mercoledì 31 agosto 2011

Del Noce maestro di modernità? Dipende






di Massimo Introvigne


Il libro di Massimo Borghesi Augusto Del Noce, La legittimazione critica del moderno (Marietti, Genova 2011), presentato al Meeting di Rimini, ha rilanciato su diversi quotidiani italiani il dibattito sulla figura del filosofo cattolico Augusto Del Noce (1910-1989). Si deve essere grati a Borghesi perché, dopo le iniziative per il ventennale della morte nel 2009 e quelle per il centenario della nascita nel 2010, tiene vivo l’interesse per un punto di riferimento fondamentale della cultura cattolica italiana del secolo XX. La tesi di fondo di Borghesi può sembrare provocatoria. Del Noce, a torto considerato un pensatore antimoderno o reazionario, avrebbe invece "sdoganato" la modernità, prendendo certo le distanze dall’entusiasmo acritico dei cattolici modernisti e neomodernisti, ma criticando a fondo anche l’antimodernità della scuola contro-rivoluzionaria.


Giustamente Borghesi mette in luce l’importanza del rapporto, insieme di ammirazione e critico, che lega Del Noce al filosofo cattolico francese Jacques Maritain (1882-1973). Del Noce mette in luce come nel corso della vita di Maritain più volte è cambiato il giudizio sul processo storico del pensiero moderno, ma non è mai cambiata la descrizione di questo processo, che rimane fondamentalmente quella contro-rivoluzionaria. Secondo questa descrizione la modernità è un processo di progressiva scristianizzazione che va in modo lineare dal Rinascimento e da Martin Lutero (1483-1546) fino all’illuminismo, alla Rivoluzione francese e al marxismo. Se questo processo sia da combattere - secondo la posizione contro-rivoluzionaria - o se invece occorra cercare qualche forma di composizione e di dialogo è questione su cui Maritain ha cambiato idea più volte.


Resta, tuttavia, una visione della storia che secondo Del Noce sarebbe comune alla scuola contro-rivoluzionaria e a Maritain, ma anche - cambiata di segno quanto al giudizio di valore, cioè intesa come "processo verso la pienezza" anziché "verso la catastrofe" - alle prospettive laiciste dominanti. Per Del Noce la visione contro-rivoluzionaria della modernità come processo rivoluzionario lineare che avanza in direzione della scristianizzazione, e dunque «di un processo unitario della filosofia moderna» non solo è in «simmetria» con una lettura laicista uguale e contraria, ma in un certo senso ne dipende in posizione di «subalternità». Per usare un’espressione che non è di Del Noce, si potrebbe dire che il filosofo italiano accusa la lettura contro-rivoluzionaria della storia europea - che coinvolge anche Maritain, non solo nella sua fase giovanile - di regalare la modernità ai laicisti. Dal momento che la modernità appare inevitabilmente vittoriosa, questa lettura preparerebbe dunque la sconfitta dei cattolici.


Intendiamoci: Del Noce riconosce alla scuola contro-rivoluzionaria il merito di avere colto il carattere profondo di un pensiero ideologico che va da Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) a Karl Marx (1818-1883) e oltre. Qui la negazione del peccato originale porta a sostituire la politica alla religione come strumento di salvezza. In questa prospettiva anche Del Noce parla di Rivoluzione con la R maiuscola come processo unitario. Rileggiamo un suo brano: «La Rivoluzione, con la maiuscola e senza plurale, è quell’evento unico, doloroso come i travagli del parto (la metafora che torna continuamente nei suoi teorici) che media il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà, raffigurato questo, né può essere altrimenti, attraverso la semplice generica negazione delle istituzioni del passato (società senza stato, senza chiese, senza eserciti, senza delitti, senza magistratura, senza polizia…); che genera un avvenire in cui non ci sarà più nulla di simile alla vecchia storia; che, in ciò, è la risoluzione del mistero della storia».


È una pagina molto bella, anche dal punto di vista letterario, che conferma la frequentazione dei classici della Contro-Rivoluzione da parte di Del Noce. Dov’è, allora, il dissenso sottolineato ora da Borghesi? Il filosofo italiano pensa che le origini della Rivoluzione «con la maiuscola» «siano abbastanza recenti, non antecedenti a Rousseau»: quello che, nel pensiero della modernità, viene prima non è tanto rivoluzionario quanto ambiguo. Sullo sfondo c’è qui la polemica con l’opera di Maritain più apprezzata dagli ambienti contro-rivoluzionari, Tre riformatori, il cui sottotitolo - Lutero - Cartesio - Rousseau - indica già l’elemento da cui dissente Del Noce. In verità, il dissenso non riguarda tanto Lutero quanto Cartesio (René Descartes, 1596-1650). Principalmente nel suo libro Il problema dell’ateismo, ma anche altrove, Del Noce ha avvertito come suo compito quello di smontare pezzo per pezzo la rappresentazione comune di Cartesio, da manuale scolastico ma anche da Tre riformatori di Maritain. In verità nel pensiero del filosofo francese coesistono secondo Del Noce spunti molto diversi: alcuni, certo, suscettibili di essere continuati in senso anticristiano, altri invece profondamente e sinceramente cristiani. Da questi ultimi partirebbe una versione cristiana della modernità che passa per alcuni aspetti del pensiero di Blaise Pascal (1623-1662), la cui contrapposizione a Cartesio sarebbe dunque esagerata (e lo sarebbe, talora, da Pascal stesso), e per il filosofo napoletano Giambattista Vico (1668-1744) per arrivare fino al beato Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855).


Del Noce si rende conto che questa catena storica è problematica, anzi non è condivida dalla storia della filosofia maggioritaria. Ma il filosofo italiano pensa che la storia della filosofia sia una vera scienza nel senso moderno del termine, le cui acquisizioni possono sempre essere rimesse in discussione da nuovi studi e documenti. E, per Borghesi, mentre i cattolici progressisti che hanno cercato di riabilitare la modernità si sono di solito avventurati sul terreno scivoloso della politica, Del Noce è invece l’unico pensatore che abbia indicato un aspetto positivo della modernità nella sua stessa essenza filosofica, a partire dalle sue radici in Cartesio. Del Noce sarebbe dunque all’interno della filosofica cattolica il pensatore per eccellenza della modernità.


Ma anche no, si potrebbe rispondere con un’espressione in voga. Per Del Noce, in effetti, ci sono due modernità: quella rivoluzionaria e quella cristiana. La visione contro-rivoluzionaria della storia, secondo il filosofo, giustamente critica la prima modernità ma secondo lui dimentica o sottovaluta la seconda, la linea che va da Cartesio a Vico e a Rosmini. Così facendo, si espone al rischio di adottare lo schema storico-filosofico dell’avversario laicista e di favorirne la vittoria.


La ricostruzione del pensiero di Del Noce da parte di Borghesi è sostanzialmente corretta, anche se si tratta di un pensiero con molteplici sfaccettature, e la rivalutazione di una modernità "buona" coesiste con la ferma denuncia della modernità "cattiva" di matrice illuminista e laicista. In tema di modernità le provocazioni di Del Noce sono certo importanti e precorrono quelle di autori contemporanei come la storica statunitense di origine tedesca Gertrude Himmelfarb, che in un certo senso va oltre Del Noce distinguendo una linea anticristiana e una compatibile con il cristianesimo anche nello stesso illuminismo. Il 12 maggio 2010 a Lisbona Benedetto XVI ha messo in luce il corretto atteggiamento nei confronti di queste provocazioni: «la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa [con il Concilio Vaticano II] la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita».


Personalmente ricordo, da studente universitario che frequentava Del Noce nelle sue case di Savigliano (Cuneo) e di Roma, di avere discusso molte volte con lui di questa problematica: ho imparato molte cose, ma sono anche rimasto fermo nella mia convinzione della verità di fondo della tesi contro-rivoluzionaria sulla storia moderna. Certo, Del Noce con le sue critiche ci ha obbligati a riflettere sulla distinzione fra una nozione cronologica e una ideologica di modernità. Non tutti coloro che sono vissuti e vivono nell’epoca moderna appartengono alla "modernità" come categoria ideologica. Occorre distinguere fra moderno e contemporaneo, e il fatto che Vico termini la sua vita in piena epoca dell’illuminismo non ne fa - benché si vada oggi sostenendo, ma infondatamente, anche il contrario - un illuminista. Ancora, Benedetto XVI invita come si è visto a distinguere nella modernità le domande in parte giuste e le risposte sbagliate, i veri problemi e le false soluzioni, le «istanze», di cui la Chiesa si è fatta carico nella loro parte migliore - ma «superandole» -, e gli «errori e vicoli senza uscita» in cui la linea prevalente della modernità ha fatto precipitare queste istanze, ultimamente travolgendo e negando quanto nel loro originario momento esigenziale potevano avere di ragionevole e di condivisibile.


