
Natività di Giovanni Battista, le Levatrici. Di Artemisia Gentileschi –
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Di Marco Nardone, 11 set 2025
C’è, nel dibattito in atto tra cattolici sul suicidio assistito, un aspetto, giustamente segnalato da alcuni interventi, che mi ha colpito in modo particolare, perché lo ritengo dirimente per orientarsi circa la ragionevolezza delle varie posizioni. Questo aspetto riguarda, diciamo, il valore che la norma esprime ed è ben evidenziato in una osservazione, di solito trascurata, contenuta al. n. 73 della Evangelium Vitae.
Il n. 73 della Evangelium Vitae è spesso citato da coloro che fiancheggiano il DdL A.S. n. 1408 in quanto, pur stabilendo il divieto assoluto di appoggiare attivamente qualsiasi iniziativa legislativa sull’eutanasia[1], prevede anche dei casi in cui è lecito agire per conseguire obiettivi più limitati. In realtà tali casi, come è stato precisato da diversi Autori, non intendono affatto giustificare la logica del male minore, sempre condannata dalla dottrina cattolica. Né sono configurabili nell’ambito del principio del duplice effetto, che si dà solo in presenza di una scelta, comunque buona, che può produrre anche effetti indesiderati.
Ma non intendo tornare su questi argomenti, già trattati da altri meglio di quanto potrei fare io. Vorrei qui soffermarmi, come dicevo, su un’osservazione contenuta nella Evangelium Vitae al n. 73, osservazione trascurata ma tutt’altro che incidentale nel testo.
Per giustificare il divieto di appoggiare attivamente qualsiasi iniziativa legislativa sull’eutanasia, l’enciclica fa riferimento a un episodio dell’Antico Testamento, che racconta del rifiuto, da parte delle levatrici ebree, di obbedire al comando del faraone, il quale aveva ordinato di far morire ogni neonato maschio (ES 1,17). Le levatrici disobbedirono al Faraone, ed occorre notare – osserva il Papa – il motivo profondo di questo loro comportamento: «Le levatrici temettero Dio» (ivi). È proprio dall’obbedienza a Dio — al quale solo si deve quel timore che è riconoscimento della sua assoluta sovranità — che nascono la forza e il coraggio di resistere alle leggi ingiuste degli uomini […], nella certezza che «in questo sta la costanza e la fede dei santi» (Ap 13,10).
Il testo, da un lato, riprende esattamente l’insegnamento classico del Magistero, per il quale una legge vincola in coscienza solo se è conforme alla legge naturale voluta da Dio – perciò, in caso di contrasto, “bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” (At. 5, 29)[2]. Dall’altro, è singolarmente vicino all’esortazione rivolta di recente da Leone XIV ai politici cattolici, di vivere la loro responsabilità in coscienza “sotto lo sguardo di Dio”, uniti a Cristo e testimoniandolo. Solo da questa posizione, infatti, può venire il coraggio di resistere alle “colonizzazioni ideologiche” e di dire “«no, non posso!», quando è in gioco la verità”[3].
La forza e il coraggio di dire “no” quando è in gioco la verità possono nascere solo dal timore di Dio. Cioè dalla convinzione che la legge non va obbedita in quanto (e finché) comanda, ma per il valore che comanda. Se una legge è intrinsecamente giusta (nel nostro caso, quella dell’indisponibilità della vita umana innocente) va obbedita. Ma se si dice di obbedirla, però solo in subordine al risultato pratico “visibile” che ci si propone, allora, come dice efficacemente un grande educatore del nostro tempo[4], non si rispetta veramente la legge, anche se si proclama il contrario, ma si obbedisce a se stessi. E allora la legge la si interpreta, piegandola alle proprie esigenze. Ma così non si testimonia, si strumentalizza. Anche nella vita sociale e politica la testimonianza, l’onestà, è data da ciò cui realmente partecipi, da ciò a cui appartieni. E il rispetto della legge giusta è data dal fatto che tu – come le levatrici del racconto biblico – appartieni a Dio.
Questa obbedienza a Dio testimonia, dice l’enciclica, il “riconoscimento della sua assoluta sovranità”, e perciò vale, e porterà misteriosamente frutto, anche se fosse una obbedienza che non produce risultati pratici immediati. Forse il motivo ultimo per cui non si riesce più a dire di no – e basta! –ad una legge ingiusta è perché, in realtà, non siamo più convinti che esista una sovranità di Dio su questo mondo, anche sociale, fondata sulla Creazione. E che quindi esista una giustizia in sé diversa dal nostro giudizio di convenienza. Una giustizia gradita a quel Dio le cui vie e i cui pensieri sono diversi dai nostri e dal quale solo, dice sempre l’enciclica al n. 73, può venire “la forza e il coraggio di chi è disposto anche ad andare in prigione o ad essere ucciso di spada”.
