di Daniele Trabucco, 16-12-2025
Un testo classico, almeno così cerco di insegnare ai miei studenti, non è ciò che appartiene al passato, bensì ciò che, essendo stato detto una volta, continua a dire. Esso non persiste per inerzia, né sopravvive per prestigio: permane perché tocca un livello della realtà in cui la successione non consuma l’essenziale. L’opera contingente si esaurisce nel circuito che l’ha prodotta; il classico attraversa i tempi come una forma che non si lascia ridurre a occasione. La sua “attualità” non è cronologica, è ontologica: non coincide con l’oggi, coincide con ciò che rende intelligibile ogni oggi.
La modernità, nell’intonazione dominante, scambia, invece, la novità per misura del vero. Il “dopo” viene assunto come criterio implicito, quasi che la semplice posteriorità garantisse un incremento di realtà. Da qui nasce una metafisica tacita: la realtà come materiale disponibile, il senso come prodotto, il vero come esito. L’esistenza viene, allora, pensata secondo la figura dell’officina: si fabbricano narrazioni (si pensi al ruolo della “stampa in serie”), si assemblano identità, si sostituiscono fini, si aggiornano valori con la stessa rapidità con cui si sostituisce un dispositivo. Il primato scivola dall’essere al fare, e il fare, sciolto da misura, diventa potenza senza orientamento. In un mondo così impostato, la libertà viene facilmente ridotta a reversibilità: poter sempre cambiare, raramente compiersi.
Il classico interrompe questa deriva perché custodisce una tesi che non si impone per autorità, ma per evidenza: il reale non è un semplice correlato della produzione umana. Qui l’opposizione tra essere e costruito va intesa con precisione. “Costruire” significa porre una forma su qualcosa: combinare, ordinare, istituire. Ogni costruzione, per quanto raffinata, presuppone tre elementi che non sono prodotti dalla costruzione stessa: un agente che operi, un sostrato su cui operare, un ordine di regolarità senza il quale l’operazione non avrebbe senso né esito. Se questi elementi non fossero già dati, il costruire non potrebbe neppure iniziare. Il costruito, dunque, non è primo: è secondario, derivato, dipendente.
Tale dipendenza si manifesta nella possibilità dell’insuccesso: una costruzione può fallire, rivelarsi incoerente, impraticabile, falsa rispetto a ciò che pretende. Il fallimento non è un’opinione: è l’urto della forma posta contro la consistenza di ciò su cui è posta. E anche il linguaggio vive di un oltre: può essere vero o falso soltanto perché mira a ciò che non coincide con il dire. Se tutto fosse costruzione, non esisterebbe criterio per dire che una costruzione è errata e la verità collasserebbe in pura regola interna. La priorità dell’essere appare, dunque, come condizione: è ciò che rende possibile la costruzione e ciò che la giudica.
Da qui segue una conseguenza decisiva per l’uomo. Se il reale precede, la libertà non è un vuoto in cui l’io si inventa senza residui, ma una potenza che trova la propria intelligibilità nel compimento. Ogni potenza è ordinata a un atto e ogni atto è realizzazione di una forma. Quando la libertà viene intesa come pura indeterminazione, essa scambia per infinito ciò che è indefinito: una disponibilità a mutare che facilmente diventa incapacità di stabilire. Nasce il paradosso moderno: moltiplicazione dei mezzi e rarefazione dei fini; proliferazione delle possibilità e indebolimento del criterio. L’uomo appare sovrano perché può scegliere, e, tuttavia, è fragile perché non sa che cosa valga. Il mondo diventa distesa di opzioni senza gerarchia e l’io, trascinato dal flusso, si frammenta in una serie di atti non raccolti in unità.
Il classico opera, viceversa, come ricomposizione dell’unità. Non riduce la complessità, restituisce ordine. Mostra che la vita non è somma di episodi, è trama; e che ogni trama implica principio e fine, misura e orientamento. La gerarchia del significativo non è imposizione esterna: è una proprietà della realtà, riconoscibile dall’esperienza stessa. Non tutto pesa allo stesso modo, non ogni desiderio ha la medesima dignità, non ogni possibilità merita d’essere voluta. La distinzione tra ciò che conduce al compimento e ciò che conduce alla dispersione non è capriccio morale: è grammatica dell’umano. Per questo il classico non è consolazione, è criterio; non è evasione, è giudizio; non è antiquariato, è discernimento.
L’età della fabbricazione vive sotto il segno del flusso. Il flusso è la sua metafisica non dichiarata: tutto scorre, tutto è sostituibile, tutto è aggiornabile. Eppure un mondo integralmente fluido è un mondo inabitabile, perché abitare significa stabilire, riconoscere, permanere. Il classico oppone al flusso una verticalità: non un ritorno indietro, ma un asse che attraversa il tempo. Esistono condizioni del senso che non scorrono; esistono forme non intercambiabili; esistono verità che non dipendono dalla velocità con cui vengono enunciate. Senza questo asse, la storia non è sviluppo, è semplice successione; senza questa misura, la libertà non è potenza, è dispersione.
In definitiva, il classico è attuale perché non teme l’essere. Non teme che la realtà abbia consistenza; non teme che l’uomo possieda una forma; non teme che la libertà sia ordinabile; non teme che la verità abbia pretesa. L’epoca che vorrebbe liberarsi da ogni pretesa finisce spesso per assumere la pretesa più assoluta: che nulla possa vincolare l’uomo se non la sua decisione. Il classico spezza l’incantesimo con un’evidenza più forte della polemica: mostra che l’uomo non si inventa integralmente, si riconosce; non si salva moltiplicando possibilità, si salva aderendo a ciò che vale. E quando il presente si contraddice, non è il classico a diventare contemporaneo: è il contemporaneo, ferito dalla propria dissoluzione, a riscoprire la dimora dell’essere.
Scrive Italo Calvino (1923-1985): “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che deve dire”.

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