Tuttavia, per quanto autori di scuola contro-rivoluzionaria abbiano parlato abbastanza male di Cartesio, e talora anche di Pascal e del beato Rosmini, non mi sembra che stia nella critica di questi autori l’essenziale dello schema contro-rivoluzionario. Il pensiero contro-rivoluzionario postula essenzialmente che la modernità come ideologia - che è cosa diversa dall’epoca moderna come semplice dato cronologico - abbia un orientamento nettamente prevalente di tipo laicista e anticristiano. Lo stesso Del Noce nelle sue analisi dell’ateismo moderno, del marxismo, del progressismo cattolico e del 1968 ha confermato questo postulato. Il fatto che nello scorrere della storia moderna si siano manifestati anche pensatori cristiani - così come sono apparsi, grazie a Dio, tanti santi - non modifica la conclusione secondo cui il carattere dominante - anche se non unico - della modernità è la deriva anticristiana e laicista.


La deriva non è "necessaria" di diritto, come pensa un certo tradizionalismo sedotto da visioni pagane oD orientali della storia come decadenza obbligatoria da un’età dell’oro originaria verso l’età oscura chiamata dai libri sacri induisti Kali Yuga, in cui tutti coloro che hanno la sventura di vivere in una determinata epoca sarebbero volenti o nolenti coinvolti. Questa prospettiva non solo non resiste alla critica dell'"antimoderno" proposta da Del Noce, ma nel suo nucleo profondo nega la libertà umana sottomettendola deterministicamente alla storia e ai suoi "cicli", così da rivelarsi incompatibile con il cristianesimo. Ma la scuola contro-rivoluzionaria non sostiene - certamente nelle sue articolazioni più mature, ma in realtà già nelle sue origini - la necessità di diritto di una deriva anticristiana della modernità. La constata di fatto leggendo la storia, dove la nobilissima resistenza di stili di pensiero alternativi non inficia la conclusione secondo cui la linea della modernità come ideologia si afferma come culturalmente, sociologicamente e politicamente dominante.


Alla scuola di Benedetto XVI penso che si debbano accogliere le domande della modernità, ma non accettare le risposte di un’ideologia che comporta il rifiuto della tradizione e l’idolatria del presente. In Portogallo nel 2010 il Papa ha appunto denunciato l’ideologia che «assolutizza il presente, staccandolo dal patrimonio culturale del passato» e quindi fatalmente finisce per presentarsi «senza l’intenzione di delineare un futuro». Considerare il presente la sola «fonte ispiratrice del senso della vita», il che è l’essenza della modernità come ideologia, porta a svalutare e attaccare la tradizione, che in Portogallo – e non solo – «ha dato origine a ciò che possiamo chiamare una "sapienza", cioè, un senso della vita e della storia di cui facevano parte un universo etico e un "ideale" da adempiere», strettamente legati all’idea di verità e all’identificazione di questa verità con Gesù Cristo. Dunque «si rivela drammatico il tentativo di trovare la verità al di fuori di Gesù Cristo»: un altro elemento costitutivo del dramma della modernità.

La critica di Del Noce - come mostra Borghesi - ha messo in crisi un "antimoderno" così fissato nella sua rigidità da diventare caricaturale. Ma il nucleo profondo del pensiero contro-rivoluzionario - cioè la denuncia della linea di fatto dominante nella modernità come ideologia del progresso e assolutizzazione del presente - a mio avviso resiste a tale critica, anzi ne esce rafforzata. Della linea ideologica, anti-tradizionale e relativista della modernità Del Noce era e rimane un critico rigoroso. Il suo dissenso dalla scuola contro-rivoluzionaria riguarda il carattere dominante di questa linea nel decorso del moderno, non la sua radicale inconciliabilità con la fede cattolica.




Sacerdote romagnolo eretico e scismatico in nome della Sola Scriptura


Il giornale online RomagnaNoi dà notizia del Parroco di Montecerignone in provincia di Pesaro-Urbino, al confine con Cesena, Luca De Pero, e della sua "matura decisione" di apostatare dalla Chiesa Cattolica della quale è anche ministro ordinato, verso la comunità protestante dei Battisti. E questo passo lo compie in nome della Scrittura, della Bibbia che finalmente ha scoperto. Dopo 6 anni di sacerdozio, presumibilmente preceduti da almeno altri 6 anni di preparazione, come mai Don Luca ha scoperto solo adesso la forza della Parola di Dio contenuta nella Sacra Scrittura? O gli è stata accuratamente celata in tanti anni di seminario e di studi teologici, o forse non si era accorto che anche i cattolici professano un sincero amore per la Bibbia e non serve lasciare la Chiesa di Dio per arricchirsi e arricchire gli altri dei tesori contenuti nella Scrittura. Il passaggio di un prete ad una comunione protestante non può che suscitare sgomento, non solo perplessità. Soprattutto quando - come nel caso presente - tale "passaggio" è stato pubblicamente annunciato dal pulpito al termine della Messa domenicale normalmente celebrata da chi, senza probabilmente rendersene conto, stava mettendo in atto un sacrilegio, non credendo più a ciò che continuava a celebrare!

Ed ecco alcune delle tante domande che vorrei rivolgere a Don Luca:
1) Cosa prova a pensare di aver per tanti anni partecipato e offerto quello che ora è tenuto a considerare "l'abominevole sacrificio della Messa"? E' davvero convinto che il corpo di Cristo che consacrava e adorava è solo pane?

2) Come riconcilia la sua venerazione per la Madre di Dio con la sua nuova fede? E se gli scappa un'Ave Maria come pensa reagiranno i nuovi correligionari?

3) Durante gli anni di sacerdozio è vissuto percependo le offerte per le preghiere e messe per defunti e per gli altri sacramenti che celebrava: non esistendo però il Purgatorio, nè altri sacramenti a parte il Battesimo e la Santa Cena (in certo modo), non gli parrebbe il caso di restituire almeno quelle offerte ricevute per sé, in modo da fare ammenda della sua creduloneria precedente e dell'inganno - certo non doloso - in cui ha indotto i suoi fedeli?


Il povero vescovo di Luca De Pero è mons. Luigi Negri, di San Marino e Montefeltro. Mons. Negri ha comunicato con tempestività e con grande chiarezza la sua posizione e i suoi sentimenti. Potete leggerli qui, sul sito diocesano.
Nelle righe vergate a proposito della situazione incresciosa, il vescovo parla apertamente di scandalo, e di pericolo di emulazione da parte dei fedeli. Parla di attacco alla dottrina della Chiesa e al cuore stesso della fede cattolica, perpetrato proprio da chi dovrebbe tutelare e predicare la purezza della fede.
Mons. Negri non tralascia di ricordare che ha già intrapreso tutte le iniziative canoniche necessarie in un caso come questo di eresia e scisma. Per chi si chiedesse che cosa significa, ricordiamo che:


1) Can. 751 - Vien detta eresia, l'ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa; apostasia, il ripudio totale della fede cristiana; scisma, il rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice o della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti.

2) L’eretico incorre nella scomunica latae sententiae fermo restando la rimozione dall’ufficio ecclesiastico per chi ha abbandonato pubblicamente la fede cattolica o la comunione con la Chiesa.
Il chierico può, inoltre, essere punito con:
— la proibizione o l’ingiunzione di dimorare in un determinato luogo o territorio;
— la privazione della potestà, dell’ufficio, dell’incarico, ecc.
Se lo richieda la prolungata contumacia o la gravità dello scandalo, possono essere aggiunte altre pene, non esclusa la dimissione dallo stato clericale.


Mentre preghiamo per la conversione e il ravvedimento del sacerdote Luca Pero, affidiamo al Signore anche i fedeli della sua ex parrocchia e il vescovo, evidentemente provato da questa situazione.
E ricordiamo: non serve lasciare la Chiesa per prendere in mano la Bibbia. La Chiesa senza la Bibbia è muta, la Bibbia senza la Chiesa è come una nave senza l'acqua su cui galleggia: non vi porta da nessuna parte.


La "chiesa battista di Cesena" fornisce anche un video da titolo: Luca De Pero - la conversione di un ex prete a Cristo Gesù.
Non intendo entrare in questioni di sincerità personale, che non discutiamo, ma faccio presente che sincerità non è sinonimo di Verità. Questo ex sacerdote sarà anche sinceramente convinto, ma allo stesso tempo è veramente fuori strada rispetto a ciò che non solo ha creduto, ma fino a ieri ha pure insegnato.




Testo preso da: http://www.cantualeantonianum.com/2011/08/sacerdote-romagnolo-eretico-e.html#ixzz1WcvuTCaV

http://www.cantualeantonianum.com

domenica 28 agosto 2011

La Verità è persona


Di Francesco Agnoli


Nell’ incontro tra Gesù e Pilato, quest’ultimo chiede: “Cosa è la verità?”. Gesù, non risponde. Non perché non lo sappia fare; non perché la Verità non esista; non perché ognuno si può fare la sua, e Pilato ha quindi il diritto di scegliere per sè; non perché il discorso sarebbe stato troppo impegnativo…

Semplicemente perché Pilato è accecato, dal potere, dalla volontà di ottenere plauso ed approvazione. Non è in grado di vederla, la Verità, anche se la ha davanti agli occhi, in carne ed ossa. Pensa ad altro, il suo cuore è distolto, sviato. Gesù, infatti, gli dice che “chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”: occorre essere tesi verso la verità, per ascoltarla davvero, per vederla, per sentirla. Altrimenti, non serve a nulla neppure averla davanti.

