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venerdì 12 dicembre 2025

Guida per principianti ai problemi del “novus ordo missae”






by Aldo Maria Valli, 12 dic 2025

Che si possieda o meno una comprensione intellettuale di ogni rubrica, di ogni gesto e di ogni preghiera della liturgia tradizionale, è chiaro la santa messa vetus ordo opera a un livello profondo. Siamo nel campo dell’adorazione, non dell’analisi. È quindi impossibile accostarsi a questo tesoro della nostra Fede senza l’inequivocabile consapevolezza di partecipare a qualcosa di veramente altro rispetto al tempo e allo spazio profani, qualcosa di grandioso e davvero trascendente. Nella santa messa tradizionale sappiamo di trovarci, per quanto indegni, davanti al trono di Dio e sappiamo che un tale incontro non richiede altro che totale riverenza, umiltà e timore reverenziale.

La mia intenzione è di esaminare il netto contrasto tra questa sacra eredità e ciò che è venuto a sostituirla, ovvero quella costruzione neo-protestante nota come novus ordo missae.

La sostituzione avvenne nonostante il solenne decreto di papa san Pio V “Quo primum tempore” (14 luglio 1570), che promulgò il Messale Romano della liturgia tridentina e ne impose l’uso esclusivo in tutta la Chiesa latina. La bolla papale, lo ricordo, proibiva esplicitamente qualsiasi aggiunta, sottrazione o alterazione della messa, invocando l’ira di Dio Onnipotente su coloro che avessero osato manometterla, ma tali avvertimenti evidentemente hanno scarso peso per i modernisti, che infatti hanno sostituito il Dio veramente esigente e giusto con una divinità di loro creazione, accomodante e addomesticata.

Sono convinto che gran parte dei lettori comprenda bene perché la santa messa tradizionale sia la più gradita a Dio e riconosca i gravi difetti del novus ordo. Tuttavia, poiché so che un numero considerevole di fedeli cattolici si chiede sinceramente che cosa ci sia di sbagliato nella messa riformata, ecco alcune indicazioni, il cui obiettivo è fornire spiegazioni chiare e accessibili ai problemi teologici, liturgici e spirituali posti da un rito che considero pseudo-cattolico.

Vi chiedo di condividere questi articoli con chi è alla ricerca, si interroga o è inquieto. La verità, una volta incontrata, rifiuta di rimanere in silenzio.

Rottura teologica, liturgica e rituale


Per gran parte della sua storia, la Chiesa ha pregato come credeva e ha creduto come pregava. Il Rito Romano non è nato da una teoria o da un comitato, ma da secoli e secoli di pratica, sacrificio e santificazione. Ogni gesto, ogni preghiera, ogni silenzio portava i segni di generazioni che si erano inginocchiate, avevano sussurrato e offerto il Santo Sacrificio in ogni situazione, anche in mezzo a persecuzioni, pestilenze, rivoluzioni e guerre. La liturgia non fu mai un testo da rivedere, ma un’eredità da accogliere e trasmettere.

La promulgazione del novus ordo missae nel 1969 segnò una rottura decisiva. Una riforma senza precedenti per portata, rapidità e metodo. Da subito gli osservatori cattolici legati alla tradizione vi scorsero non solo un cambiamento estetico, ma uno spostamento teologico.

Partiamo dal cuore della questione: il sacrificio.

L’oscuramento della natura sacrificale della Messa

Al centro delle critiche c’era e c’è un’unica, grave preoccupazione: il novus ordo missae oscura la dimensione della santa messa come sacrificio propiziatorio. Il Rito Romano tradizionale non smise mai di insistere sul sacrificio. Dall’ascesa iniziale all’altare fino alla proclamazione finale del Vangelo di san Giovanni, la liturgia proclamava che il Calvario si stava rendendo presente, incruento ma reale, offerto da Cristo attraverso le mani del sacerdote per i peccati dei vivi e dei morti.

Questa chiarezza sacrificale era particolarmente evidente nell’offertorio. Nella santa messa tradizionale il sacerdote offre l’ostia come “vittima immacolata” e nomina esplicitamente i suoi “innumerevoli peccati”, le “offese” e le “negligenze”. Il calice viene offerto “per la nostra salvezza e per quella del mondo intero”. Il linguaggio non lascia spazio all’ambiguità. Ciò che giace sull’altare è già destinato al sacrificio.

Nel novus ordo queste preghiere sono state completamente rimosse e sostituite con nuove formule tratte dalle benedizioni ebraiche della mensa: “Benedetto sei tu, Signore Dio di tutta la creazione, perché dalla tua bontà abbiamo ricevuto il pane che ti offriamo”. Queste parole non sono intrinsecamente errate, ma non sono sacrificali. Parlano di doni, non di vittime; di nutrimento, non di immolazione; di lavoro umano, non di propiziazione divina. Questo cambiamento sposta l’asse teologico del rito, così che il significato della messa cambia: da offerta sacrificale a pasto comunitario.

