
di Aldo Maria Valli, 13 dic 2025
Una volta un’amica, reduce da una santa messa tradizionale, disse: “È un po’ come un vino rosso ben invecchiato rispetto alla bevanda Kool-Aid”.
Ecco un commento sincero, da parte di chi non è abituato alla polemica ma è sensibile alla realtà. Il buon vino e la Kool-Aid [bevanda dolce americana, che si produce mescolando acqua, zucchero e una polvere al sapore di ciliegia, limonata e tante altre varianti, N.d.T.] appartengono a mondi completamente diversi, non solo per il gusto, ma per origine, scopo e profondità. Kool-Aid è prodotta per l’immediatezza: dolce, colorata, gratificante all’istante, non richiede pazienza, nessuna formazione del palato, nessuna riflessione prolungata. Il vino è coltivato lentamente, invecchiato in silenzio, plasmato dal tempo, dalla tradizione e dalla moderazione. Confondere l’una con l’altro è impossibile una volta che si sono veramente assaggiati entrambi.
La mia amica era cresciuta, come molti cattolici della sua generazione, conoscendo solo il novus ordo missae. Per lei era familiare, comprensibile, sincero, spesso benintenzionato. L’aveva incontrato in chiese parrocchiali organizzate ed efficienti, accompagnato da inni che sapeva già cantare dopo averli ascoltati una sola volta, celebrato da sacerdoti che parlavano in modo diretto, amichevole, rassicurante. Niente di tutto ciò le sembrava scandaloso. Era semplicemente la messa. E quando si ritrovò, quasi per caso, ad assistere a una santa messa solenne in rito romano tradizionale – con i suoi canti, il silenzio, la gerarchia ordinata dei ministri e il senso di gravità – ne emerse visibilmente turbata. Non arrabbiata, ma pensierosa. Qualcosa l’aveva toccata, ma faceva fatica a dargli un nome.
Ciò che sperimentò non fu semplicemente un’estetica diversa, né una mera preferenza per il latino, l’incenso o i paramenti. Incontrò una concezione del culto completamente diversa. Nella santa messa antica nessuno si affretta a spiegare. Il rituale assume il mistero anziché gestirlo. Il significato non è costantemente verbalizzato, ma incarnato attraverso gesti, orientamento e moderazione. Il sacerdote non si rivolge ai fedeli, ma li guida. I fedeli non vengono intrattenuti, istruiti o incoraggiati a ogni occasione; sono posti, in modo consapevole, al cospetto di Dio.
Il paragone proposto dalla mia amica, fatto senza secondi fini e senza ideologia, coglie con disarmante chiarezza il cuore del dibattito che riguarda il novus ordo missae. La controversia è spesso inquadrata in termini di obbedienza contro preferenza, progresso contro nostalgia, accessibilità contro elitarismo. Ma tutte queste dicotomie oscurano la questione più profonda: non si tratta di vedere se una forma della messa sia valida, ma se tutte le forme trasmettano ugualmente la pienezza di ciò che la messa è. Se la santa messa è, come insegna la Chiesa, la rappresentazione incruenta del sacrificio del Calvario, l’asse su cui cielo e terra si incontrano, allora il modo in cui questa realtà viene espressa – ritualmente, teologicamente, simbolicamente – è di fondamentale importanza.
La seconda parte del nostro contributo [qui la prima] si fonda su questa convinzione. Non si basa su sentimentalismi o gusti, ma sulla sostanza. Per il bene di coloro che ancora si chiedono cosa ci sia di sbagliato nella “nuova messa”, cerchiamo quindi di esaminare, in modo completo e schietto, i problemi che teologi, sacerdoti, liturgisti e fedeli cattolici hanno individuato nel novus ordo missae nell’ultimo mezzo secolo.
Il paragone tra la bevanda Kool-Aid e il vino invecchiato è una diagnosi calzante. E come tutte le diagnosi oneste, richiede che la prendiamo in considerazione attentamente, senza distogliere lo sguardo.