Lo vediamo ogni giorno, nella nostra vita: quante volte sappiamo ciò che è bene e ciò che è male, ma ciò non ci impedisce di fare il male. Lo vediamo, per fare un altro esempio, nel dibattito bioetico: non serve a nulla l’ecografia, la verità di ciò che è un embrione, un feto, una gravidanza. Chi non è dalla verità, cioè dalla sua parte prima che dalla propria, fingerà di non vedere, o inventerà filosofie di ogni tipo per negare che ciò che ha di fronte sia ciò che è. La sentiamo la voce dei farisei: “è solo un grumo”, oppure, i più sofisti: “non è persona, non è persona…”.

Per poter mandare persino a morte ciò che si è finto di non vedere, sappiamo inventare ogni menzogna, e alla fine si diventa persino convinti, alla lunga, che la menzogna sia la verità. Ebbene, l’incontro tra Pilato e Cristo è assai significativo perché ci porta al cuore del cristianesimo: la Verità non si è fatta discorso, libro, ma persona. La verità si vede, si tocca, si mangia: è Cristo stesso, “vir qui adest”, l’uomo che ti è davanti, o Pilato.

Tu dici di non scegliere, ma in realtà hai scelto: la sua condanna. Perché quando la Verità prende corpo davanti a noi, non scegliere è impossibile. Cristo è Verità, perché ci dice, non a parole, ma coi fatti (la morte in croce), che non ci salviamo da soli: ci ricorda la nostra dipendenza, il nostro essere creature. Una verità che ci urta e ci infastidisce, perché vorremmo essere assoluti. Cristo è la Verità perché rovescia l’ordine umano delle cose, la gerarchia dei valori mondani: “imparate da me che sono mite e umile di cuore”.

Ancora una volta non è una lezione di filosofia aristotelica sulla virtù, che ci fa: la mitezza e l’umiltà le vive. Il cristianesimo è per tutti: possiamo capire poco di filosofia, non amare le disquisizioni di ottimi moralisti, da Aristotele e san Alfonso, ma cosa sia giusto o sbagliato è evidente, nella persona di Cristo, nelle sue azioni. Cristo è la Verità perché non cerca il successo, non realizza un potere, ma inquieta il cuore degli apostoli, e li sfida: se non volete seguirmi, andatevene pure voi.

E’ la Verità, incarnata, perché vivendo ci insegna a vivere: ha avuto un padre e una madre, come noi; ha sofferto, come noi. E’ la Verità perché ci indica che la morte è stata sconfitta, che c’è una Vita vera, più vera ancora di quella su questa terra. Come si fa ad obbedire a questa Verità? Amandola. E come si sostanzia questo amore? Nel rispetto, profondo, sentito, dei comandamenti: “Da questo sappiamo d'averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: "Lo conosco" e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui. Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato”.

Niente di astratto, dunque, niente di esoterico; nessun sapere particolare è chiesto al cristiano: solo la sequela di Cristo. Seguirlo significa, molto concretamente, osservare i suoi comandamenti, ciò che dobbiamo a lui e, concretissimamente, al nostro prossimo. Amare la Verità non è dunque studiare, o sapere qualcosa di più di altri, ma è tributare a Dio il suo culto; è rispettare il padre e la madre; è, persino, “non desiderare la roba d’altri”.

C’è un prezioso libretto, appena edito da Lindau, “Cosa è la verità?”, che può aiutarci. E’ il confronto tra un buddista, Fabrice Midal, e un cattolico, Fabrice Hadjadj. Il discorso del buddista tocca temi quali la verità, l’amore: vola alto, tra arte, poesia, immagini. Ma non è chiaro, dopo averlo letto, quale sia la definizione di queste nobili, ma vaghe, parole. Nel discorso di Hadjadj, invece, ci sono continui rimandi alla realtà: ad un alunno svogliato, a sua moglie, ai suoi figli, persino alla suocera. Midal è come Budda. Seduto, impassibile, solo, mani in posa e sguardo altrove. Hadjadj, invece, ragiona a partire da un Dio incarnato, che lavora in bottega, insegna, muore sulla croce. Una Verità con cui confrontarsi.

Per questo, in un passo illuminante, se la prende con la “falsa mistica che pretende di abolire l’Io”, “la mediazione e il rapporto concreto con il prossimo” e cita Teresa d’Avila: “La prova che avete fatto l’orazione bene è che, terminata l’orazione, avete una maggior carità fraterna”. Chi è dalla Verità, infatti, cerca di conformarvisi e da vero, diventa, inevitabilmente, per quanto possibile ad un uomo, buono.



Il Foglio, 25 agosto 2011

venerdì 26 agosto 2011

Lectio magistralis del Card. Ranjith sull' Ufficio Divino e la spiritualità sacerdotale





Pubblichiamo la traduzione della lectio magistralis tenuta dal Card. Ranjith durante il convegno liturgico dell'Arcidiocesi di Colombo, il 21 agosto 2011



del Card. Albert Malcolm Ranjith


La Costituzione sulla Sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium” del Concilio Ecumenico Vaticano II, presenta l’Ufficio Divino con le seguenti parole:

“Cristo Gesù, il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell’inno che viene eternamente cantato nelle dimore celesti. Egli unisce a sé tutta l’umanità e se l’associa nell’elevare questo divino cantico di lode. Cristo continua ad esercitare questa funzione sacerdotale per mezzo della sua Chiesa, che loda il Signore incessantemente e intercede per la salvezza del mondo non solo con la celebrazione dell’Eucaristia, ma anche in altri modi, specialmente recitando l’ufficio divino” (SC n. 83).

Questa definizione dell’Ufficio Divino è una delle più efficaci ed eminenti per descrivere come la Chiesa si unisca nell’eterno cantico di lode reso a Dio dal Coro celeste con a capo Cristo. In effetti, tutta la Liturgia non è altro che la nostra partecipazione al Coro celeste di lode, di ringraziamento e di invocazione alla somma santità di Dio – “Santo, Santo, Santo” cantavano gli angeli nella visione di Isaia (Is 6).

Il Libro dell’Apocalisse ci rivela la vera natura di quella celeste liturgia messianica incentrata attorno alla figura dell’Agnello immolato, cioè Cristo. Secondo il Libro, San Giovanni ha una visione epifanica o manifestazione (cfr. Ap 5,6) del Re seduto nella maestà del suo trono, l’agnello che è stato immolato (cfr. Ap 5,6), la corte processionale che lo accompagna (cfr. Ap 14, 1-5) e la celebrazione del suo banchetto di nozze (cfr. Ap 19,7), l’altare del sacrificio (cfr. Ap 6,9) incensato dagli Angeli (cfr. Ap 8,3), i sette candelieri d’oro (cfr. Ap 1,12) e l’intronizzazione dell’Agnello (cfr. Ap 5).

Per questo, la preghiera della Chiesa e la celebrazione dei sacramenti sono sempre stati considerati come parte di quella liturgia celeste con a capo Cristo e che viene celebrata in eterno. La Liturgia delle Ore ne è perciò parte integrante. Attraverso di essa, la Chiesa si collega quasi misticamente con il Coro celeste che ha a capo colui che è il Santo, santificando la vita e il tempo e innalzandoli a livello del sacro e dell’eterno.

Papa Benedetto XVI, parlando della Liturgia delle Ore e della vita monastica, nella quale la Chiesa si è formata con l’eredità di tale preghiera, dichiara: “la liturgia non è qualcosa creata dai monaci. Esisteva già prima di loro. Ma è l’ingresso nella Liturgia dei Cieli che viene sempre celebrata. La liturgia terrena è liturgia solo perché si unisce a ciò che è già in corso, la realtà superiore … cantare con questo coro (celeste) è l’essenza della loro chiamata: “davanti agli angeli, canterò le tue lodi” (Un canto nuovo per il Signore – Crossroad book, New York 1996, p.166).

Associando le nostre labbra e i nostri cuori a quella Divina Liturgia e facendolo nelle diverse ore del giorno, noi santifichiamo il tempo e tutta l’attività umana. Le nostre voci, attraverso l’Ufficio, portano l’intero universo al cospetto di Dio, inserendo il nostro tempo nell’eterno “adesso” di Dio. La preghiera perciò in unione con il Coro celeste, fatta nelle diverse ore del giorno, santifica la giornata e la consacra a Dio. Secondo Papa Benedetto, “la liturgia è il mezzo con cui il tempo terrestre si inserisce nel tempo di Gesù Cristo e nel suo presente” (Lo spirito della Liturgia, Ignatius Press, San Francisco, 2000, p.60).

Quando la Chiesa prega le Ore, prega con Cristo sommo Sacerdote nel tempo eterno, rientra perciò nella nostra vita colui che ci viene incontro e santifica misticamente il nostro tempo e le nostre azioni.

San Giovanni Maria Vianney lo esprimeva con altre parole: “la preghiera nient’altro è che l’unione con Dio. Quando qualcuno ha il cuore puro e unito a Dio, è preso da una certa soavità e dolcezza che inebria, è purificato da una luce che si diffonde attorno a lui misteriosamente. In questa unione intima, Dio e l’anima sono come due pezzi di cera fusi insieme, che nessuno può più separare. … Il vostro cuore è piccolo, ma la preghiera lo dilata e lo rende capace di amare Dio” (Il piccolo Catechismo del Curato d’Ars, Tan Books, Illinois 1987, p.29).