Il cambiamento è rafforzato dalla proliferazione delle preghiere eucaristiche. Il Canone Romano, praticamente immutato per quindici secoli e incentrato sul sacrificio, non è più normativo. Nella pratica, è spesso sostituito dalla preghiera eucaristica II, la più breve e meno esplicita nella sua espressione sacrificale. Il risultato non è una negazione formale, ma un’attenuazione abituale: la dimensione sacrificale ora è desunta piuttosto che dichiarata.

La diminuzione del sacerdozio ministeriale

Strettamente legato alla questione sacrificale è il ruolo del sacerdote. Nel rito tradizionale il sacerdote svolge inequivocabilmente il ruolo di mediatore. Sale da solo i gradini dell’altare, sussurra preghiere che i fedeli possono non percepire e offre sacrifici per loro conto. La sua postura, i suoi silenzi e la sua separazione dall’assemblea indicano una realtà teologica: egli agisce in persona Christi, non semplicemente come delegato della comunità lì riunita.

Il novus ordo rimodella questa dinamica. Dal saluto iniziale in poi, il sacerdote assume il ruolo di presidente dell’assemblea. Rivolto verso il popolo, parla costantemente, a volte anche scherzando, e dialoga. Da parte loro, i laici assumono ruoli un tempo riservati ai chierici, non solo leggendo la Scrittura, ma anche distribuendo la santa comunione e maneggiando i vasi sacri. L’attenta disciplina rituale che un tempo enfatizzava il ruolo unico delle mani consacrate del sacerdote – pensiamo alle dita giunte dopo la consacrazione, evitando contatti non necessari con le specie sacre – è in gran parte assente.

Il sacerdozio non viene negato esplicitamente, ma la sua specificità è offuscata e annacquata. Quando il sacerdote appare funzionalmente intercambiabile con i partecipanti laici, il suo ruolo sacrificale unico diventa meno visibile. E col tempo la visibilità plasma la fede. Un sacerdote che assomiglia a un presidente inizia a essere percepito sempre di più come un semplice presidente e non più come sacerdote.

L’indebolimento della riverenza eucaristica e della presenza reale


La dottrina della presenza reale resta affermata sulla carta, ma l’espressione rituale è stata notevolmente indebolita. Nella messa tradizionale la riverenza è insita in ogni movimento. La riverenza espressa dalla postura del sacerdote davanti alla presenza reale è manifestata nel numero di genuflessioni obbligatorie. Durante la messa – bassa o solenne che sia – il celebrante si genuflette circa diciassette volte, senza contare le genuflessioni aggiuntive effettuate avvicinandosi o allontanandosi dall’altare se il Santissimo Sacramento è presente. E queste genuflessioni si verificano in momenti teologicamente decisivi: ogni volta che il sacerdote passa davanti al Sacramento, dopo ogni elevazione dell’ostia e del calice, ripetutamente durante il canone e prima e dopo la propria comunione. Al contrario, nel novus ordo missae il sacerdote è tenuto a genuflettersi solo tre volte: dopo l’elevazione dell’ostia, dopo l’elevazione del calice e dopo l’Agnus Dei al momento dell’”Ecco l’Agnello di Dio”, immediatamente prima della comunione. Ciò rappresenta una riduzione di circa l’ottanta per cento delle genuflessioni, un cambiamento tutt’altro che casuale, perché la genuflessione non è un mero svolazzo cerimoniale, ma una confessione di fede mediante il corpo: lex orandi, lex credendi. La santa messa tradizionale, attraverso i ripetuti inginocchiamenti, abitua il sacerdote ad adorare Cristo presente veramente, sostanzialmente, sull’altare. Il novus ordo, al contrario, riducendo la postura dell’adorazione a un obbligo minimo, rimodella sottilmente l’enfasi della liturgia dalla dimensione del sacrificio a quella di incontro comunitario, contribuendo così a una profonda erosione della fede eucaristica.

Nella santa messa tradizionale i fedeli si inginocchiano per ricevere la santa comunione sulla lingua. Il tabernacolo si trova al centro del presbiterio, segnalato da una lampada accesa e fiancheggiato da candele.

Al contrario, il novus ordo consente di ricevere la comunione in piedi e sulla mano, spesso da ministri laici. In innumerevoli chiese il tabernacolo è stato spostato dall’asse centrale o trasferito in una cappella laterale. Queste pratiche non sono obbligatorie in base al Messale, ma in concreto si sono imposte come normative.

La dottrina non vive solo nei testi. Vive nell’abitudine, nei gesti, nella postura e nel silenzio. Quando i fedeli non sono più addestrati a inginocchiarsi, ad adorare e ad avvicinarsi con timore e tremore, la fede nella presenza reale inevitabilmente si erode. Il crollo generalizzato della fede eucaristica nei decenni successivi alla riforma non è una coincidenza. Si tratta di una conseguenza.