Dalla rottura rituale alla conseguenza spirituale
Se le prime ferite inflitte dal novus ordo missae furono teologiche e rituali, le loro conseguenze più profonde si dispiegarono lentamente, quasi impercettibilmente, nell’ambito della cultura, della psicologia e della fede. La riforma non si limitò a modificare preghiere e gesti; riformulò sottilmente, e dall’interno, il culto stesso. Se un tempo la Chiesa attraverso il culto attirava l’anima verso l’alto, verso la trascendenza, ora la educava a mantenere lo sguardo orizzontale. Il mistero divenne spiegazione. Lo stupore cedette il passo alla familiarità, il silenzio al suono. In questo modo la riforma diede inizio a una trasformazione non solo liturgica, ma anche antropologica.
Spostamento del mistero e della trascendenza
Il Rito Romano tradizionale non si spiegava. Avvolgeva. I suoi silenzi non erano vuoti imbarazzanti, ma spazi sacri, carichi di attesa e di significato. Il canone silenzioso, pronunciato quasi in un sussurro, lasciava intendere che qualcosa di terribile e sacro stava accadendo. Il mistero non veniva semplicemente osservato. Ci si inginocchiava davanti a esso.
Nel novus ordo missae questa grammatica del mistero svanisce. Quasi ogni preghiera viene pronunciata ad alta voce. I microfoni amplificano ciò che un tempo era velato. La preghiera eucaristica diventa un’azione narrata piuttosto che un evento avvolgente. Invece del silenzio che indica la vicinanza divina, il suono riempie ogni fessura del rito. Anche quando il silenzio è prescritto, è comunque facoltativo, breve e spesso ignorato.
Questo cambiamento non è banale. Il mistero non può sopravvivere a continue spiegazioni. La trascendenza si ritira quando il sacro viene verbalizzato incessantemente. L’anima, privata del linguaggio del timore reverenziale, perde lentamente l’istinto di adorare.
Crollo dei confini liturgici
Strettamente connesso a questa perdita di mistero è il crollo di confini liturgici netti. Per secoli il culto cattolico ha accuratamente segnato le soglie: tra navata e presbiterio, clero e laici, preparazione e consacrazione, parola e silenzio. Questi confini non erano espressione di clericalismo, ma indicazioni teologiche che facevano capire che ci si stava avvicinando a un luogo sacro.
Nella liturgia riformata queste distinzioni si perdono quasi completamente. I “ministri” laici entrano regolarmente nel presbiterio. I “ministri straordinari” si radunano attorno all’altare. Il presbiterio stesso è spesso architettonicamente indistinto, privo di prospetti, balaustre o separazione visiva. Ciò che un tempo era avvicinato con trepidazione, ora è accessibile con facilità.
L’effetto psicologico è profondo. Quando nulla annuncia “qui inizia il sacro”, nulla educa l’anima a inginocchiarsi interiormente. La familiarità non genera disprezzo, ma indifferenza sì.
Fragilità rituale della nuova liturgia
Uno dei contrasti più evidenti tra la messa tradizionale e il novus ordo risiede nell’adattamento. Il rito antico è pressoché indistruttibile. La sua densità di preghiere, gesti e silenzi crea una struttura che resiste alle intrusioni. La creatività personale ha poco spazio. Il sacerdote si sottomette al rito.
Il novus ordo, al contrario, è straordinariamente fragile. Privato di molte ridondanze rituali, dipende fortemente da fattori esterni per quanto riguarda tono e significato. La musica, la personalità del celebrante, l’ambiente architettonico e lo stile pastorale assumono un ruolo sproporzionato. Il risultato è che il carattere della messa non è più intrinseco, ma contingente.
Questa fragilità spiega la straordinaria varietà del culto cattolico moderno. Ci sono messe guidate dalla chitarra, liturgie riccamente coreografate, preghiere eucaristiche colloquiali, applausi, tamburi, processioni che sembrano performance e commenti improvvisati che si intrecciano lungo tutto il rito. Questi fenomeni sono sintomi di un rito privo della sufficiente gravità interna necessaria per reggersi in piedi.
