mercoledì 11 giugno 2025

Il Canone Romano si pensava dovesse scomparire. Invece...






Di John Grondelski, 11 giugno 2025

Molto inchiostro è stato versato sulla Messa tradizionale in latino (TLM) e sulla possibilità che Traditionis Custodes possa essere modificata sotto Papa Leone XIV. Pur non essendo necessariamente un sostenitore della TLM – anche se ritengo che il Novus Ordo dovrebbe essere modificato per adottare una posizione ad orientem – vorrei condividere alcune curiosità di storia liturgica riguardanti il Canone Romano che hanno un’analogia con la questione della TLM.

Se tornate a leggere coloro che scrivevano di “riforma liturgica” all’epoca e subito dopo il Concilio, avreste creduto che, ai nostri giorni, il Canone Romano sarebbe scomparso da tempo. Tuttavia, se visitate una serie casuale di parrocchie cattoliche qualsiasi domenica mattina, troverete la Preghiera Eucaristica (PE) I (il Canone Romano) viva e vegeta, persino fiorente.

Gli “esperti liturgici” degli anni ’60 consideravano il Canone Romano come il simbolo di tutto ciò che non andava nella liturgia. Era ripetitivo. Era disarticolato. Era “troppo romano” e “troppo latino”. La sua struttura era ‘incoerente’. La sua traduzione avrebbe mostrato la sua incomprensibilità alla mente moderna in una lingua vernacolare, soprattutto senza i vantaggi della traduzione “dinamicamente equivalente”. Ecco perché il Canone millenario dovette essere sostituito da uno (III) redatto da un vincenziano italiano e abbreviato da uno (II) presumibilmente rispolverato dall’antichità. I Bugnini di tutto il mondo erano persino aperti alla costante invenzione di nuove preghiere eucaristiche, che sembravano essere un’industria artigianale in… avete indovinato, l’Europa germanica.

E, per un certo periodo, è stato così. Papa Paolo VI ha occasionalmente tenuto a freno i Bugnini di tutto il mondo mettendo fine alle nuove preghiere eucaristiche. Anche l’improvvisazione canonica avrebbe dovuto scomparire, anche se in questo caso la situazione è più complessa. I cattolici si sono abituati a una routine in cui la Preghiera Eucaristica IV era in gran parte emarginata (la sua prefazione fissa ne limitava comunque l’uso). Negli anni ’70 e ’80, le preghiere eucaristiche II e III dominavano la domenica. All’inizio, la PE II guadagnò popolarità perché era veloce: per tutti coloro che interpretavano “esigenza pastorale” come “facciamola finita in fretta”, la PE II e orde di ministri eucaristici potevano celebrare la messa domenicale in, diciamo, 40 minuti.

Questo è anche il motivo per cui la PE IV non ha mai “preso piede”: la sua formalità poteva renderla più appropriata per i momenti liturgici più importanti come Natale e Pasqua, ma la sua prefazione fissa la escludeva. D’altra parte, quando era utilizzabile nel tempo ordinario, si voleva davvero “prolungare” la Messa a metà luglio? Con il tempo, tuttavia, il rinnovato senso che la Messa non dovesse essere affrettata ha portato a un maggiore utilizzo della PE III la domenica.

E, nel frattempo, l’PE I stava tornando in auge.

È tornata in auge inizialmente perché la sua teologia è chiaramente sacrificale. Ha servito da prezioso contrappeso all’informalismo eucaristico, persino all’irriverenza, che è stata promossa in alcuni ambienti post-conciliari dai sostenitori dell’«Eucaristia come pasto». Non si possono ascoltare le parole del Canone Romano senza porsi alcune domande su tale enfasi, specialmente quando è esagerata.

Sebbene fosse iniziato prima, negli anni ’90 e oltre i cattolici cominciarono anche a chiedersi quali parti del loro patrimonio cultuale e devozionale fossero state loro private a causa dell’opera di vandalismo liturgico. Tali interrogativi crebbero quando la gente cominciò a confrontare ciò che il Concilio Vaticano II aveva effettivamente scritto con ciò che era stato fatto presumibilmente in suo nome. L’interesse per la TLM aumentò, insieme ad un approccio più amichevole da parte dei papi San Giovanni Paolo II e, in particolare, Benedetto XVI.

Ma parallelamente, anche il clero più giovane, che non necessariamente desiderava la TLM, ha riconsiderato il Canone Romano, precedentemente denigrato, e ne ha scoperto la ricchezza. Ha cominciato a essere recitato sempre più spesso, specialmente la domenica.

Secondo i principali esponenti della riforma liturgica degli anni ’60, ciò non sarebbe dovuto accadere. Il Canone Romano avrebbe dovuto rimanere a lungo in disuso. In realtà, stava vivendo una rinascita.

Accanto a coloro che mettevano in discussione la dissonanza tra ciò che diceva il Concilio Vaticano II e ciò che veniva fatto nel suo “spirito”, si cominciò anche a confrontare i libri liturgici postconciliari e a scoprire che l’edizione tipica era stata deformata nella lingua vernacolare inglese dai traduttori della “equivalenza funzionale”. L’insoddisfazione per la sostituzione del linguaggio sacro con l’equivalente religioso di “Guarda Dick e corri! Corri! Corri! Corri!“ portò alla riforma della Commissione Internazionale per l’Inglese nella Liturgia (ICEL) e alla sistematica ritraduzione dei libri liturgici in volgare. In quello spirito, la presunta ”goffaggine” sintattica ed espressiva del Canone Romano divenne improvvisamente… meno goffa.

Racconto questa storia delle vicissitudini del Canone Romano perché dovrebbe essere utile per le nostre controversie attuali. Non ho alcun dubbio che, se non fosse stato incluso nell’edizione tipica del Novus Ordo, il Canone Romano sarebbe stato condannato all’oblio dai “riformatori” liturgici degli anni ’60. E, ad essere onesti, senza la resistenza di Papa Paolo VI e di alcuni vescovi che non si sono mai sentiti a proprio agio nel modificare la Preghiera Eucaristica, non ci sarebbe stato forse un tentativo di eliminare il Canone Romano?

Non è una questione di “positivismo liturgico”: va bene perché l’abbiamo mantenuto. È una lezione su come una lettura matura del Concilio Vaticano II, a sessant’anni dalla sua chiusura, saprà navigare tra lo Scilla della «fedeltà al Concilio che significa acquiescenza incondizionata a tutto ciò che è stato fatto in suo nome» e il Cariddi del «possiamo riportare indietro l’orologio liturgico agli anni ‘50 e, con un po’ di fortuna, farlo passare come parte della riforma conciliare!».

Per quelli di noi che sono in pace con il Novus Ordo—consapevoli dei suoi problemi—e che accettano il Concilio Vaticano II come una riforma necessaria opera dello Spirito Santo, ciò che è accaduto al Canone Romano (rispetto a ciò che ci si aspettava) dovrebbe essere una lezione esemplare su come possiamo andare avanti in un momento in cui il Concilio stesso non è più, per la maggior parte dei cattolici, compreso il papa, un’esperienza personale, ma solo una parte della storia.



(L’articolo che il prof. John M. Grondelski ha inviato al blog dagli Stati Uniti è apparso in precedenza su Crisis magazine. La traduzione è a cura di Sabino Paciolla)




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