
Pubblichiamo il testo della conferenza tenuta a Bergamo al VII Seminario Mario Palmaro dedicato ai 30 anni dell’enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II, a cura del Comitato Verità e Vita.
Di Stefano Fontana, 29 lug 2025
In questa relazione mi propongo di considerare il rapporto tra l’enciclica Evangelium vitae (EV) e la Dottrina sociale della Chiesa (DSC). Le due si richiamano a vicenda, si implicano, e la loro relazione risulta fondamentale sia per l’una che per l’altra. L’impegno e la lotta per una cultura della vita sono destinati a indebolirsi se non radicati nel più vasto impegno per la costruzione di una società cristiana, che rimane, in fondo, lo scopo della DSC. Dal canto suo, quest’ultima mancherebbe di un elemento fondante la propria identità se la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale si indebolisse o venisse dimenticata. Quando si riscontra, in certi periodi come il nostro, che la Chiesa e i cattolici sono meno attenti a difendere la vita umana si noterà anche che essi hanno perso di vista l’idea stessa di DSC, e viceversa. Ciò accade per l’intero “mondo cattolico”, non solo per i singoli fedeli o per le loro associazioni ma anche per il clero, i vescovi e gli ecclesiastici che occupano posizioni di vertice.
Nella Chiesa italiana il presidente dei vescovi, il cardinale Zuppi, ha più volte affermato che la legge 194 sull’aborto procurato è una buona legge, dissuadendo quanti si sentono impegnati nella società e nella politica ad abolirla. La tesi ufficiale proposta dai vertici ecclesiastici è che difettosa non sia la legge ma la sua insufficiente applicazione: bisogna applicarla bene e fino in fondo, ma non combatterla, anzi difenderla. La settimana scorsa abbiamo assistito ad un dibattito interno al mondo cattolico sul suicidio assistito. Anche in questo caso ecclesiastici che occupano posizioni di vertice nella Santa Sede hanno aperto al dialogo e alla possibilità di trovare dei punti di compromesso tra le diverse posizioni, anche se il tema non permette nessun dialogo né alcun compromesso perché definito nei suoi contorni morali e di fede da precedenti atti irreformabili del magistero, tra cui anche la EV. Veniamo da un lungo periodo in cui sulla politica per la vita i Pastori rinunciano al loro dovere magisteriale e dottrinale e si limitato ad invitare al dialogo, in vista di una concordia sociale che però, se non è fondata sulla verità, diventa impossibile. I vescovi italiani appoggiano nuove forme di aggregazione di laici ed amministratori nate dalla Settimana sociale di Trieste del luglio 2024, nonostante i loro programmi tacciano completamente sul tema della difesa della vita e della famiglia. Partecipare e lavorare insieme a tutti è ritenuta questione primaria e fondamentale, mentre i fini e i contenuti passano in secondo piano. Quando qualcuno di questi dovesse sembrare “divisivo”, dovrebbe essere messo da parte.
Gli esempi potrebbero continuare, ma interessa qui soprattutto notare che, in parallelo con questo indebolimento e con questa confusione sia dottrinale che pratica sulla difesa della vita, si è dovuto notare anche una considerevole trascuratezza della DSC. Nel periodo che abbiamo alle spalle essa è stata intesa come un intervento umanisticheggiante a fianco di tutti gli altri uomini senza distinzione, secondo i principi di una fratellanza universale fondata sull’essere tutti sulla stessa barca dell’esistenza. Ma la DSC non è un atteggiamento bensì un contenuto, non è una postura esistenziale, è un modo di essere della Chiesa. La DSC è un “corpus dottrinale” ordinato e organico, costituito non da esortazioni pastorali ma da principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive d’azione fondati nella Tradizione della Chiesa, ed avente per soggetto la Chiesa stessa nella sua interezza e articolazione e nella sua missione evangelizzatrice. Questa era la visione della DSC di Giovanni Paolo II, dalla quale oggi la Chiesa è molto lontana. Soprattutto un aspetto centrale è stato messo da parte, ossia che la fede cattolica, nella sua capacità di illuminare la ragione senza sostituirvisi, sia in grado di dare un contributo unico e decisivo alla società degli uomini. Non uno dei tanti contributi, ma un contributo unico e decisivo, ossia non solo utile ma indispensabile. C’è qualcosa che solo la Chiesa può fare, in virtù della propria essenza e missione. Con la parola “mondo” la DSC ha sempre inteso l’ordine naturale finalistico della società umana, capace di sé ma non completamente perché gravato dal peccato, bisognoso di salvezza anche al suo stesso livello. Oggi per “mondo” si intende invece la storia dell’umanità con la Chiesa che sta dentro di essa, assieme e alla pari di tutti gli altri attori. Lo aveva anticipato Leone XIII che nella Immortale Dei aveva previsto che la Chiesa sarebbe stata equiparata a qualsiasi altra agenzia sociale e il suo riconoscimento sociale, ma non pubblico, sarebbe dipeso dallo Stato. Prima con la parola mondo si intendeva un ordine da costruire, ora si intende un processo da accompagnare. Alla metafisica è stata sostituita l’ermeneutica e alla dottrina la prassi. L’assunzione di questo cambiamento da parte della Chiesa ha comportato la revisione della DSC, che a sua volta ha impedito al tema della difesa della vita di venire affrontato dentro un suo contesto adeguato. Sia l’impegno per la vita che quello per la DSC, insieme, sono come evaporati.