Antropocentrismo e ascesa della performance
Man mano che il rito perde trascendenza, acquisisce inevitabilmente un nuovo centro: l’assemblea umana. Il centro si sposta dal sacrificio all’assemblea, dall’oblazione alla partecipazione, dall’offerta all’espressione. La messa non è più ciò che Cristo fa attraverso il sacerdote, ma ciò che la comunità fa secondo gusti e circostanze.
Il cambiamento è rafforzato dall’orientamento fisico. Quando il sacerdote si rivolge al popolo, diventa necessariamente un punto focale. I suoi atteggiamenti, il suo tono, il suo calore o la sua goffaggine plasmano l’esperienza. La pressione a coinvolgere, a essere accessibile, a personalizzare il rito si fa intensa. Col tempo, il sacerdote smette di essere uno strumento nascosto e diventa un facilitatore visibile e persino un intrattenitore.
Il pericolo qui non risiede nelle cattive intenzioni, ma nella struttura stessa. Un rito che richiede un contatto visivo costante invita alla performance. Un rito che sopprime il silenzio incoraggia il riempimento verbale. Un rito che premia l’accessibilità rischia di banalizzare il sacro.
Amnesia calendariale e perdita del tempo sacro
Il tempo liturgico è la memoria della Chiesa. Attraverso ripetuti periodi, digiuni, veglie e feste, i cattolici hanno imparato a vivere la storia sacra. Il calendario preconciliare ha formato gradualmente i fedeli, tornando anno dopo anno agli stessi momenti, le stesse letture, le stesse preghiere, fino a farle diventare istintive.
La riforma postconciliare ha sconvolto questa memoria. Antiche festività come la Settuagesima sono scomparse da un giorno all’altro. Le Quattro Tempora e le Rogazioni sono scomparse dalla pratica comune. Le ottave sono state abolite. Il lungo ritmo pedagogico della ripetizione è stato sostituito da una costante variabilità.
L’introduzione del lezionario triennale amplificò questo effetto. Ne ampliò la portata, ma ne frammentò la coerenza. I fedeli non ascoltavano più le stesse letture ogni anno, né trovavano la stessa unità tematica tra preghiere e letture. La memoria si indebolì. La familiarità si dissolse. La messa divenne informativa anziché formativa.
Una Chiesa che dimentica come ricordare, dimentica presto chi è.
L’assottigliamento dottrinale della lex orandi
Poiché la Chiesa insegna principalmente attraverso il culto, i cambiamenti nel linguaggio liturgico plasmano inevitabilmente la fede. La riforma non ha negato esplicitamente la dottrina cattolica, ma ha spesso attenuato, minimizzato o eliminato enfasi dottrinali da tempo presenti nel Rito Romano.
Le preghiere che facevano riferimento al giudizio, alla penitenza, al combattimento spirituale e all’ira divina furono rimosse o ridotte. Il linguaggio del sacrificio fu eliminato. I riferimenti al merito, alla mortificazione e al timore di Dio divennero rari. Le invocazioni mariane diminuirono in frequenza e densità.
Ciò che rimaneva non era eresia, ma vaghezza e ambiguità. E col tempo la vaghezza genera incertezza. Una generazione formata da questo linguaggio fatica ad articolare chiaramente ciò che la Chiesa crede riguardo al peccato, alla salvezza e al sacrificio, perché non avverte più che queste verità sono racchiuse nella preghiera.
Casualità eucaristica ed erosione della fede
Forse nessuna conseguenza della riforma è più visibile del drammatico indebolimento della venerazione eucaristica. Pratiche un tempo universalmente proibite o sconosciute sono diventate normali: la comunione sulla mano, la sua ricezione in piedi, l’uso diffuso di ministri straordinari e la scomparsa del digiuno e della confessione come prerequisiti.
