro con il suo consenso, il passo sarebbe parso breve. Ma non è stato così. La Corte costituzionale con la sentenza 132/2025, depositata ieri, ha dichiarato «inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 579 del codice penale sollevate […] dal Tribunale ordinario di Firenze». Dunque l’art. 580 Cp che punisce il suicidio assistito è stato reso inoffensivo per l’intervento della Consulta, invece l’art. 579 Cp che punisce l’omicidio del consenziente non è stato ancora toccato dai giudici romani.

La vicenda giuridica è la seguente. M.S. è persona affetta da sclerosi multipla con tetraparesi spastica e con definitiva compromissione di tutti e quattro gli arti. M.S. vuole morire, ma non può darsi la morte da sé proprio perché paralizzata dal collo in giù. Potrebbe ingerire un preparato letale, ma la disfagia di cui è affetta renderebbe complicata, penosa e pericolosa questa ingestione. Allora presenta al Tribunale di Firenze un «ricorso d’urgenza avente ad oggetto la somministrazione del farmaco letale per via endovenosa da parte di un soggetto terzo, individuato nel proprio medico di fiducia, non essendo reperibile sul mercato la strumentazione necessaria all’attuazione autonoma del suicidio assistito, cioè una pompa infusionale attivabile con comando vocale ovvero tramite la bocca e gli occhi, uniche modalità consentite dallo stato attuale di progressione della malattia».

Il Tribunale, allora, solleva la seguente questione di legittimità davanti alla Corte costituzionale: l’art. 579 Cp è incostituzionale laddove non prevede la non punibilità di chi uccide una persona con il suo consenso e la cui condizione rientri nei parametri già descritti dalla Consulta nel caso dell’aiuto al suicidio «quando la stessa persona, per impossibilità fisica e per l’assenza di strumentazione idonea, non possa materialmente procedervi [a togliersi la vita] in autonomia, o quando comunque le modalità alternative di autosomministrazione disponibili non siano accettate dalla persona sulla base di una scelta motivata che non possa ritenersi irragionevole». In parole povere, il Tribunale pone questa domanda: se Tizio può essere aiutato a morire, posto che siano soddisfatti i criteri indicati dalla Consulta, perché Caio, impossibilitato materialmente a togliersi la vita, non può essere ucciso da un medico quando fossero presenti i medesimi criteri? Cosa cambia? Sarebbe discriminatorio e quindi contrario all’art. 3 della Costituzione permettere di morire tramite suicidio assistito e non permettere di morire tramite l’omicidio del consenziente quando le condizioni del paziente, in un caso come nell’altro, fossero identiche. Il Tribunale di Firenze quindi chiede alla Consulta di porre fine a questa irragionevole disparità di trattamento; oltre a ciò, sarebbe lesivo della libertà personale non poter scegliere di essere ucciso, avendo come unica opzione il suicidio assistito.

Come accennato, la Corte ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Firenze. Per quale motivo? Perché il Tribunale non si è dato abbastanza da fare per trovare questa pompa infusionale attivabile con comando vocale ovvero tramite la bocca e gli occhi oppure un altro macchinario utile allo scopo. Così la Corte: «Il giudice a quo non ha motivato in maniera né adeguata, né conclusiva, in merito alla reperibilità di un dispositivo di autosomministrazione farmacologica azionabile dal paziente. […] il Tribunale di Firenze sembra essersi arrestato al piano dell’azione di un ente locale di committenza, non andando oltre la presa d’atto delle semplici ricerche di mercato di una struttura operativa del Servizio sanitario regionale». Il Tribunale, invece, avrebbe dovuto rivolgersi al Servizio Sanitario Nazionale.

Ma può la Corte considerare costituzionalmente irrilevanti le questioni sollevate dal Tribunale solo per un mero accadimento fattuale, ossia per l’inerzia del Tribunale stesso nel soddisfare i desiderata della paziente tetraplegica? Difficile dare una risposta netta, ma ci pare che i giudici avrebbero potuto anche entrare nel merito della vicenda, argomentando così: stante la colpevole inerzia del Tribunale nell’individuare l’adeguata strumentazione per praticare il suicidio assistito in favore della paziente, riteniamo ugualmente di analizzare le questioni sollevate dal Tribunale. Insomma, il fatto di non aver trovato i macchinari adatti non era ostativo ad un giudizio nel merito. Anzi, questo fatto poteva mettere in luce pregi o difetti dell’art. 579 Cp, così com’è la stessa Corte ad ammettere: «La natura fattuale della ritenuta indisponibilità di una strumentazione idonea all’autosomministrazione del farmaco nel caso in esame, o in casi analoghi, non è di per sé ostativa all’accesso al merito delle questioni, poiché il fatto che paralizza l’esercizio di un diritto esibisce un’innegabile giuridicità, divenendo parte costitutiva di una fattispecie giuridica». Tra parentesi ma non troppo: in questo passaggio la Corte qualifica espressamente il suicidio assistito come diritto, andando dunque oltre la depenalizzazione del reato di aiuto al suicidio.