Vorrei qui accennare a due novità che conseguono a quanto finora visto. La prima è che si dà ormai una prevalenza al “come” piuttosto che al “cosa”, alla pastorale più che alla dottrina, alla relazione più che al contenuto. Nessuna parrocchia oggi organizzerebbe un incontro pubblico di condanna dell’aborto, perché provocherebbe divisione, ossia avrebbe effetti negativi sul “come” si vive la fede. In questo modo viene impedito il “popolo della vita” di cui parla la EV. Lo stesso accade per la DSC: non ho notizia di un suo insegnamento sistematico in qualche diocesi. Ancora una volta, come si vede, la difesa della vita e la DSC risentono delle medesime difficoltà. Oggi solo soggetti periferici e non istituzionalizzati ecclesiasticamente possono portare avanti delle battaglie per la vita e per la DSC correttamente intesa. Quando questi soggetti – penso al Comitato Verità e Vita e al nostro Osservatorio, ad esempio – dovessero collegarsi istituzionalmente con la struttura ecclesiale avrebbero vita grama e breve. Come è successo, ricorderemo, per Scienza e Vita dopo la normalizzazione della CEI. La lotta per la vita e la promozione della DSC oggi si fanno pressoché clandestinamente e sulla propria responsabilità di laici, senza copertura ecclesiastica alle spalle.
L’altra novità riguarda la modalità del coinvolgimento della Chiesa. La EV, soprattutto nel capitolo IV, elenca ed illustra gli ambiti della costruzione di una “cultura della vita” e i compiti di ogni singola componente della comunità ecclesiale perché “è un atto profondamente ecclesiale, che chiama in causa tutti i diversi operai del Vangelo, ciascuno secondo i propri carismi e il proprio ministero”. La EV è anche un Direttorio di pastorale della vita. Questa impostazione era tipica di Giovanni Paolo II che egli adoperava sia per la difesa della vita che per l’intera DSC. Dalle madri ai vescovi, dai nonni agli intellettuali, dal volontariato ai politici, dai sacerdoti agli operatori sanitari: tutti i soggetti, debitamente elencati, avevano un compito da svolgere dentro una finalità unica. Oggi non è più così: i compiti specifici non sono definiti e chiariti ma sono mescolati come se la Chiesa non avesse un ordine interno e come se tutti fossero chiamati a fare tutto. È evidente la confusione che ne risulta, essendo carente sia l’ordine oggettivo dei contenuti da trattare sia l’ordine interno al soggetto Chiesa. Non sono più chiari i fini nei loro diversi livelli di contenuto e non è più chiaro chi deve fare cosa.
La EV parlava ancora di “castità” coniugale, oggi si accettano e talvolta si consigliano le convivenze. I vescovi parlano di tutto, tranne che di quanto dovrebbero parlare. Molto spesso tacciono su quanto dovrebbero invece dire. I laici, dal canto loro, si dividono quasi su tutto, anche sul suicidio assistito. Non ci si deve allora stupire se la questione della lotta all’aborto diventa qualcosa di facoltativo e, al massimo, di estemporaneo. La Chiesa, nelle sue strutture educative – laddove ancora esistono – non educa più al rispetto della vita, se non in modo generico ed evanescente, in modo che non faccia male a nessuno. Oltre che qualcosa di facoltativo ed estemporaneo, l’attenzione al tema della vita è mescolato dentro tante altre questioni ritenute egualmente importanti, o forse di più.