Ma questa disposizione non sembra più una virtù desiderabile, almeno in ambito politico, a tanti cattolici del nostro tempo. I quali, di fronte a “certe società occidentali in cui Cristo e la sua Chiesa sono emarginati, spesso ignorati, a volte ridicolizzati”[5], non intendono più – e lo dicono – combattere, ma neanche testimoniare. Vien da pensare, e lo faccio interrogando innanzitutto me stesso, se il motivo non sia, appunto, il venir meno di quella forza e quel coraggio che possono derivare soltanto dall’appartenenza a Dio in Cristo, fondata sul Suo riconoscimento – professato nel Credo – di Fonte e Signore dell’essere.
Un’ultima considerazione. Se si rimuove dalla coscienza questa appartenenza, magari convincendosi che è opportuno abbandonare l’idea antiquata del Dio Creatore e Signore per abbracciarne un’altra, più compatibile con gli ideali della modernità, sembra inevitabile una conclusione. Il sostegno al DdL A.S. n. 1408 non si configurerebbe in realtà, come si dice, quale deroga, in nome del “minor danno”, al principio di ordine naturale della indisponibilità della vita umana innocente. Esso conseguirebbe, invece, dall’assunzione implicita del principio ateistico dell’autodeterminazione assoluta del soggetto, che a parole si vorrebbe negare. Principio che diventa, così, prevalente sul diritto alla vita – sia pure a certe condizioni, stabilite di volta in volta dal potere.
Principio ateistico, dico, benché cattolicamente recepito sulla base, come si dice, di un’idea più moderna di Dio. Un Dio però che non genera appartenenza. Sembra difficile, infatti, che un Dio ridotto a un’idea da cambiare a seconda della sensibilità del proprio tempo possa essere oggetto di appartenenza. Non si appartiene ad una propria idea. Piuttosto, è questa idea che diventa proprietà, disponibile, del soggetto.
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[1] “Nel caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l’aborto o l’eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, «né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto»” (Evangelium Vitae, n. 73)
[2] Cfr. in part. Leone XIII, enc. Diuturnum illud; Immortale Dei.
[3] Vale la pena riportare il passo per intero. “Allora, monsignor Blanchet mi ha chiesto qualche consiglio da darvi. Il primo — e il solo — che vi darei è di unirvi sempre più a Gesù, di viverne e di testimoniarlo. Non c’è separazione nella personalità di un personaggio pubblico: non c’è da una parte l’uomo politico e dall’altra il cristiano. Ma c’è l’uomo politico che, sotto lo sguardo di Dio e della sua coscienza, vive cristianamente i propri impegni e le proprie responsabilità! Siete dunque chiamati a rafforzarvi nella fede, ad approfondire la dottrina — in particolare la dottrina sociale — che Gesù ha insegnato al mondo, e a metterla in pratica nell’esercizio delle vostre funzioni e nella stesura delle leggi. I suoi fondamenti sono sostanzialmente in sintonia con la natura umana, la legge naturale che tutti possono riconoscere, anche i non cristiani, persino i non credenti. Non bisogna quindi temere di proporla e di difenderla con convinzione: è una dottrina di salvezza che mira al bene di ogni essere umano, all’edificazione di società pacifiche, armoniose, prospere e riconciliate. Sono ben consapevole che l’impegno apertamente cristiano di un responsabile pubblico non è facile, in particolare in certe società occidentali in cui Cristo e la sua Chiesa sono emarginati, spesso ignorati, a volte ridicolizzati. Non ignoro neppure le pressioni, le direttive di partito, le «colonizzazioni ideologiche» — per riprendere una felice espressione di Papa Francesco —, a cui gli uomini politici sono sottoposti. Devono avere coraggio: il coraggio di dire a volte «no, non posso!», quando è in gioco la verità. Anche qui, solo l’unione con Gesù — Gesù crocifisso! — vi darà questo coraggio di soffrire in suo nome. Lo ha detto ai suoi discepoli: «Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!» (Gv 16, 33)”. (Discorso del Santo Padre Leone XIV alla delegazione di rappresentanti politici e personalità civili della Val de Marne, nella diocesi di Créteil, in Francia – Sala del Concistoro, Giovedì, 28 agosto 2025; https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/speeches/2025/august/documents/20250828-politici-francia.html)
[4] Cfr. Luigi Giussani, L’incontro che accende la speranza, LEV, Città del Vaticano, 2015, p. 91.
[5] Leone XIV, Discorso alla delegazione della diocesi di Créteil, cit.
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