Ogni cambiamento all’inizio sembrò insignificante. Attorno a ciò che i cattolici professano essere il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità di Cristo si stava creando un’atmosfera di straordinaria disinvoltura. La scomparsa della patena, la riduzione delle genuflessioni, lo spostamento del tabernacolo e la moltiplicazione dei laici addetti alla cerimonia comunicano, seppur involontariamente, che non sta accadendo nulla di particolarmente sacro e solenne.
La fede segue il gesto. Quando i gesti non proclamano più il mistero, la fede si erode silenziosamente.
Funerali senza giudizio e speranza senza paura
In nessun luogo il cambiamento teologico è più evidente che nei funerali cattolici. La tradizionale messa da requiem metteva i fedeli di fronte alla morte, al giudizio e all’urgenza della preghiera per l’anima del defunto. I paramenti sacri neri, gli “Alleluia” repressi e la poesia agghiacciante del “Dies irae” formavano i cattolici al realismo e al timore di Dio.
I riti riformati, al contrario, spesso evitano del tutto il giudizio. I funerali sono concepiti come celebrazioni della vita. Gli elogi funebri prevalgono. I paramenti bianchi sostituiscono quelli neri. La consolazione eclissa la supplica. I defunti sono implicitamente canonizzati.
Il costo dottrinale è elevato. Quando il giudizio scompare dal culto, il pentimento scompare presto dalla vita.
La Chiesa non giudica la verità solo in base alle statistiche, ma i frutti contano. Dall’introduzione del novus ordo missae la Chiesa occidentale ha vissuto un crollo senza precedenti: la partecipazione alla messa è precipitata, le vocazioni sono diminuite, la fede nella presenza reale è caduta, la conoscenza catechetica è evaporata e la pratica religiosa si è disintegrata nel giro di una sola generazione.
La correlazione non implica automaticamente causalità, ma negare qualsiasi connessione è intellettualmente disonesto. È un fatto: la rottura liturgica più radicale nella storia cattolica ha coinciso con il crollo spirituale più drammatico nella storia della Chiesa. Questo non può essere casuale.
Una lex orandi indebolita produce una lex credendi indebolita. Una lex credendi indebolita produce una Chiesa indebolita.
2.Fine
La precedente puntata si trova qui.
radicalfidelity
Una volta un’amica, reduce da una santa messa tradizionale, disse: “È un po’ come un vino rosso ben invecchiato rispetto alla bevanda Kool-Aid”.
Ecco un commento sincero, da parte di chi non è abituato alla polemica ma è sensibile alla realtà. Il buon vino e la Kool-Aid [bevanda dolce americana, che si produce mescolando acqua, zucchero e una polvere al sapore di ciliegia, limonata e tante altre varianti, N.d.T.] appartengono a mondi completamente diversi, non solo per il gusto, ma per origine, scopo e profondità. Kool-Aid è prodotta per l’immediatezza: dolce, colorata, gratificante all’istante, non richiede pazienza, nessuna formazione del palato, nessuna riflessione prolungata. Il vino è coltivato lentamente, invecchiato in silenzio, plasmato dal tempo, dalla tradizione e dalla moderazione. Confondere l’una con l’altro è impossibile una volta che si sono veramente assaggiati entrambi.
La mia amica era cresciuta, come molti cattolici della sua generazione, conoscendo solo il novus ordo missae. Per lei era familiare, comprensibile, sincero, spesso benintenzionato. L’aveva incontrato in chiese parrocchiali organizzate ed efficienti, accompagnato da inni che sapeva già cantare dopo averli ascoltati una sola volta, celebrato da sacerdoti che parlavano in modo diretto, amichevole, rassicurante. Niente di tutto ciò le sembrava scandaloso. Era semplicemente la messa. E quando si ritrovò, quasi per caso, ad assistere a una santa messa solenne in rito romano tradizionale – con i suoi canti, il silenzio, la gerarchia ordinata dei ministri e il senso di gravità – ne emerse visibilmente turbata. Non arrabbiata, ma pensierosa. Qualcosa l’aveva toccata, ma faceva fatica a dargli un nome.