Dopo aver presentato in sintesi la preghiera e in particolare la Liturgia delle Ore, vorrei ora rivisitare brevemente con voi le pagine di storia ecclesiale, soprattutto quelle che riguardano l’origine e lo sviluppo della Liturgia delle Ore fino alla sua forma attuale.


Origine e sviluppo della Liturgia delle Ore



Gesù vero uomo di preghiera

Egli veniva da un popolo che sapeva come pregare. Mentre nel mondo ellenistico vi era una crisi di preghiera, poiché spesso si tramutava in magia e consisteva di incantesimi cantilenati per guadagnarsi il favore degli dèi – gli ebrei pregavano sul serio.

Le Sacre Scritture sono piene di vari tipi di preghiera ebraica (ad es, Gen 32, 9-12), il Salterio è una grande collezione di tale preghiera. Le Scritture menzionano per Israele tre ore di preghiera: all’alzata, al momento di coricarsi (Dt 11,19) e a metà pomeriggio (Dt 6,11). Questa era una pratica accettata al tempo di Gesù. (..)

In alcuni esempi, essi hanno verbalmente citato queste preghiere (Mc 14,36; 15,34; Mt 11,2) menzionate dagli evangelisti (Mc 1,35; 6,46; Mt 14,23; Lc 3,21; 5,16; 6,12; 9,18; 9,28; 22,35; Lc 23,34; 23,46; Gv 11,41; 12,27) e ciò mostra che prima di prendere importanti decisioni, Gesù trascorreva lunghe ore in preghiera (la scelta dei dodici, Mc 3,13; la trasfigurazione, Mc 9,12; il Getsemani, Mc 14,32).

Due preghiere di Gesù hanno avuto un grande impatto sulla cristianità in generale. La Preghiera del Signore (Lc 11,2-4; Mt 6,9-13) e la preghiera sacerdotale (Gv 17), che abbiamo ricevuto integralmente. Ed è importante notare che egli ha coerentemente sollecitato i suoi discepoli a pregare (come mezzo per la vigilanza, Mt 26,41, Lc 21,36; per la chiamata degli operai per la sua messe, Mt 9,38; per tenersi concentrati e non scoraggiarsi, Lc 18,1), insegnando loro come attuare ciò (in spirito di umiltà, Lc 18,9-14; nella perseveranza e confidando nella bontà del Padre, Lc 11,5-13; 18, 1-8, ecc. ).


Gli Apostoli hanno seguito fedelmente il suo esempio


Gli apostoli pregavano in ogni momento e chiedevano alla comunità di fare altrettanto (cfr. Ef 6,18; Col 4,2; 1Tes 5,16-18). La comunità seguiva fedelmente le istruzioni pregando “ogni giorno” (cfr. At 2,46) e “continuamente” (cfr. 1Tes 1,2) quando erano soli (cfr. At 10.9), quando si radunavano insieme (cfr. At 2,46) o quando si separavano (cfr. At 20, 36-38; 21,5). Pregavano in casa (cfr. At 2,46; 10,9; 12,15), nel tempio (cfr. At 2,46; 3,1) o in sinagoga (At 13, 14-15). Le preghiere comprendevano lode e benedizione, ringraziamento, confessioni di fede e petizioni di diversi generi, usando spesso salmi biblici, cantici, benedizioni ed inni. Erano perciò di una grande varietà, talvolta personali e a volte in comune o in assemblea. Dobbiamo anche ricordare che fino all’anno 70 D.C. quando Gerusalemme e il suo tempio vennero totalmente distrutti, essi seguivano pure le tradizioni ebraiche di preghiera.


La Chiesa sub-apostolica

Già nella Didachè, che è un testo contemporaneo ai Vangeli, si chiedeva ai cristiani di pregare tre volte al giorno, sostituendo lo shemà Israel (recitazione del Credo ebraico) con il Pater Noster e la dossologia “perché tua è la potenza e la gloria nei secoli dei secoli”. All’inizio del II secolo, una lettera di S. Ignazio d’Antiochia ai cristiani di Magnesia, parla della preghiera in tempi fissi.

E nel III secolo, i Padri della Chiesa quali Tertulliano, Ippolito, Clemente di Alessandria, Origene e Cipriano di Cartagine sollecitano la preghiera in diversi momenti della giornata. Queste indicazioni ci mostrano la tendenza a tempi regolari di preghiera. Con la Tradizione Apostolica e nord-africana, sembra essersi stabilita una completa serie di ore di preghiera:

- All’alzata (catechesi comune nella Trad. Ap.)
- Ora terza, sesta e nona
- Nel coricarsi
- Durante la notte (Trad. Ap.: a mezzanotte e al canto del gallo)

Non è chiaro se tale struttura di tempi si intendesse per la preghiera comune o personale. Quello che possiamo osservare, è che i cristiani pregavano e le ore di preghiera erano probabilmente determinate da una teologia di partecipazione al Mistero pasquale di Cristo.


Il periodo formativo – gli Uffici monastici e della Cattedrale

Nel IV secolo ci fu un’evoluzione, per cui le ore di preghiera vennero a identificarsi come distintamente comunitarie, con la predominanza infine di due forme di preghiera: l’ufficio della cattedrale, che era la preghiera della comunità ecclesiale radunata intorno al Vescovo e ai sacerdoti, e l’ufficio monastico, che era la preghiera degli asceti e degli altri monaci, nella nascente tradizione monastica della Chiesa.

Nell’ufficio della cattedrale, il mattutino e i vespri erano le due ore privilegiate della preghiera quotidiana, e consistevano di elementi popolari quali una selezione di salmi e cantici, scelti secondo la loro convenienza per l’ora ed eseguiti mediante la partecipazione del popolo con responsori ed antifone, l’uso cerimoniale della luce, incenso, processioni e le abituali preghiere di intercessione per le necessità. Tale ufficio delle chiese secolari erano popolari mediante l’uso dei simboli e delle cerimonie (luce, incenso, processioni, ecc.), dei canti (responsori, antifone, inni) e varietà di ministri (vescovi, sacerdoti, diaconi, lettori, salmisti, ecc.). La salmodia non era una ‘recitatio continua’, ma scelta e limitata.

La situazione dei monasteri era diversa. Dal momento che l’ufficio monastico era riservato alla comunità, doveva essere d’aiuto alla preghiera meditativa da praticarsi in comune e si recitava il salterio per intero con la ‘recitatio continua’. I monaci dovevano infatti recitare tutto il salterio in un dato periodo di tempo. Avevano più ore di ufficio – un ufficio notturno (la prima) e sette uffici giornalieri. Questi erano i mattutini, le lodi e i vespri, la terza, la sesta e la nona, e infine la compieta. Le ore subirono diverse modifiche in questo periodo. Fu San Benedetto da Norcia (480-547) a dare all’ufficio divino la sua forma definitiva, che rimase più o meno la stessa fino al 1870.


Il tardo Medio Evo

Dopo la decadenza morale del X secolo e la riforma gregoriana, ci fu una tendenza verso una celebrazione più degna della Liturgia e la ricerca da parte dei chierici di uno stile di vita più regolare. Era il tempo in cui venivano formandosi i canonici regolari, i quali si assumevano il compito di adempiere agli obblighi di preghiera quotidiana della Chiesa. Ma essendo spesso piccole comunità, non erano in grado di raccogliere tutti i testi liturgici per la preghiera usati dai monasteri ben più grandi.

Sorse così l’esigenza di un Ordo che indicasse i testi da cantare con i loro incipit per ogni giorno ed ogni ora liturgica. Fu realizzato con il titolo “Breviarium sive ordo officiorum per totam anni decursionem”. Si gettarono così le fondamenta per il Breviario. Un secondo fattore che contribuì a comporre il Breviario fu la riorganizzazione della Cappella papale. Essa era attigua all’antica basilica costantiniana sul colle Laterano. La Cappella consisteva nella Curia del Papa, la cui liturgia certamente ebbe un’influenza sullo sviluppo della preghiera ecclesiale. La Liturgia delle Ore della cappella papale era una combinazione degli stili di preghiera monastica e di cattedrale, e diventava un modello per gli altri.

La perspicacia dell’imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo Magno, per assicurare un senso di uniformità all’interno del suo regno, e il suo convincimento che ciò si potesse attuare mediante un processo di conformazione alla prassi liturgica della Chiesa e che il centro dell’unità dell’impero fosse Roma, fu una delle cause principali per la romanizzazione della liturgia nell’Impero e per lo sviluppo di una forma più organizzata della Liturgia delle Ore nella Chiesa d’Occidente.

Nel 1215, Papa Innocenzo III volle una revisione dell’ufficio e il risultato fu il “Breviarium Secundum Usum Romanae Curiae”, che fu successivamente rivisto da Papa Onorio III, adottato dai Frati Minori e distribuito in accordo con la seconda regola di San Francesco d’Assisi. A causa della crescente mobilità dei chierici, la richiesta per un’ulteriore versione abbreviata della Liturgia delle Ore portò alla realizzazione di un Breviario da parte del Cardinal Quinones nel 1535.