Oggi non si riesce più a distinguere sul piano assiologico la politica abortista e la politica delle immigrazioni o della lotta alla povertà. L’unica cosa che la Chiesa insegna a questo proposito è che bisogna tenerle davanti entrambe per non cadere nell’errore di considerare l’una di destra e l’altra di sinistra. Ma questo et-et non è cattolico, perché privo di un ordine di importanza. L’”ecologia umana” gerarchizzava perché si fondava su un ordine finalistico e l’aborto era considerato un male intrinseco da combattere in ogni caso, mentre l’immigrazione deve essere governata e lo può essere in molti modi non essendo un male intrinseco. L’”ecologia integrale”, fino ad oggi di moda, fa invece di ogni erba un fascio e le “comunità energetiche” acquistano il primo piano, mentre il “popolo della vita” viene visto con sospetto.
La scomparsa della dottrina dei principi non negoziabili pone con grande evidenza in collegamento tra loro le difficoltà di un impegno cattolico per la difesa della vita contro l’aborto e le difficoltà di diffondere e promuovere la DSC. La dottrina dei principi non negoziabili stabiliva un ordine ad un doppio livello. Il primo livello era quello di questi principi rispetto ai valori da difendere nella società, sicché diventava facile capire le priorità. Il secondo livello era interno ai principi non negoziabili stessi, dove il diritto alla vita, sempre citato per primo, assumeva un significato fondativo anche degli altri.
Finora ci siamo soffermati su questa relazione tra la EV e la DSC: l’una ha bisogno dell’altra, se si indebolisce l’una nascono difficoltà anche per condurre avanti l’altra, attualmente questa è proprio la situazione reale. Per questo chi lotta per la vita e per la DSC deve farlo ai margini, in modo pressoché clandestino e, quando non osteggiamo, solo tollerato. Questo comune destino negativo è forse la principale conferma della relazione che stiamo sostenendo.
Tornando ora a temi più specifici, è lecito chiedersi cosa dia la EV alla DSC e viceversa. Al n. 101 della EV si legge che “Il Vangelo della vita è per la comunità degli uomini. Agire a favore della vita è contribuire al rinnovamento delle società mediante l’edificazione del bene comune”. Con questo fine, la EV non solo rimanda indirettamente alla DSC ma in alcuni suoi paragrafi ne richiama organicamente i principi. Sappiamo che lo spunto che ha motivato il magistero a redigere questo documento è stato proprio la volontà di affrontare il tema della difesa della vita non solo sul piano della morale personale ma soprattutto in quello della morale sociale e politica. La EV non è un testo di bioetica, ma di teologia morale sociale, categoria in cui rientra, come chiarito dal magistero stesso, anche la DSC. La cosa risulta evidente dal rapporto stabilito all’inizio del testo tra i poveri dei tempi di Leone XIII, gli operai, e i più poveri tra i poveri di oggi di cui intende occuparsi l’enciclica: gli esseri umani concepiti e poi abortiti in ossequio ad una legge dello Stato che oggi lo permette fino al nono mese come in Inghilterra e Galles e viene incentivato economicamente come in Australia. Questo parallelo spinge, e in un certo senso obbliga, la EV a parlare della società, dei suoi fondamenti e del suo corretto funzionamento. In questo senso essa dà un proprio contributo alla DSC e diventa, a suo modo, una enciclica sociale.