Riteniamo che i giudici della Corte erano ben consci che il comportamento omissivo del Tribunale di Firenze non pregiudicava un’analisi delle questioni di legittimità e lo crediamo perché la motivazione di fondo per cui hanno rigettato le richieste del Tribunale suona troppo fragile: «L’incompletezza dei riferimenti circa l’esistenza di idonei dispositivi di autosomministrazione […] rende perplessa la descrizione della fattispecie, il che ridonda in un difetto di motivazione sulla rilevanza della questione». Di contro noi domandiamo: il fatto descritto non è oscuro e dunque perché non andare ad indagare la legittimità dei principi sottesi?

L’impressione che se ne ricava è dunque la seguente: i giudici non volevano spingersi a decidere se l’omicidio del consenziente potesse o non potesse essere permesso. Se si fossero pronunciati sull’intoccabilità dell’art. 579 Cp, riproducendo in sostanza le motivazioni addotte nel 2022 quando rigettarono il referendum per abrogare questo articolo, tutti avrebbero gridato all’incoerenza: permettete l’aiuto al suicidio, ma non l’omicidio del consenziente. Se invece si fossero pronunciati per la sua depenalizzazione avrebbero rischiato di fare il passo più lungo della gamba: forse a loro giudizio la sensibilità odierna non è ancora pronta per accettare l’idea che qualcuno possa uccidere qualcun altro, anche se consenziente. Dunque, strategicamente e prudentemente si sono arrestati prima, prima di entrare nel merito.

Però, è solo questione di tempo. Infatti l’omicidio del consenziente è già legittimato dalla legge 219/2017 laddove permette l’interruzione di presidi vitali quali alimentazione, idratazione e ventilazione assistita. La morte in questi casi è provocata dal medico che stacca i mezzi di sostentamento vitale. Trattasi di omicidio del consenziente. Ciò è confermato dall’art. 1 comma 6 laddove si specifica che il medico in questi casi non può subire nessuna conseguenza penale per i suoi atti omicidi. Dunque, se c’è già una legge che legittima l’omicidio del consenziente è prevedibile che la Consulta, più prima che poi, dichiarerà parzialmente incostituzionale il reato ex art. 579 Cp.





La solitudine dei preti al tempo della sinodalità




26 lug 2025


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by Aldo Maria Valli




di padre Santiago Martín

Molti anni fa, quando ero ancora seminarista, sentii un sacerdote pronunciare un’espressione che allora non capii del tutto, ma che poi ho constatato essere piena di significato. «Quando Nostro Signore tornerà alla fine dei tempi – diceva quel sacerdote – non ci troverà uniti, ma sicuramente ci troverà riuniti».

Non credo che nessun laico possa immaginare il numero di riunioni a cui deve partecipare un sacerdote, molte delle quali sono pesantissime, estenuanti e inutili. Non solo ti rubano il tempo che dovresti dedicare alla preghiera, alla formazione e all’evangelizzazione, ma ti lasciano un senso di stanchezza che ti porta a chiederti se è per questo che sei diventato prete: per andare da una riunione all’altra?

Molti laici sanno cosa sono le riunioni dei condomini. Beh, moltiplicatele per dieci e non solo una volta al mese, ma quasi ogni giorno!

