Draghi al Meeting di Rimini 2025 (screenshot)
Di Daniele Trabucco, 3 settembre 2025
La categoria di “evento”, che ha costituito il cardine teoretico dell’esperienza di Comunione e Liberazione e, conseguentemente, del Meeting di Rimini, porta in sé una intrinseca ambiguità. Finché Mons. Don Luigi Giussani ne fu guida viva e presente, essa rimase in qualche modo ancorata a una fedeltà alla Tradizione: l’”evento” era inteso sì come accadere nella storia, ma in un quadro metodologico che ancora riconosceva il primato dell’oggettività della verità rivelata e della continuità dogmatica. L’esperienza cristiana giussaniana, pur con i suoi limiti terminologici, non cadeva in una deriva relativista: l’evento non era puro fenomeno, bensì segno sacramentale, epifania dell’Incarnazione che rinviava a un contenuto veritativo superiore.
Tuttavia, una volta venuta meno la sua figura, quel fragile equilibrio si è spezzato. Il metodo è stato separato dalla sua radice. La categoria di evento si è saldata a quella di esperienza, producendo una riduzione tipicamente neomodernista: il cristianesimo come accadere soggettivo, come vissuto esistenziale, come incontro che “muove” la persona, ma senza più il riferimento forte al dogma, alla Tradizione, alla verità ontologica e immutabile.
L’esperienza, se non ancorata all’oggettività della verità rivelata, scivola in un empirismo religioso che riconduce la fede a fenomeno psicologico, a vitalismo comunitario, a emozione condivisa.
È esattamente lo schema delineato da san Pio X nella “Pascendi” del 1907: la fede come sentimento intimo, come esperienza del divino che si dà nell’evento e che si rigenera di volta in volta nella comunità.
In tale passaggio, il Meeting di Rimini ha mostrato la sua metamorfosi. Mentre con Giussani il cristianesimo rimaneva esperienza di un evento ancorato all’oggettività del Logos, successivamente l’evento si è fatto narrazione culturale e l’esperienza si è trasformata in vissuto fenomenologico da condividere. Il legame con la Tradizione si è dissolto in una ermeneutica dell’incontro che non giudica più, ma semplicemente accoglie. Si è assistito così a un transito dall’ontologia all’ermeneutica, dal dogma alla prassi, dalla verità al dialogo.
Le radici filosofiche di questo esito vanno cercate da un lato nel pensiero di Heidegger, che ha dissolto l’essere nell’accadere dell’esserci e, dall’altro, nella teologia di Rahner, per la quale l’esperienza trascendentale del divino è sempre già presente nell’autocoscienza umana. Da queste matrici deriva l’idea di un cristianesimo come “evento-epifania” che accade nella coscienza e si rinnova nell’esperienza, piuttosto che come verità eterna comunicata una volta per tutte nella Rivelazione e custodita nel dogma.
Il Meeting di Rimini, col tempo, non ha fatto che dispiegare le conseguenze di questa impostazione. Da luogo in cui si tentava di mostrare la ragionevolezza della fede, esso si è trasformato in piattaforma culturale dove il cristianesimo è posto accanto ad altre visioni senza criteri di verità, come se fosse una opzione dialogica tra le altre. L’evento è diventato spettacolo, l’esperienza è divenuta emozione comunitaria, il dogma è stato sostituito da narrazione, la verità dal consenso.
In definitiva, il Meeting appare oggi come un paradigma del neomodernismo: un cristianesimo ridotto a esperienza dell’evento, a vissuto fenomenologico senza fondamento ontologico, a religione culturale incapace di affermare la propria unicità salvifica.
Finché vi fu Giussani, la tensione alla Tradizione frenava la deriva; ma venuto meno quel riferimento personale, la struttura concettuale dell’ “evento-esperienza” ha dispiegato tutta la sua forza dissolutiva. Da strumento di testimonianza, il Meeting si è trasformato in laboratorio di contaminazione culturale, mostrando con chiarezza come un cristianesimo privato del suo fondamento dogmatico e metafisico non possa che collassare in un umanesimo vago, privo di verità e, quindi, incapace di salvare.

Nessun commento:
Posta un commento