Il Concilio di Trento e i tempi moderni

Il Breviario di Quinones fu dopo qualche tempo soppresso e sostituito dal Breviario tridentino di Papa Pio V nel 1568. Costituiva il frutto delle riforme liturgiche tridentine e, nei suoi elementi principali, mantenne il classico ufficio monastico delle antiche basiliche romane. I mattutini della domenica consistevano di diciotto salmi e dodici letture; i mattutini feriali erano di dodici salmi e tre letture, mentre le lodi avevano sei salmi e un cantico dell’Antico Testamento. Perfino la compieta conservò i suoi quattro salmi. Si mantennero inni, antifone e responsori, il tutto fissato in un sistema di rubriche. Il santorale fu drasticamente ridotto.

L’invenzione della stampa permise finalmente alla Chiesa d’Occidente di avere il proprio libro ufficiale di preghiera. Si aveva la sensazione, tuttavia, che anche questo breviario richiedesse una riforma. Infatti, seguì un processo semplificato di riforme compiuto dai Papi successivi, in particolare da Pio X. Venne ridotto, ad esempio, il numero dei salmi e delle letture per la domenica e i mattutini feriali.

La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Vaticano II esaminò il breviario; nel IV capitolo troviamo la formulazione di alcuni principi per la riforma definitiva del testo. Il Concilio stabilì che:

- Lodi e Vespri siano i due uffici più importanti della giornata e da celebrarsi come tali;
- L’ora nota come 'mattutino' sia adattata in modo da recitarla a qualsiasi ora del giorno, si abbiano meno salmi e letture più lunghe;
- L’ora 'prima' sia soppressa e delle altre ore minori (terza, sesta, nona) se ne dica almeno una;
- la compieta sia la preghiera al termine della giornata e conseguentemente rivista;
- Il salterio sia distribuito su un periodo più lungo di una settimana;
- Si migliori l’impostazione delle letture bibliche e i brani da leggere siano più lunghi. Si proceda a una migliore selezione delle letture patristiche, e gli atti dei martiri e le vite dei santi siano in accordo con la verità storica;
- Gli inni vengano riportati alla loro forma originaria (non-classica) e la sezione estesa;
- Gli uffici siano celebrati alla giusta ora del giorno (Lodi al mattino e Vespri alla sera) e i parroci esortati a far sì che i vespri siano celebrati alla domenica con il popolo.

La revisione effettuata e pubblicata in latino nell’anno 1971, fu quasi integralmente fedele alle succitate raccomandazioni del Concilio. La natura di questo breviario è di essere fondamentalmente semplice, con più Sacra Scrittura attraverso una “lectio continua” di una larga porzione della Bibbia; quasi tutti i salmi del salterio si recitano in un ciclo di quattro settimane, ed il breviario è basato sul nuovo calendario del 1969 che mette l’accento sulle feste cristologiche e sulla liturgia del ciclo delle domeniche. Il santorale è stato semplificato.

Nel lungo cammino dello sviluppo della preghiera liturgica ecclesiale è da sottolineare il movimento silenzioso ma sicuro da uno stato alquanto amorfo e disorganizzato verso qualcosa di più uniforme ma meglio organizzato e teologico.

In tale processo hanno contribuito elementi sia interni che esterni, ma è evidente che la Chiesa ha sempre cercato le vie e i modi per rimanere fedele al comando del Signore di vegliare sempre e pregare, e gli elementi centrali della sua preghiera sono rimasti più o meno gli stessi, in ogni tempo, specialmente nell’uso del salterio ebraico, i testi della Bibbia nelle letture del Vecchio e Nuovo Testamento, gl’inni, i cantici e le preghiere, alcune di queste così antiche quanto la Chiesa stessa.


Considerazioni teologiche


Preghiera celeste

L’Istruzione Generale della Liturgia delle Ore (IGLO) indica chiaramente ciò che abbiamo già illustrato sopra sulla dimensione cristocentrica e trascendente della preghiera liturgica, quando dichiara che “la preghiera diretta a Dio deve essere connessa con Cristo, Signore di tutti gli uomini, unico Mediatore e il solo per cui abbiamo accesso a Dio … Si stabilisce un rapporto intimo tra la preghiera di Cristo e la preghiera di tutto il genere umano” (IGLO n. 6).

Inoltre, la centralità di Cristo nella preghiera ecclesiale è collegata strettamente con la teologia della Chiesa quale Corpo di Cristo, per cui partecipa intimamente allo stesso sacerdozio di Cristo. Afferma l’Istruzione: “quando pregando parliamo con Dio, non per questo separiamo il Figlio dal Padre e quando il Corpo del Figlio prega non separa da sé il proprio Capo, ma è lui stesso unico salvatore del suo Corpo, il Signore nostro Gesù Cristo Figlio di Dio, che prega per noi, prega in noi ed è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo” (n. 7).

Infatti, la preghiera ecclesiale è in spirito, poiché è lo Spirito Santo che spira in noi lo spirito della figliolanza divina che ci fa gridare “ Abbà, Padre” (Rom 8,4). Per questo, la Chiesa dirige sempre le sue preghiere al Padre attraverso il Figlio e nell’unità dello Spirito Santo.

La grandiosa liturgia descritta nel libro dell’Apocalisse e il conseguente invito a tutti noi di unirci a Cristo con e mediante la nostra assimilazione nella preghiera, proietta già il nostro essere nell’eternità e alle altezze della perfezione spirituale.

Siamo invitati a rivivere qui sulla terra il “già” e “non ancora” della salvezza in una sorta di pregustazione del Cielo nella preghiera. Guardare alla preghiera della Chiesa in questa prospettiva profondamente escatologica, ci aiuta a liberare la preghiera stessa dall’essere monotona, impersonale o inefficace.

Non è soltanto una ripetizione di formule o di risposte ma efficace preghiera che può elevarci alle più alte vette di estasi spirituale e trasformazione.

L’episodio del Monte Tabor è una sorta di riflessione su ciò che la preghiera ecclesiale può realmente significare. Secondo Luca, Gesù prese Pietro, Giovanni e Giacomo su un alto monte per pregare, e mentre egli pregava, il suo volto si trasfigurò. L’episodio permise agli apostoli di gettare uno sguardo sulla gloria del Cielo, tanto da sentire perfino la voce di Dio stesso. Era un contesto di preghiera e fu tale la gioia di sperimentare la bellezza celeste che Pietro desiderava restare là.

Se noi ci accostiamo alla preghiera al modo di Pietro e degli altri due apostoli, potremmo renderla il momento più felice e più gratificante della giornata, poiché è Gesù che prega per noi, con noi ed in noi. Ecco perché il Santo Curato d’Ars definiva la preghiera “una pregustazione del Cielo, una cascata di Paradiso” (Il piccolo Catechismo, p.29).


Il tempo santificato

In secondo luogo, l’Istruzione generale specifica chiaramente che la finalità dell’ufficio è anche “la santificazione del giorno e di tutta l’attività umana” (IGLO n. 11), per cui nella revisione del breviario “il suo ordinamento è stato rinnovato in modo da far corrispondere, per quanto era possibile, la celebrazione delle Ore al loro vero tempo” (ibid).

Ho già detto sopra che fin dal tempo dell’antico Israele c’era la convinzione che il tempo appartenesse a Dio e che dovesse perciò essere santificato dalla preghiera. La tradizione ebraica di pregare tre volte al giorno si evolse in una tradizione fissa al tempo in cui fu scritto il libro di Daniele (Dan 6,13) e si sviluppò ancor più nella tradizione cristiana e nella teologia fondamentale.

Alla base vi era la convinzione che ogni tempo deve essere santificato collegandosi intimamente al tempo eterno di Cristo che è l’alfa e l’omega. Con la sua morte e risurrezione, Gesù ha definitivamente spezzato la limitatezza del tempo umano, innalzandolo all’incessante e continuo “adesso” di Dio.

Il suo sacrificio “una volta per tutte” ha reso possibile che l’”allora” sia collegata all’”adesso” e al “non ancora”, di modo che il sole nascente, Gesù, è già nell’eterno “adesso”. La nostra preghiera ci inserisce già in quella atemporalità di Cristo, purificando e promuovendo il tempo e ogni attività umana in Lui.

Pertanto, la preghiera della Chiesa - che altro non è che la preghiera di Cristo eterno Figlio, via, verità e vita - santifica ed eleva al livello dell'eternità il tempo stesso ed ogni attività umana.


Natura ecclesiale


In terzo luogo, la Liturgia delle Ore è la preghiera ufficiale della Chiesa. E’ profondamente ecclesiale. Distinta perciò dalla preghiera personale. Anche se recitata da un individuo, resta la preghiera della Chiesa.

Come insegna l’Istruzione Generale, è preghiera comune, in quanto “chi recita i salmi nella Liturgia delle Ore, li recita non tanto a nome proprio quanto a nome di tutto il Corpo di Cristo, anzi nella persona di Cristo stesso. Se ciascuno tiene presente questa dottrina, svaniscono le difficoltà che chi salmeggia potrebbe avvertire per la differenza del suo stato d’animo da quello espresso nel salmo” (IGLO n. 108).