Ciò che sperimentò non fu semplicemente un’estetica diversa, né una mera preferenza per il latino, l’incenso o i paramenti. Incontrò una concezione del culto completamente diversa. Nella santa messa antica nessuno si affretta a spiegare. Il rituale assume il mistero anziché gestirlo. Il significato non è costantemente verbalizzato, ma incarnato attraverso gesti, orientamento e moderazione. Il sacerdote non si rivolge ai fedeli, ma li guida. I fedeli non vengono intrattenuti, istruiti o incoraggiati a ogni occasione; sono posti, in modo consapevole, al cospetto di Dio.
Il paragone proposto dalla mia amica, fatto senza secondi fini e senza ideologia, coglie con disarmante chiarezza il cuore del dibattito che riguarda il novus ordo missae. La controversia è spesso inquadrata in termini di obbedienza contro preferenza, progresso contro nostalgia, accessibilità contro elitarismo. Ma tutte queste dicotomie oscurano la questione più profonda: non si tratta di vedere se una forma della messa sia valida, ma se tutte le forme trasmettano ugualmente la pienezza di ciò che la messa è. Se la santa messa è, come insegna la Chiesa, la rappresentazione incruenta del sacrificio del Calvario, l’asse su cui cielo e terra si incontrano, allora il modo in cui questa realtà viene espressa – ritualmente, teologicamente, simbolicamente – è di fondamentale importanza.
La seconda parte del nostro contributo [qui la prima] si fonda su questa convinzione. Non si basa su sentimentalismi o gusti, ma sulla sostanza. Per il bene di coloro che ancora si chiedono cosa ci sia di sbagliato nella “nuova messa”, cerchiamo quindi di esaminare, in modo completo e schietto, i problemi che teologi, sacerdoti, liturgisti e fedeli cattolici hanno individuato nel novus ordo missae nell’ultimo mezzo secolo.
Il paragone tra la bevanda Kool-Aid e il vino invecchiato è una diagnosi calzante. E come tutte le diagnosi oneste, richiede che la prendiamo in considerazione attentamente, senza distogliere lo sguardo.
Dalla rottura rituale alla conseguenza spirituale
Se le prime ferite inflitte dal novus ordo missae furono teologiche e rituali, le loro conseguenze più profonde si dispiegarono lentamente, quasi impercettibilmente, nell’ambito della cultura, della psicologia e della fede. La riforma non si limitò a modificare preghiere e gesti; riformulò sottilmente, e dall’interno, il culto stesso. Se un tempo la Chiesa attraverso il culto attirava l’anima verso l’alto, verso la trascendenza, ora la educava a mantenere lo sguardo orizzontale. Il mistero divenne spiegazione. Lo stupore cedette il passo alla familiarità, il silenzio al suono. In questo modo la riforma diede inizio a una trasformazione non solo liturgica, ma anche antropologica.
Spostamento del mistero e della trascendenza
Il Rito Romano tradizionale non si spiegava. Avvolgeva. I suoi silenzi non erano vuoti imbarazzanti, ma spazi sacri, carichi di attesa e di significato. Il canone silenzioso, pronunciato quasi in un sussurro, lasciava intendere che qualcosa di terribile e sacro stava accadendo. Il mistero non veniva semplicemente osservato. Ci si inginocchiava davanti a esso.
Nel novus ordo missae questa grammatica del mistero svanisce. Quasi ogni preghiera viene pronunciata ad alta voce. I microfoni amplificano ciò che un tempo era velato. La preghiera eucaristica diventa un’azione narrata piuttosto che un evento avvolgente. Invece del silenzio che indica la vicinanza divina, il suono riempie ogni fessura del rito. Anche quando il silenzio è prescritto, è comunque facoltativo, breve e spesso ignorato.
Questo cambiamento non è banale. Il mistero non può sopravvivere a continue spiegazioni. La trascendenza si ritira quando il sacro viene verbalizzato incessantemente. L’anima, privata del linguaggio del timore reverenziale, perde lentamente l’istinto di adorare.