I paragrafi più importanti da questo punto di vista sono il numero 20 e poi quelli dal dal 69 al 73. In questi luoghi dell’enciclica le considerazioni diventano politiche, in riferimento alla società, alle leggi, al potere, con evidenti riprese esplicite ed implicite della Centesimus annus (CA). Può sembrare singolare che in questi paragrafi decisivi per il nostro discorso non si prenda le mosse da un “ordine naturale finalistico”, dal “diritto naturale” e dalla “legge naturale”. Giovanni Paolo II intendeva sfidare la modernità sul suo stesso terreno. Egli imposta le cose in termini di libertà e di diritti, nel tentativo di togliere all’avversario l’uso esclusivo e distorto di questi concetti. Per questo nel paragrafo 20 non parte dal diritto naturale ma dai diritti che, se fondati su una libertà assoluta e priva di indisponibili legami di senso, distruggono sia la libertà che se stessi e trasformano la democrazia in totalitarismo. Però il testo non si ferma qui, e lo stesso paragrafo precisa che la società non è “un insieme di individui posti uno accanto all’altro”, perché in questo caso non potrebbero esistere valori comuni, tutto sarebbe negoziabile, il relativismo regnerebbe incontrastato e la persona verrebbe assoggettata alla volontà del più forte. Se si considerano i cittadini come dei semplici “conviventi”, aveva scritto al n. 18, le nostre città ben presto diventeranno società di “esclusi”. Perché i cittadini non siano solo dei conviventi, giustapposti gli uni agli altri come un mucchio di sassi, occorre che qualcosa li preceda e fondi la convivenza in modo indisponibile come una vocazione ineludibile. Ed ecco che si torna al diritto naturale e alla legge naturale di cui l’enciclica parla negli altri paragrafi, soprattutto nel n. 70, dicendo che essa deve essere “il punto di riferimento normativo della stessa legge civile”, e nel n. 71 ove parla di “valori nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell’essere”, citando infine San Tommaso nel n. 72. Il percorso è una applicazione del “personalismo” che ha creato non pochi guai alla teologia cattolica. Partire dalla relazione e non dall’essere poteva essere fuorviante, ma la EV riesce a governare l’argomentazione, mantenendola dentro la corretta impostazione cattolica.
Vorrei sottolineare, in aggiunta a ciò, un aspetto singolare. L’enciclica EV, unitamente alla Centesimus annus, costituisce una fortissima critica teoretica alla democrazia, stabilendo una relazione non occasionale tra essa e il totalitarismo e in ciò ricollegandosi con le note invettive del magistero ottocentesco. A mio parere non è mai stata seriamente sviluppata questa radicale impostazione del problema, si è puntato di più sull’accettazione della democrazia moderna da parte della Chiesa che non su questa condanna. Se sviluppata, sarebbe potuta nascere una significativa teoria critica della democrazia liberale e, su questa scia, degli errati presupposti della teoria politica della modernità. Nella EV Giovanni Paolo II metteva le basi, e in un certo senso chiedeva, questa revisione ad ampio raggio e in profondità del rapporto non occasionale né contingente tra democrazia e totalitarismo, che però non è stata fatta. Al contrario, la Chiesa italiana oggi è appiattita su una misera venerazione ideologica per la democrazia della vuota partecipazione e per il dogmatismo della Costituzione secondo un certo dossettismo, per di più tardivo e impoverito.
Cerchiamo ora di dire qualcosa dal punto di vista della DSC: cosa dice quest’ultima alla EV? Le dice che questa lotta alle leggi sull’aborto o sulla eutanasia non è sufficiente affrontarle in modo circoscritto, ma costruendo una società cristiana. La DSC fornisce questo quadro completo e interconnesso, sostenendo che è assurdo pretendere leggi in sintonia con il diritto naturale se nella testa non solo dei parlamentari ma della grande maggioranza dei cittadini e degli stessi cattolici questo concetto non esiste nemmeno più. La EV parla di valori morali e umani “essenziali” che “scaturiscono dalla verità stessa dell’essere”, ma nella cultura di oggi le parole essenza, verità, essere sono completamente scomparse. La legge sull’aborto ha alle spalle molteplici sradicamenti dell’ordine naturale finalistico, tuttora in corso. Essi riguardano la famiglia ma anche l’economia, l’educazione e la scuola, la tecnica e la filosofia, la società e la politica e così via. Quando una società approva una legge sull’aborto vuol dire che è stata dissestata in tanti altri suoi settori vitali ed è una società morente. Per questo la risposta deve essere a vasto raggio, deve essere una ricostruzione alternativa, e per questo serve il quadro fornito dalla DSC. Quando Leone XIII affrontava le cose nuove della industrializzazione e della questione operaia, sapeva bene che esse erano conseguenza di altre cose nuove precedenti che ormai avevano prodotto tutti i loro effetti devastanti non solo nella politica ma anche nell’economia e nella società. Leone XIII non si limitò ad affrontare la questione operaia, ma ripropose nel suo ampio magistero, l’intero quadro della società cristiana. In fin dei conti è quello che dobbiamo fare anche oggi.