Ho ricordato le parole di quel bravo prete quando questa settimana ho letto il programma di attuazione della sinodalità. Forse mi sbaglio, ma la prima impressione che ho avuto è che comporterà riunioni, tempo e anche denaro, perché tutto questo ha un costo. Insomma: burocrazia. E tutto questo per cosa? Se è per ottenere che nella Chiesa ci sia più dialogo e che tutti, tutti, tutti siano ascoltati, l’obiettivo mi sembra ottimo, ma sono sicuro che tale traguardo si possa raggiungere in modo più semplice. Teniamo conto che nella maggior parte delle parrocchie del mondo funzionano già i consigli pastorali e i consigli economici, dove l’ascolto è efficace e produttivo. Ma se si tratta di utilizzare questi estenuanti processi di ascolto per modificare la morale cattolica e per far sì che la Chiesa passi dall’essere una casa dove tutti sono accolti a una sorta di gabbia di grilli dove tutto è lecito, allora non servono tante riunioni, basta dirlo una volta per tutte e la facciamo finita. D’ora in poi, dovrebbero dire, il parroco sarà un impiegato parrocchiale, agli ordini di uno o più laici – soprattutto donne – che saranno i veri padroni delle parrocchie. D’ora in poi, dovrebbero aggiungere, in nome dell’accoglienza di tutti, tutte e tutti, le donne potranno accedere al sacerdozio, all’episcopato e al papato. Da ora in poi, e con questo potrebbero concludere, si potrà ricevere la comunione senza tener conto se si è in grazia di Dio o se, soggettivamente, ciascuno pensa che ciò che fa non è sbagliato e che il Dio misericordioso gli permette di fare ciò che gli dice il corpo. Se questo è l’obiettivo, che lo dicano una volta per tutte e ci risparmiamo l’infinito numero di riunioni che ci aspettano, perché ad alcuni sembra che ascoltare il popolo di Dio in un’assemblea mondiale già convocata per il 2028 sia una sorta di Concilio Vaticano III, dove i vescovi saranno una minoranza e tutti potranno votare, al fine di approvare tutto ciò che ho detto prima.

Nel documento pubblicato dalla Segreteria del Sinodo si dice che bisogna cercare di integrare nel processo sinodale coloro che finora si sono sentiti distanti dal cammino già percorso. Spero che mi sia permesso di esprimere la mia critica a tante riunioni estenuanti senza essere mandato in un gulag in Siberia. Qualcuno deve avere il coraggio di dire basta e che bisogna pensare ai preti. Guareschi, l’autore di quei libri geniali in cui il prete don Camillo picchiava e veniva picchiato dal sindaco comunista Peppone – e i due si volevano molto bene e non potevano fare a meno l’uno dell’altro – scriveva che, secondo lui, il Concilio Vaticano II era stato un Concilio in cui i preti erano stati messi da parte e tutto il potere era passato nelle mani dei vescovi. Ora sembra che tutto il potere, o almeno gran parte di esso, passerà nelle mani dei laici. Rotto il legame tra il munus di governo e il sacramento dell’ordine sacerdotale, non solo il prete diventerà un impiegato delle signore che comandano nelle parrocchie, ma lo stesso accadrà ai vescovi, anche se teoricamente si dice che avranno l’ultima parola. L’avranno quando ci sarà un accanimento mediatico contro di loro, perché si dirà che i loro numerosi consigli deliberativi hanno approvato una cosa che loro non hanno accettato, come sta succedendo in Germania contro i pochissimi vescovi che resistono difendendo la vera fede cattolica.

Qualche giorno fa in Italia si è suicidato un giovane sacerdote, molto stimato dai suoi parrocchiani, contro il quale non c’erano accuse di alcun tipo. Si sono sentite molte parole di cordoglio e molte domande sul fatto che i sacerdoti sono soli e sopraffatti, non solo dal lavoro pastorale, ma anche da una burocrazia infinita, senza che ai loro vescovi importi. Ebbene, la soluzione sembra essere quella di aumentare la burocrazia e lasciare i sacerdoti ancora più esausti e soli. Quando un bene scarseggia, il suo prezzo sale. Nella Chiesa, quando i sacerdoti scarseggiano, sembra che non si tratti di prendersi cura di loro, ma di emarginarli e di render loro la vita ancora più difficile. Se la sinodalità è ascolto e accoglienza, non c’è alcun problema. D’altra parte è già praticata da molto tempo. Se la sinodalità è un percorso tortuoso e faticoso per emarginare i sacerdoti e modificare la morale cattolica, ciò che otterranno è quello scisma che papa Leone dice di voler evitare e, con esso, la distruzione della Chiesa di Cristo.

Bisogna ringraziare il papa, tra l’altro, per aver scritto una bellissima lettera di congratulazioni al cardinale Burke nel suo cinquantesimo anniversario di sacerdozio. Burke, un uomo che è stato così osteggiato che in alcune diocesi gli è stato proibito di tenere conferenze, ora è lodato dal papa in persona. Dio voglia che questa rondine annunci la primavera e che non continuiamo a soffrire il rigido inverno.

Preghiamo per il papa.