E pregare insieme alla Chiesa significa pure pregare con tutta la comunione dei santi, la Chiesa militante, purgante e vittoriosa. Non è personale o locale, ma universale e perfino metacosmica, in quanto abbraccia coloro che professano Cristo sulla terra, le anime del purgatorio e quelle del Cielo.

La Chiesa peregrinante perciò non è un’amorfa riunione di persone o soltanto un’assemblea. E’ il Corpo di Cristo, la cui vita interiore è profondamente penetrata e animata dalla grazia vivificante e salvifica di Cristo. Già San Paolo configurava la Chiesa in questo modo: “Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra” (1Cor 12,27).

La Chiesa, saldamente unita a Cristo, diventa perciò la manifestazione terrena della Gerusalemme celeste di cui San Giovanni ha avuto una pregustazione, dicendo: “E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Ap 21, 1-2).

La preghiera liturgica, con la quale intendo la Liturgia delle Ore, è la conversazione sponsale d’amore tra la Chiesa e Cristo. E come ancora insegna l’Istruzione Generale: “coloro che partecipano alla Liturgia delle Ore danno incremento al popolo di Dio in virtù di una misteriosa fecondità apostolica” (IGLO n. 18). L’Istruzione sviluppa il concetto, affermando: “A loro volta, le letture e le preghiere della Liturgia delle Ore costituiscono una genuina fonte di vita cristiana. Tale vita si nutre alla mensa della Sacra Scrittura e con le parole dei santi, ma è rinvigorita dalla preghiera. Solo il Signore infatti, senza il quale non possiamo far nulla (cfr. Gv 15,5), da noi pregato, può dare efficacia e sviluppo alle nostre opere” (ibid).


Sensibilità pastorale

Si applica in maniera eminente alla vita dei sacerdoti e dei consacrati nella Chiesa, essendo la Liturgia delle Ore uno dei loro principali doveri (Can 246,2; 276,3; 663,2). E’ importante notare che la fedeltà alla preghiera e uno spirito di profonda comunione con il Signore, serve a creare e rafforzare in noi un più forte senso di sensibilità pastorale. Ci aiuta ad essere più vicini alla gente. E’ quanto diceva San Giovanni Maria Vianney, quando esclamava: “Figliuoli miei, il vostro cuore è piccolo, ma la preghiera lo dilata” (op.cit., p. 29).

Quando ci uniamo a Cristo in preghiera, in quella preghiera celeste, noi cresciamo nel cuore di Cristo e acquistiamo una capacità simile di amore pastorale per la nostra gente: in qualche modo, Cristo ci assimila a sé e noi cominciamo ad amare e servire i nostri fratelli e sorelle come Lui. La preghiera ci fonde in Cristo.

Il Papa Benedetto XVI in un discorso a un’assemblea di sacerdoti e diaconi permanenti della Baviera tenuto il 14 settembre 2006, ha dichiarato: “Cerchiamo di recitare la Liturgia delle Ore come vera preghiera in comunione con l’Israele dell’Antica e della Nuova Alleanza, preghiera in comunione con gli oranti di tutti i secoli, preghiera in comunione con Gesù Cristo, preghiera che sale dall’Io più profondo, dal soggetto più profondo di queste preghiere. E pregando così, coinvolgiamo in questa preghiera anche gli altri uomini che per questo non hanno il tempo o l’energia o la capacità. Noi stessi, come persone oranti, preghiamo in rappresentanza degli altri, svolgendo perciò un ministero pastorale di primo grado. Questo non è un ritirarsi nel privato, ma è una priorità pastorale nella
quale noi stessi diventiamo nuovamente sacerdoti, veniamo nuovamente colmati di Cristo”.

Il punto importante qui è che la preghiera davvero non ci allontana dal mondo per entrare in una sorta di limbo privato. Ci inserisce anzi a un livello più profondo nel mondo, dato che, uniti con la preghiera a Cristo, lo santifichiamo e lo purifichiamo dalle macchie di peccato e di morte.

In questo senso, la preghiera liturgica è diversa dalla preghiera privata. La nostra sollecitudine pastorale per la libertà di tutti i nostri fratelli e sorelle e per la loro salvezza in Cristo, crescerà in proporzione. La nostra fatica si trasforma in un’offerta d’amore piuttosto che essere un peso da cui liberarci. Dona forza spirituale a
ciò che facciamo e lo rende fruttuoso. E’ la logica di Cristo, quando afferma: “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto” (Gv 15,5).


Eucaristia e preghiera


Un altro aspetto importante presentatoci dall’Istruzione generale è che la Liturgia delle Ore è l’estensione alle diverse ore del giorno della grazia salvifica che si effonde dalla celebrazione del mistero dell’Eucaristia: “la Liturgia delle Ore estende alle diverse ore del giorno le prerogative del mistero eucaristico: la lode e il rendimento di grazie, la memoria dei misteri della salvezza, le suppliche e la pregustazione della gloria celeste” (IGLO n. 12).

La trasformazione del pane e del vino nel santissimo Corpo e Sangue di Cristo e la riattualizzazione degli eventi del Calvario, costituiscono il momento culminante nella giornata di ogni sacerdote, religioso o persona consacrata, e perciò di ogni discepolo del Signore. E’ l’evento eucaristico che dà dignità e significato alla nostra preghiera, poiché i cori celesti cantano e lodano Dio nella persona di Cristo, l’Agnello immolato.

Soprattutto per noi preti, l’Eucaristia costituisce il momento culminante del nostro ministero quotidiano. Il sacerdozio non si può mai configurare senza l’Eucaristia. Essa dà senso alla nostra giornata, al nostro impegno e zelo per la salvezza delle anime e alla nostra stessa santità.

E’ dunque essenziale che la santificazione della giornata per i sacerdoti si consideri in rapporto all’Eucaristia quotidiana, e che la nostra Liturgia delle Ore sia una continuazione di quello spirito di stretta comunione con il Signore raggiunta nell’Eucaristia.

Ogni Eucaristia animerà la nostra preghiera e la preghiera a sua volta ci preparerà a quel momento privilegiato di totale assimilazione a Cristo, l’eterno Sommo Sacerdote. Avvenne così anche per Cristo, già con il drammatico momento della sua preghiera nel Giardino degli Ulivi, egli si preparava per il Calvario. Getsemani – Calvario sono stati parte integrante dell’Eucaristia per Lui. E così è per noi sacerdoti.


Servizio di amore

Tra gli aspetti dell’ufficio fin qui non riferiti, vi sono i seguenti: la Liturgia delle Ore ha acquistato una propria struttura con l’invocazione della Trinità, la recita dei salmi, gl’inni, i cantici, le letture scritturistiche, o altre letture nel caso dei mattutini, preghiere dei fedeli, Benedictus, Magnificat, o il Cantico di Simeone, il Pater Noster, la preghiera conclusiva e il congedo.

Dichiara l’Istruzione generale: “Le Lodi, come preghiera del mattino, e i Vespri, come preghiera della sera, sono il duplice cardine dell’Ufficio quotidiano” (IGLO n. 37). Benché il nuovo Codice non lo menzioni esplicitamente, è fatto obbligo ai sacerdoti ed altri di celebrare le Ore di preghiera, secondo la pratica ecclesiale.

La legge liturgica lo prescrive (SC n. 4). La Sacrosanctum Concilium, la Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II, decreta: “i chierici non obbligati al coro, se hanno ricevuto gli ordini maggiori, devono, ogni giorno, in comune o da soli, recitare tutto l’Ufficio, a norma dell’articolo 89”. (SC n. 96).

Il termine “officium” connota un compito da adempiere: una responsabilità. Anche l’Ufficio delle Letture è un dovere per i sacerdoti, come pure almeno una delle tre ore minori e la compieta. Il carattere obbligatorio della preghiera liturgica dei preti, comunque, non si basa tanto su motivi di legge ecclesiale, quanto sull’invito di Cristo stesso ai suoi discepoli “venite e vedete” (Gv 1,39) e “vegliate e pregate” (Mt 26,41).

In effetti, per Papa Benedetto la preghiera è lavoro pastorale. Afferma il Papa: “il tempo che dedichiamo alla preghiera non è un tempo tolto alle nostre responsabilità pastorali, è anzi ‘lavoro’ pastorale; ed è anche preghiera per gli altri. Nel Comune dei Pastori, si legge quale caratteristica tipica del buon pastore, la qualità “multum oravit pro fratribus”. Ciò è proprio del pastore, essere uomo di preghiera, presentarsi davanti a Dio pregando per gli altri, ed anche sostituirsi agli altri che non sanno pregare, non vogliono pregare o non hanno il tempo di pregare. E’ ovvio perciò che questo dialogo con Dio è lavoro pastorale” (Da un discorso a una riunione del clero nella cattedrale di Varsavia, il 25 maggio 2006).