Permettetemi, in conclusione di tirare qualche somma. Bisogna mettere insieme, in un’unica prospettiva, lotta per la vita e DSC; la dottrina dei principi non negoziabili non è rinunciabile: anche se la gerarchia dovesse rinunciarvi, come ha fatto, noi non lo possiamo accettare; occorre agire da laici, non necessariamente in relazione con le strutture ecclesiastiche, almeno fino a quando queste non riconsidereranno la loro posizione su questi temi; occorre sviluppare il rapporto tra democrazia e totalitarismo, che non è solo accidentale; occorrere rivendicare alla fede rivelata, alla religione e alla Chiesa un proprio mandato unico ed esclusivo evitando di assimilarle ad altre agenzie culturali e sociali; bisogna riprendere e rilanciare la corretta impostazione filosofica del realismo metafisico per poter tornare a parlare di ordine naturale finalistico.
Seminario Mario Palmaro – 25 luglio 2025
Finora ci siamo soffermati su questa relazione tra la EV e la DSC: l’una ha bisogno dell’altra, se si indebolisce l’una nascono difficoltà anche per condurre avanti l’altra, attualmente questa è proprio la situazione reale. Per questo chi lotta per la vita e per la DSC deve farlo ai margini, in modo pressoché clandestino e, quando non osteggiamo, solo tollerato. Questo comune destino negativo è forse la principale conferma della relazione che stiamo sostenendo.
Tornando ora a temi più specifici, è lecito chiedersi cosa dia la EV alla DSC e viceversa. Al n. 101 della EV si legge che “Il Vangelo della vita è per la comunità degli uomini. Agire a favore della vita è contribuire al rinnovamento delle società mediante l’edificazione del bene comune”. Con questo fine, la EV non solo rimanda indirettamente alla DSC ma in alcuni suoi paragrafi ne richiama organicamente i principi. Sappiamo che lo spunto che ha motivato il magistero a redigere questo documento è stato proprio la volontà di affrontare il tema della difesa della vita non solo sul piano della morale personale ma soprattutto in quello della morale sociale e politica. La EV non è un testo di bioetica, ma di teologia morale sociale, categoria in cui rientra, come chiarito dal magistero stesso, anche la DSC. La cosa risulta evidente dal rapporto stabilito all’inizio del testo tra i poveri dei tempi di Leone XIII, gli operai, e i più poveri tra i poveri di oggi di cui intende occuparsi l’enciclica: gli esseri umani concepiti e poi abortiti in ossequio ad una legge dello Stato che oggi lo permette fino al nono mese come in Inghilterra e Galles e viene incentivato economicamente come in Australia. Questo parallelo spinge, e in un certo senso obbliga, la EV a parlare della società, dei suoi fondamenti e del suo corretto funzionamento. In questo senso essa dà un proprio contributo alla DSC e diventa, a suo modo, una enciclica sociale.
I paragrafi più importanti da questo punto di vista sono il numero 20 e poi quelli dal dal 69 al 73. In questi luoghi dell’enciclica le considerazioni diventano politiche, in riferimento alla società, alle leggi, al potere, con evidenti riprese esplicite ed implicite della Centesimus annus (CA). Può sembrare singolare che in questi paragrafi decisivi per il nostro discorso non si prenda le mosse da un “ordine naturale finalistico”, dal “diritto naturale” e dalla “legge naturale”. Giovanni Paolo II intendeva sfidare la modernità sul suo stesso terreno. Egli imposta le cose in termini di libertà e di diritti, nel tentativo di togliere all’avversario l’uso esclusivo e distorto di questi concetti. Per questo nel paragrafo 20 non parte dal diritto naturale ma dai diritti che, se fondati su una libertà assoluta e priva di indisponibili legami di senso, distruggono sia la libertà che se stessi e trasformano la democrazia in totalitarismo. Però il testo non si ferma qui, e lo stesso paragrafo precisa che la società non è “un insieme di individui posti uno accanto all’altro”, perché in questo caso non potrebbero esistere valori comuni, tutto sarebbe negoziabile, il relativismo regnerebbe incontrastato e la persona verrebbe assoggettata alla volontà del più forte. Se si considerano i cittadini come dei semplici “conviventi”, aveva scritto al n. 18, le nostre città ben presto diventeranno società di “esclusi”. Perché i cittadini non siano solo dei conviventi, giustapposti gli uni agli altri come un mucchio di sassi, occorre che qualcosa li preceda e fondi la convivenza in modo indisponibile come una vocazione ineludibile. Ed ecco che si torna al diritto naturale e alla legge naturale di cui l’enciclica parla negli altri paragrafi, soprattutto nel n. 70, dicendo che essa deve essere “il punto di riferimento normativo della stessa legge civile”, e nel n. 71 ove parla di “valori nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell’essere”, citando infine San Tommaso nel n. 72. Il percorso è una applicazione del “personalismo” che ha creato non pochi guai alla teologia cattolica. Partire dalla relazione e non dall’essere poteva essere fuorviante, ma la EV riesce a governare l’argomentazione, mantenendola dentro la corretta impostazione cattolica.