Ecumenismo e sensibilità protestante

Un altro aspetto deplorevole della nuova messa risiede nell’orientamento ecumenico imposto dalla riforma. Il coinvolgimento di osservatori protestanti nella stesura del nuovo rito fu solo consultivo, ma non ha mai cessato di destare sospetti. La liturgia che è stata adottata, infatti, minimizza proprio gli elementi storicamente rifiutati dalla teologia protestante: il linguaggio sacrificale, la mediazione sacerdotale e la nozione di propiziazione.

Non si tratta di preoccupazioni infondate. Le dichiarazioni di quel periodo riflettono un desiderio esplicito di rimuovere gli ostacoli al dialogo ecumenico. Così facendo, la riforma attenua aspetti del culto cattolico che non erano periferici, bensì costitutivi. Una messa che possa essere facilmente riconosciuta come accettabile da un ministro protestante è già un segno di compromesso molto preoccupante.

Perdita del linguaggio sacro e dell’espressione ieratica

La lingua plasma la coscienza e la fede. Così, l’abbandono del latino rappresenta una delle rotture più evidenti con la tradizione. Il latino non è mai stato semplicemente uno strumento. Era lingua sacra, separata dal linguaggio quotidiano perché immune da derive colloquiali e universalmente unificante. Il latino aveva legato i cattolici attraverso i secoli e i continenti. Attraverso il latino, avevamo le stesse parole, le stesse preghiere, lo stesso culto.

La volgarizzazione della messa ha frantumato questa unità. Le prime traduzioni sacrificarono la precisione in favore dell’accessibilità, come si vede nel caso del “pro multis” diventato “per tutti”, un errore di traduzione che si è protratto per decenni. Preghiere un tempo dense di contenuto teologico sono state appiattite in una prosa funzionale. Le invocazioni di angeli, santi e intercessioni cosmiche sono state abbreviate o rimosse.

Quando il linguaggio del culto diventa indistinguibile dal linguaggio comune quotidiano, il senso di sacra alterità inevitabilmente diminuisce. E la messa comincia a suonare come qualcosa di rivolto agli uomini piuttosto che a Dio.

Eccessiva facoltatività e frammentazione liturgica

Il novus ordo missae è definito non da norme stabili e universali ma dalla libertà di scelta. Molteplici i riti penitenziali, molteplici le preghiere eucaristiche. Variabili le letture, facoltativi i gesti. Ampia la possibilità di adattamento. Risultato: un rito senza un’identità fissa, tanto è vero che non esiste un novus ordo missae standard. Due parrocchie della stessa diocesi possono celebrare la messa in modi così diversi da sembrare appartenenti a religioni diverse.

Nel Rito Romano tradizionale la stabilità aveva una portata formativa. I fedeli imparavano la messa attraverso la ripetizione. Il sacerdote non plasmava il rito, ma vi si sottometteva. Nella nuova liturgia, invece, la personalità del celebrante e le preferenze individuali spesso colmano il vuoto lasciato dalla mancanza di prescrizioni.

All’interno di questo relativismo liturgico la messa diventa una piattaforma per la creatività personale e locale piuttosto che un atto di culto recepito universalmente. Il sacerdote sceglie, adatta e improvvisa. I fedeli incontrano non più il Rito Romano, ma una sua versione modificabile e adattabile.

Semplificazione e perdita di densità rituale

Infine, va segnalata la deplorevole semplificazione sistematica della liturgia. Le preghiere ai piedi dell’altare, il Salmo 42, i molteplici segni della croce, i baci rituali dell’altare e l’ultimo Vangelo non erano eccessi decorativi, ma pedagogia teologica. Incarnavano umiltà, preparazione, riverenza e contemplazione.

La loro rimozione ha prodotto un rito che, secondo i suoi sostenitori, è più breve, più chiaro e più accessibile, ma in definitiva è più esile e impoverito, il che lascia i partecipanti spiritualmente denutriti. Il silenzio è stato ridotto. La gestualità è stata minimizzata. Il canone, un tempo avvolto in un silenzio reverente, ora viene proclamato ad alta voce. Il mistero cede il passo alla spiegazione.

La messa tradizionale non andava spiegata. Il suo significato non veniva svelato attraverso il commento, ma attraverso la forma stessa. Semplificando il rito, la riforma lo spogliò proprio di quegli elementi che formavano le anime.

Ciò che emerge da queste prime annotazioni non è un elenco di lamentele sconnesse, ma un’unica diagnosi: c’è stata una vera e propria rottura. Una rottura nell’enfasi sacrificale, nell’identità sacerdotale, nella riverenza eucaristica, nel linguaggio sacro, nella stabilità rituale e nella profondità simbolica. Ritenere questa rottura giustificata o catastrofica non è lo scopo delle nostre osservazioni. Ciò che non si può negare è che la rottura c’è stata, e che i suoi effetti sono stati profondi.

In una seconda parte esamineremo le conseguenze storiche, pastorali, sociologiche ed estetiche di questa rottura, passando dalla struttura ai frutti, dalla riforma alle sue conseguenze.

2.continua

radicalfidelity




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