Ed infine, occorre affermare che la preghiera, e specificamente la preghiera della Chiesa, aiuta ogni prete a crescere nel pieno potenziale della sua vocazione profondamente nobile. Lo aiuta non solo a combattere per scacciare il male dal mondo, dal momento che il Signore ha assicurato che “questa razza di demoni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno” (Mt 17,21), ma anche per superare le proprie inclinazioni cattive (“vegliate e pregate per non cadere in tentazione” Mt 26,41). Lo tiene impegnato al proprio lavoro.

Ha affermato Papa Giovanni Paolo II: “la preghiera è essenziale per conservare la sensibilità pastorale verso tutto ciò che viene dallo Spirito” (Lettera di Papa Giovanni Paolo II ai sacerdoti, Giovedì Santo 1987, n.12). Aiuta noi preti anche ad essere forti e rafforzati da Dio di fronte ai dolori e alle sofferenze del nostro ministero, come lo fu Gesù che trasformava in preghiera i suoi momenti più drammatici di decisione nel Giardino degli Ulivi: “entrato nella lotta, pregava più intensamente” (Lc 22,44).


La preghiera ci lega gli uni agli altri

La preghiera ci lega insieme con la Chiesa, specialmente la preghiera liturgica come la Liturgia delle Ore. Ci apre gli orizzonti per abbracciare la creazione stessa fino alle realtà metacosmiche che toccano la stessa eternità di Dio.

Gesù ci ha aperto la via a Dio che era considerato irraggiungibile per la filosofia greca. E' in Lui che noi sperimentiamo l’Amore di Dio. La Chiesa è la vera presenza di Cristo nella storia e così, pregando con Lui e in Lui, possiamo sperimentare continuamente la bontà e la misericordia di Dio. Ciò allarga i nostri orizzonti.

Afferma Papa Benedetto: “Imparo a pregare pregando con gli altri, con mia madre ad esempio, seguendo le sue parole, che gradualmente si riempiono di significato per me nella misura che parlo, vivo e soffro in comunione con lei … ecco perché è impossibile iniziare un dialogo solo con Cristo, tagliando fuori la Chiesa: una forma cristologica di preghiera che escludesse la Chiesa, escluderebbe anche lo spirito e lo stesso essere umano. Ho bisogno di sentire che entro in queste parole in tutto ciò che faccio, nella preghiera, nella vita, nella sofferenza, nei miei pensieri. Ed è questo processo che mi trasforma” (La festa della fede, Ignatius Press, San Francisco 2006, p. 30).

Impariamo dalla Santissima Madre Maria, che in silenzio e in pura obbedienza a Dio ha accettato la missione difficile e dolorosa affidatale, ed è cresciuta in una vita di profonda comunione con il Figlio suo.

Allo stesso modo, Papa Giovanni Paolo II ha affermato: “dobbiamo continuamente ritornare nel Cenacolo e al Getsemani per riscoprire il centro del nostro sacerdozio, nella preghiera e attraverso la preghiera” (Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti, Giovedì Santo 1987, n.13).
Grazie.



+ Malcolm Cardinal Ranjith
Arcivescovo di Colombo, Sri Lanka



FONTE:
http://www.archdioceseofcolombo.com/
LiturgyConv2011_talkbyCardinalMalcolm_21.08.2011.php

(trad. it. a cura di don Giorgio Rizzieri)

mercoledì 24 agosto 2011

La musica liturgica tradizionale è per gente semplice?



di Aurelio Porfiri*


MACAO, martedì, 23 agosto 2011 (ZENIT.org).- La lettura della raccolta degli scritti in materia di liturgia e musica di Joseph Ratzinger (Volume XI dell’Opera Omnia ma primo significativamente ad essere pubblicato), oggi Papa Benedetto XVI, mi offre spunti veramente interessanti di riflessione, chiavi di lettura di un momento non facile nella vita liturgica della Chiesa cattolica. In effetti, l’attuale Papa ha attraversato gli ultimi decenni da protagonista, come teologo, Cardinale, Prefetto e ora Pontefice. Egli è stato ed è osservatore privilegiato dei vari sviluppi che si sono susseguiti negli ultimi decenni. A pag. 573, per esempio, dove tratta del “Fondamento Teologico della Musica Sacra”, egli riporta delle osservazioni molto interessanti citando due notissimi teologi, Karl Rahner e Herbert Vorgrimler e la loro lettura della Sacrosanctum Concilium in materia specificamente di musica per la liturgia:

“Nell’edizione tedesca dei testi del Concilio Vaticano II, curata da Karl Rahner e Herbert Vorgrimler e largamente diffusa, il breve commento del capitolo della Costituzione su 'La Sacra Liturgia' riguardante la musica è introdotto dalla sorprendente osservazione secondo cui l’arte autentica, come essa si trova nella musica sacra, 'a causa della sua natura esoterica nel senso buono della parola' sarebbe 'difficilmente conciliabile con la natura della liturgia e con il supremo principio della riforma liturgica'”.

Certo, questa affermazione ha sorpreso anche me e io penso che merita una breve considerazione. In effetti ci troviamo sempre di fronte ad un problema ermeneutico, sul come interpretare i testi. Ma in questo caso, mi sembra veramente che ci sia una deriva del senso stesso del testo della Costituzione conciliare che in realtà come tutti sanno, afferma praticamente il contrario. Cioè che il patrimonio della musica liturgica deve essere salvaguardato ed incrementato (114). Ma a proposito di questo punto, i due insigni teologi suggeriscono che non va inteso come se ciò debba avvenire nell’ambito della liturgia. Così in me si fa largo una domanda impellente: dove dovrebbe essere salvaguardato ed incrementato? Provo ad immaginare lo scenario suggerito dai teologi: in realtà i padri conciliari avrebbero suggerito nel punto 114 che la musica liturgica tradizionale deve essere conservata al di fuori della liturgia, magari nei concerti (ma perché incrementarla?) ma non ha più posto nella liturgia. Ma perché i padri conciliari semplicemente non hanno detto questo con chiarezza, ricorrendo ad una frase che sembra suggerire il contrario? Già, perché se poi quella frase è letta insieme a quelle sul canto gregoriano, sulle Scholae Cantorum, sulla formazione, sull’organo, si deve ammettere che l’interpretazione degli illustri teologi si fa veramente ardita.

Ma qual è il problema della musica liturgica tradizionale? Essa è “esoterica” (nel senso buono della parola, però), non accessibile alla gente semplice. In realtà qui mi sembra ci sia un problema con cosa si intenda per “accessibile” e sul ruolo della musica nella liturgia. Essa non è lì per trasmettere “informazioni” o dilettare, ma è lì per elevare colui che ascolta ad una maggiore contemplazione del Mistero che viene celebrato. Così la sua funzione è esattamente non di abbassarsi al livello in cui siamo ma di elevarci al livello in cui dovremmo essere. Certo non adempirebbe questa funzione se essa fosse cervellotica o banale. Ma questo non è il caso della grande tradizione musicale della Chiesa cattolica e di coloro che ancora scrivono musica per la liturgia, anche in lingue diverse dal latino, con l’intento di elevare con il potere della musica alla contemplazione delle realtà soprannaturali. I teologi di cui sopra suggeriscono che dovrebbe essere impiegata la musica d’uso, il linguaggio a cui siamo quotidianamente sottoposti, la musica pop. Ma la liturgia non dovrebbe essere una porta verso l’altrove? Perché si cerca di naturalizzare tutto? Certamente l’impiego della musica cosiddetta d’uso nella liturgia si configura come un abuso, nei confronti della stessa musica pop che ha una funzione diversa e nei confronti della natura della liturgia e del principio supremo della riforma liturgica che è la partecipazione ma alle realtà significate dalla liturgia, non a quelle che noi significhiamo.

Io potrei chiede rispettosamente agli illustri teologi: ma i vostri scritti, così densi e difficili alla lettura, non sono anche essi di élite e al di fuori della gente comune? Loro mi risponderebbero che non scrivono per la gente comune ma per altri specialisti e che per comunicare alcuni concetti necessitano di un linguaggio specialistico. Ecco, perché questo non è vero anche per l’arte nella liturgia? Certo essa è per tutti, ma non nel senso di livellamento al basso (poi si dovrebbe capire cosa significa oggi gente semplice ma questo porterebbe lontanissimo…). Per comunicare certi concetti hai bisogno di un linguaggio altro. Ma al contrario dello scrivere in modo criptico deve ancora essere dimostrato che la musica liturgica intesa nel senso tradizionale non comunichi anche alla gente cosiddetta semplice. Quello che vedo io è che la Chiesa nel corso dei secoli ha voluto offrire ai suoi figli semplici e non il dono prezioso della bellezza nella liturgia. Come ogni Madre farebbe per coloro che ama.



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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E' professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L'Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E' socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell'Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l'ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.

Dopo Madrid. Come Benedetto XVI ha innovato le GMG






Sono almeno tre le novità che con questo papa caratterizzano le Giornate Mondiali della Gioventù: gli spazi di silenzio, l'età giovanissima, la passione di testimoniare la fede nel mondo

di Sandro Magister


ROMA, 24 agosto 2011 – Dopo ogni suo viaggio fuori d'Italia, Benedetto XVI ama tracciarne un bilancio nell'udienza generale del mercoledì successivo.