Crollo dei confini liturgici
Strettamente connesso a questa perdita di mistero è il crollo di confini liturgici netti. Per secoli il culto cattolico ha accuratamente segnato le soglie: tra navata e presbiterio, clero e laici, preparazione e consacrazione, parola e silenzio. Questi confini non erano espressione di clericalismo, ma indicazioni teologiche che facevano capire che ci si stava avvicinando a un luogo sacro.
Nella liturgia riformata queste distinzioni si perdono quasi completamente. I “ministri” laici entrano regolarmente nel presbiterio. I “ministri straordinari” si radunano attorno all’altare. Il presbiterio stesso è spesso architettonicamente indistinto, privo di prospetti, balaustre o separazione visiva. Ciò che un tempo era avvicinato con trepidazione, ora è accessibile con facilità.
L’effetto psicologico è profondo. Quando nulla annuncia “qui inizia il sacro”, nulla educa l’anima a inginocchiarsi interiormente. La familiarità non genera disprezzo, ma indifferenza sì.
Fragilità rituale della nuova liturgia
Uno dei contrasti più evidenti tra la messa tradizionale e il novus ordo risiede nell’adattamento. Il rito antico è pressoché indistruttibile. La sua densità di preghiere, gesti e silenzi crea una struttura che resiste alle intrusioni. La creatività personale ha poco spazio. Il sacerdote si sottomette al rito.
Il novus ordo, al contrario, è straordinariamente fragile. Privato di molte ridondanze rituali, dipende fortemente da fattori esterni per quanto riguarda tono e significato. La musica, la personalità del celebrante, l’ambiente architettonico e lo stile pastorale assumono un ruolo sproporzionato. Il risultato è che il carattere della messa non è più intrinseco, ma contingente.
Questa fragilità spiega la straordinaria varietà del culto cattolico moderno. Ci sono messe guidate dalla chitarra, liturgie riccamente coreografate, preghiere eucaristiche colloquiali, applausi, tamburi, processioni che sembrano performance e commenti improvvisati che si intrecciano lungo tutto il rito. Questi fenomeni sono sintomi di un rito privo della sufficiente gravità interna necessaria per reggersi in piedi.
Antropocentrismo e ascesa della performance
Man mano che il rito perde trascendenza, acquisisce inevitabilmente un nuovo centro: l’assemblea umana. Il centro si sposta dal sacrificio all’assemblea, dall’oblazione alla partecipazione, dall’offerta all’espressione. La messa non è più ciò che Cristo fa attraverso il sacerdote, ma ciò che la comunità fa secondo gusti e circostanze.
Il cambiamento è rafforzato dall’orientamento fisico. Quando il sacerdote si rivolge al popolo, diventa necessariamente un punto focale. I suoi atteggiamenti, il suo tono, il suo calore o la sua goffaggine plasmano l’esperienza. La pressione a coinvolgere, a essere accessibile, a personalizzare il rito si fa intensa. Col tempo, il sacerdote smette di essere uno strumento nascosto e diventa un facilitatore visibile e persino un intrattenitore.
Il pericolo qui non risiede nelle cattive intenzioni, ma nella struttura stessa. Un rito che richiede un contatto visivo costante invita alla performance. Un rito che sopprime il silenzio incoraggia il riempimento verbale. Un rito che premia l’accessibilità rischia di banalizzare il sacro.
Amnesia calendariale e perdita del tempo sacro
Il tempo liturgico è la memoria della Chiesa. Attraverso ripetuti periodi, digiuni, veglie e feste, i cattolici hanno imparato a vivere la storia sacra. Il calendario preconciliare ha formato gradualmente i fedeli, tornando anno dopo anno agli stessi momenti, le stesse letture, le stesse preghiere, fino a farle diventare istintive.
La riforma postconciliare ha sconvolto questa memoria. Antiche festività come la Settuagesima sono scomparse da un giorno all’altro. Le Quattro Tempora e le Rogazioni sono scomparse dalla pratica comune. Le ottave sono state abolite. Il lungo ritmo pedagogico della ripetizione è stato sostituito da una costante variabilità.
