lunedì 1 settembre 2025

L’essere come fondamento non imposto di politica e diritto







di Daniele Trabucco, 1 settembre 2025

Ogni autentica riflessione intorno al politico e al diritto deve, anzitutto, disporsi a una preliminare purificazione dello sguardo: se, infatti, si muove dal presupposto che politica e diritto siano creazioni dell’uomo, frutto di pura decisione, espressione di una volontà contingente o, peggio ancora, semplice effetto della forza o del numero, allora la riflessione si arresta su un piano inautentico, dove nulla è veramente fondato e tutto si riduce a flusso e a mutamento. Solo quando la ragione, liberata dal peso della contingenza e della pura utilità, si volge contemplativamente verso ciò che è, riconoscendo l’essere come principio anteriore e superiore a ogni scelta, essa può scorgere che politica e diritto non sono invenzioni, bensì partecipazioni. L’essere non è prodotto da alcuna volontà, non è il risultato di alcun patto, non è il frutto di alcun consenso, ma ciò che sussiste per necessità intrinseca, ciò che è e non può non essere: ogni ordine, pertanto, se vuole essere autentico, deve attingere qui la sua radice, altrimenti si riduce a pura parvenza, a maschera che nasconde il vuoto.

Se, allora, la politica non si radica nell’essere, essa si degrada in rappresentazione. Apparirà come potere, ma non governerà nulla; si mostrerà come autorità, ma non avrà alcuna autorità; si presenterà come custodia del bene comune, ma sarà solo gioco di parti, teatro di maschere, movimento di pupazzi che recitano un copione senza fondamento e che cambiano continuamente palcoscenico (ieri il Meeting di Rimini, oggi il Senato, domani la Camera, dopodomani Bruxelles etc.). Politica autentica è, invece, solo quella che si lascia misurare dall’essere, riconoscendo di non poter costruire nulla di solido se non a partire da ciò che è. Non si tratta di imporre dall’esterno un principio: si tratta, viceversa, di riconoscere ciò che già si dà, ciò che precede ogni atto della volontà. La politica, dunque, non istituisce l’ordine, lo accoglie; non inventa la giustizia, la contempla; non crea il potere, ma ne custodisce la misura originaria.

Lo stesso vale per il diritto. Se esso non si radica nell’essere e lo scopre (si veda il “Minosse” di Platone), se non traduce ed ordina nella dimensione normativa l’ordine già inscritto nella realtà, la legge perde la sua essenza. Una legge che non dice la verità non è legge, ma soltanto comando, imposizione arbitraria, violenza travestita da norma. Una legge autentica, invece, non è un atto della volontà che pretende di vincolare: è una rivelazione di ciò che è: essa non nasce dall’invenzione, ma dalla scoperta e vincola non perché imposta, ma perché vera. La verità, infatti, vincola più di qualsiasi forza, perché si impone da sé, senza necessità di essere imposta. Laddove il diritto si riduce a decisione arbitraria, cessa di essere misura comune e diventa strumento di dominio; laddove si radica nell’essere, diventa partecipazione condivisa all’ordine che precede ogni individuo.

Il fondamento dell’essere, proprio perché non prodotto dalla volontà, è universale e valido per tutti. Non ha bisogno di essere imposto, perché si manifesta come verità accessibile alla ragione libera. Non grava dall’esterno come un peso estraneo, ma si dona a chi sappia contemplarlo. L’essere non costringe, ma persuade; non opprime, ma illumina; non schiaccia, ma fonda. È principio che obbliga senza violenza, perché la violenza è propria solo di ciò che deve imporsi, mentre ciò che è non ha bisogno di forzare: la sua sola presenza si rivela come misura. Così, la politica che si fonda sull’essere non è dominio, bensì custodia; il diritto che si radica nell’essere non è imposizione, bensì rivelazione.

Dove, invece, l’essere viene obliato, la politica si degrada a pura tecnica amministrativa o a gioco di rappresentanza: gli uomini che vi partecipano diventano attori di un teatro vuoto, recitano ruoli che non hanno consistenza, sono pupazzi mossi da fili invisibili, tutti privi di vera autorità. Allo stesso modo, il diritto diventa semplice strumento di comando: la legge non misura più, ma comanda; non orienta, ma costringe; non rivela, ma nasconde. Così l’ordine si dissolve in una sequenza di decisioni mutevoli, la giustizia si riduce a calcolo, il bene comune si disgrega in interessi particolari.

Ora, il ritorno all’essere non è una regressione, dal momento che è l’unico movimento che consente alla comunità di non cadere nel nulla. Perché là dove la ragione si apre contemplativamente all’essere, essa riconosce che la politica non è invenzione, ma partecipazione; che la legge non è imposizione, ma scoperta; che il potere non è forza, ma servizio della verità. È in questo riconoscimento che il politico e il diritto riacquistano la loro dignità. Essi sono espressioni della giustizia e rivelazioni di ciò che è.

In questa luce si comprende che la comunità stessa non può fondarsi né sul consenso mutevole, né sull’interesse contingente, ma solo sull’essere che tutti precede e a tutti si offre. L’essere è, dunque, il solo fondamento autentico, universale, non imposto: perché è ciò che si impone da sé, vincolando nella libertà, obbligando nella verità, fondando senza costringere. Qui politica e diritto si uniscono come due forme complementari della stessa realtà: l’una orientata al bene comune, l’altra manifestazione della giustizia; entrambe opposte a ogni arbitrio, a ogni simulacro, a ogni imposizione.





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