Vorrei sottolineare, in aggiunta a ciò, un aspetto singolare. L’enciclica EV, unitamente alla Centesimus annus, costituisce una fortissima critica teoretica alla democrazia, stabilendo una relazione non occasionale tra essa e il totalitarismo e in ciò ricollegandosi con le note invettive del magistero ottocentesco. A mio parere non è mai stata seriamente sviluppata questa radicale impostazione del problema, si è puntato di più sull’accettazione della democrazia moderna da parte della Chiesa che non su questa condanna. Se sviluppata, sarebbe potuta nascere una significativa teoria critica della democrazia liberale e, su questa scia, degli errati presupposti della teoria politica della modernità. Nella EV Giovanni Paolo II metteva le basi, e in un certo senso chiedeva, questa revisione ad ampio raggio e in profondità del rapporto non occasionale né contingente tra democrazia e totalitarismo, che però non è stata fatta. Al contrario, la Chiesa italiana oggi è appiattita su una misera venerazione ideologica per la democrazia della vuota partecipazione e per il dogmatismo della Costituzione secondo un certo dossettismo, per di più tardivo e impoverito.
Cerchiamo ora di dire qualcosa dal punto di vista della DSC: cosa dice quest’ultima alla EV? Le dice che questa lotta alle leggi sull’aborto o sulla eutanasia non è sufficiente affrontarle in modo circoscritto, ma costruendo una società cristiana. La DSC fornisce questo quadro completo e interconnesso, sostenendo che è assurdo pretendere leggi in sintonia con il diritto naturale se nella testa non solo dei parlamentari ma della grande maggioranza dei cittadini e degli stessi cattolici questo concetto non esiste nemmeno più. La EV parla di valori morali e umani “essenziali” che “scaturiscono dalla verità stessa dell’essere”, ma nella cultura di oggi le parole essenza, verità, essere sono completamente scomparse. La legge sull’aborto ha alle spalle molteplici sradicamenti dell’ordine naturale finalistico, tuttora in corso. Essi riguardano la famiglia ma anche l’economia, l’educazione e la scuola, la tecnica e la filosofia, la società e la politica e così via. Quando una società approva una legge sull’aborto vuol dire che è stata dissestata in tanti altri suoi settori vitali ed è una società morente. Per questo la risposta deve essere a vasto raggio, deve essere una ricostruzione alternativa, e per questo serve il quadro fornito dalla DSC. Quando Leone XIII affrontava le cose nuove della industrializzazione e della questione operaia, sapeva bene che esse erano conseguenza di altre cose nuove precedenti che ormai avevano prodotto tutti i loro effetti devastanti non solo nella politica ma anche nell’economia e nella società. Leone XIII non si limitò ad affrontare la questione operaia, ma ripropose nel suo ampio magistero, l’intero quadro della società cristiana. In fin dei conti è quello che dobbiamo fare anche oggi.
Permettetemi, in conclusione di tirare qualche somma. Bisogna mettere insieme, in un’unica prospettiva, lotta per la vita e DSC; la dottrina dei principi non negoziabili non è rinunciabile: anche se la gerarchia dovesse rinunciarvi, come ha fatto, noi non lo possiamo accettare; occorre agire da laici, non necessariamente in relazione con le strutture ecclesiastiche, almeno fino a quando queste non riconsidereranno la loro posizione su questi temi; occorre sviluppare il rapporto tra democrazia e totalitarismo, che non è solo accidentale; occorrere rivendicare alla fede rivelata, alla religione e alla Chiesa un proprio mandato unico ed esclusivo evitando di assimilarle ad altre agenzie culturali e sociali; bisogna riprendere e rilanciare la corretta impostazione filosofica del realismo metafisico per poter tornare a parlare di ordine naturale finalistico.
Seminario Mario Palmaro – 25 luglio 2025