L’introduzione del lezionario triennale amplificò questo effetto. Ne ampliò la portata, ma ne frammentò la coerenza. I fedeli non ascoltavano più le stesse letture ogni anno, né trovavano la stessa unità tematica tra preghiere e letture. La memoria si indebolì. La familiarità si dissolse. La messa divenne informativa anziché formativa.
Una Chiesa che dimentica come ricordare, dimentica presto chi è.
L’assottigliamento dottrinale della lex orandi
Poiché la Chiesa insegna principalmente attraverso il culto, i cambiamenti nel linguaggio liturgico plasmano inevitabilmente la fede. La riforma non ha negato esplicitamente la dottrina cattolica, ma ha spesso attenuato, minimizzato o eliminato enfasi dottrinali da tempo presenti nel Rito Romano.
Le preghiere che facevano riferimento al giudizio, alla penitenza, al combattimento spirituale e all’ira divina furono rimosse o ridotte. Il linguaggio del sacrificio fu eliminato. I riferimenti al merito, alla mortificazione e al timore di Dio divennero rari. Le invocazioni mariane diminuirono in frequenza e densità.
Ciò che rimaneva non era eresia, ma vaghezza e ambiguità. E col tempo la vaghezza genera incertezza. Una generazione formata da questo linguaggio fatica ad articolare chiaramente ciò che la Chiesa crede riguardo al peccato, alla salvezza e al sacrificio, perché non avverte più che queste verità sono racchiuse nella preghiera.
Casualità eucaristica ed erosione della fede
Forse nessuna conseguenza della riforma è più visibile del drammatico indebolimento della venerazione eucaristica. Pratiche un tempo universalmente proibite o sconosciute sono diventate normali: la comunione sulla mano, la sua ricezione in piedi, l’uso diffuso di ministri straordinari e la scomparsa del digiuno e della confessione come prerequisiti.
Ogni cambiamento all’inizio sembrò insignificante. Attorno a ciò che i cattolici professano essere il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità di Cristo si stava creando un’atmosfera di straordinaria disinvoltura. La scomparsa della patena, la riduzione delle genuflessioni, lo spostamento del tabernacolo e la moltiplicazione dei laici addetti alla cerimonia comunicano, seppur involontariamente, che non sta accadendo nulla di particolarmente sacro e solenne.
La fede segue il gesto. Quando i gesti non proclamano più il mistero, la fede si erode silenziosamente.
Funerali senza giudizio e speranza senza paura
In nessun luogo il cambiamento teologico è più evidente che nei funerali cattolici. La tradizionale messa da requiem metteva i fedeli di fronte alla morte, al giudizio e all’urgenza della preghiera per l’anima del defunto. I paramenti sacri neri, gli “Alleluia” repressi e la poesia agghiacciante del “Dies irae” formavano i cattolici al realismo e al timore di Dio.
I riti riformati, al contrario, spesso evitano del tutto il giudizio. I funerali sono concepiti come celebrazioni della vita. Gli elogi funebri prevalgono. I paramenti bianchi sostituiscono quelli neri. La consolazione eclissa la supplica. I defunti sono implicitamente canonizzati.
Il costo dottrinale è elevato. Quando il giudizio scompare dal culto, il pentimento scompare presto dalla vita.
La Chiesa non giudica la verità solo in base alle statistiche, ma i frutti contano. Dall’introduzione del novus ordo missae la Chiesa occidentale ha vissuto un crollo senza precedenti: la partecipazione alla messa è precipitata, le vocazioni sono diminuite, la fede nella presenza reale è caduta, la conoscenza catechetica è evaporata e la pratica religiosa si è disintegrata nel giro di una sola generazione.
La correlazione non implica automaticamente causalità, ma negare qualsiasi connessione è intellettualmente disonesto. È un fatto: la rottura liturgica più radicale nella storia cattolica ha coinciso con il crollo spirituale più drammatico nella storia della Chiesa. Questo non può essere casuale.
Una lex orandi indebolita produce una lex credendi indebolita. Una lex credendi indebolita produce una Chiesa indebolita.
2.Fine
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