Fece così dopo la Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia, nell'agosto del 2005:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2005/documents/hf_ben-xvi_aud_20050824_it.html

Non lo fece invece tre anni dopo, di ritorno da Sydney, perché era luglio e in questo mese le udienze generali sono sospese. Ma il papa commentò più tardi quella sua trasferta australiana nel discorso che tenne alla curia romana per gli auguri di Natale del 2008, riprodotto in questo recente servizio di www.chiesa:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1349004

Questa volta, di ritorno da Madrid, ecco la riflessione che mercoledì 24 agosto Benedetto XVI ha dedicato alla terza Giornata Mondiale della Gioventù del suo pontificato:

http://press.catholica.va/news_services/bulletin/news/27945.php?index=27945&lang=it

Da questa e dalle sue precedenti riflessioni, è evidente che Benedetto XVI vede le Giornate Mondiali della Gioventù come un momento saliente della sua missione di successore di Pietro.

A una semplice osservazione esterna, questi ultimi raduni mondiali manifestano almeno tre caratteri distintivi e nuovi, che a Madrid sono apparsi con particolare visibilità.


Il primo è il silenzio. Un silenzio prolungato, intensissimo, che cala nei momenti chiave, in una marea di giovani che fino a subito prima esplodevano di gioia festante.

La Via Crucis è uno di questi momenti. Un altro, ancor più impressionante, è quello dell'adorazione dell'ostia santa durante la veglia notturna. Un terzo è stato quello della comunione durante la messa conclusiva.

L'adorazione silenziosa dell'ostia santa è un'innovazione introdotta nelle Giornate Mondiali della Gioventù da Benedetto XVI. Il papa si inginocchia e con lui si inginocchiano sulla nuda terra centinaia di migliaia di giovani. Tutti protesi non al papa ma a quel "nostro pane quotidiano" che è Gesù.

Il violento scroscio temporalesco che a Madrid ha preceduto l'adorazione eucaristica, creando notevole scompiglio, ha reso ancor più impressionante l'irrompere di tale silenzio. E altrettanto è accaduto la mattina dopo, nella messa. L'inaspettata cancellazione della distribuzione della comunione – per non chiarite ragioni di sicurezza – non ha prodotto disordine e distrazione nella distesa sterminata dei giovani ma, al contrario, un silenzio di compostezza e intensità sorprendenti, una "comunione spirituale" di massa di cui non si ricordano precedenti.


Un secondo carattere distintivo di quest'ultima Giornata Mondiale della Gioventù è l'età media molto bassa dei convenuti, 22 anni.

Questo significa che molti di essi vi hanno preso parte per la prima volta. Il loro papa è Benedetto XVI, non Giovanni Paolo II, che hanno conosciuto solo da bambini. Essi sono parte di una generazione di giovani e giovanissimi molto esposta a una cultura secolarizzata. Ma sono nello stesso tempo il segnale che le domande su Dio e i destini ultimi sono vive e presenti anche in questa generazione. E ciò che muove questi giovani sono proprio queste domande, alle quali un papa come Benedetto XVI offre risposte semplici eppure potentemente impegnative e attrattive.

I veterani delle Giornate Mondiali della Gioventù c'erano, a Madrid. Ma soprattutto tra le decine di migliaia di volontari che si sono prestati per l'organizzazione. O tra i numerosi sacerdoti e religiose che hanno accompagnato i giovani, e le cui vocazioni sono sbocciate proprio in precedenti Giornate Mondiali della Gioventù. È ormai assodato che questi appuntamenti sono un vivaio per le future leadership delle comunità cattoliche nel mondo.


Un terzo carattere distintivo è la proiezione "ad extra" di questi giovani. A loro non interessano affatto le battaglie interne alla Chiesa per un suo ammodernamento al passo con i tempi. Sono lontani anni luce dal "cahier de doléances" di certi loro fratelli maggiori: per i preti sposati, per le donne prete, per la comunione ai divorziati risposati, per l'elezione popolare dei vescovi, per la democrazia nella Chiesa, eccetera eccetera.

Per loro, tutto questo è irrilevante. A loro basta essere cattolici come papa Benedetto fa vedere e capire. Senza diversivi, senza sconti. Se alto è il prezzo con il quale siamo stati salvati, il sangue di Cristo, alta dev'essere anche l'offerta di vita dei veri cristiani.

Non è la riorganizzazione interna della Chiesa, ma la passione di testimoniare la fede nel mondo a muovere questi giovani. Il papa glielo stava per dire con queste parole, nel discorso interrotto dal temporale:

"Cari amici, non abbiate paura del mondo, né del futuro, né della vostra debolezza. Il Signore vi ha concesso di vivere in questo momento della storia, perché grazie alla vostra fede continui a risuonare il suo nome in tutta la terra".

Il vaticanista americano John L. Allen ha definito i giovani convenuti a Madrid "Evangelical Catholics":

http://ncronline.org/blogs/all-things-catholic/big-picture-world-youth-day-it%E2%80%99s-evangelicals-stupid

martedì 23 agosto 2011

Dialogo con i lefebvriani, qualcosa si muove




Pubblichiamo questo articolo di Andrea Tornielli, tratto da
http://2.andreatornielli.it/?p=2448





Su Vatican Insider, il canale informativo de La Stampa dedicato all’informazione sul Vaticano e la Chiesa, pubblico un articolo dedicato alla convocazione di mons. Bernard Fellay a Roma, per un incontro previsto il 14 settembre.

È il primo incontro di vertice dopo i colloqui dottrinali che nell’ultimo anno hanno visto confrontarsi a Roma le delegazioni della Santa Sede e dei lefebvriani.

I colloqui dottrinali, che hanno affrontato tutti i nodi considerati problematici dai lefebvriani, i quali ritengono che in alcuni punti il Concilio Vaticano II abbia rappresentato una rottura con la tradizione della Chiesa, si sono conclusi nei mesi scorsi.

Ora il Vaticano dovrebbe sottoporre a Fellay dei protocolli d’intesa che chiariscono i punti dottrinali leggendo il Concilio secondo quell’ermeneutica della continuità nella riforma suggerita fin dal dicembre 2005 da Benedetto XVI quale interpretazione più autentica dei testi del Vaticano II.

Soltanto se saranno superate le difficoltà dottrinali, sarà sottoposta alla Fraternità una proposta di sistemazione canonica, che risolva la situazione in cui si trovano le comunità lefebvriane. Come si ricorderà, anche se il Papa, con un gesto di benevolenza, nel gennaio 2009 ha tolto la scomunica ai quattro vescovi ordinati da Lefebvre, i vescovi e i sacerdoti della San Pio X vivono ancora in uno stato di irregolarità canonica.

La proposta che è stata studiata dal Vaticano prevede per i lefebvriani l’istituzione di una ordinariato simile a quello che il Papa ha offerto agli anglicani intenzionati a rientrare nella comunione con la Chiesa di Roma. In questo modo, la Fraternità dipenderebbe dalla Santa Sede (e precisamente dalla Commissione Ecclesia Dei) e potrebbe mantenere le sue caratteristiche senza dover rispondere ai vescovi diocesani.

E’ comunque prematuro sbilanciarsi in quanto alle conclusioni: è noto infatti che all’interno della Fraternità San Pio X convivono diverse sensibilità e c’è una parte che considera difficile arrivare a un accordo.

La musica sacra e il canto liturgico nel Vaticano II





Pubblichiamo di seguito un articolo di don Enrico Finotti, parroco di S. Maria del Carmine in Rovereto (TN), apparso sulla rivista formativa Liturgia ‘culmen et fons’ .

* * *

Oggi occorre ritornare alle sorgenti autentiche della riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II. Si devono però superare molti pregiudizi, invalsi negli anni postconciliari e oggi ancora persistenti, che hanno oscurato i principi basilari sui quali l’edificio liturgico rinnovato doveva poggiare.

Su interpretazioni riduttive si è sviluppata una pastorale liturgica mancante e difforme da ciò che il Vaticano II intendeva promuovere. Anche il settore della musica sacra è certamente segnato dai danni di una scorretta e parziale applicazione dei principi ispiratori. Per questo è necessario ritornare a rileggere le inequivocabili indicazioni della Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium:

n. 116: La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli sia riservato il posto principale.

Gli altri generi di Musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini Uffici, purché rispondano allo spirito dell’azione liturgica, a norma dell’art. 30.

n. 117: Si conduca a termine l’edizione tipica dei libri di canto gregoriano; anzi, si prepari un’edi-zione più critica dei libri già editi dopo la riforma di san Pio X. Conviene inoltre che si prepari una edizione che contenga melodie più semplici, ad uso delle chiese minori.

n.118: Si promuo-va con impegno il canto popolare religioso, in modo che nei pii e sacri esercizi, come pure nelle stesse azioni liturgiche, secondo le norme e i precetti delle rubriche, possano risuonare le voci dei fedeli.

Nell’arco degli anni post-concilari possiamo osservare che, nel campo della musica e del canto sacro, si sono delineati due fenomeni ben definiti:

I

èstato fatto e continua ancora uno sforzo notevole di creazione di canti in lingua parlata per l’uso liturgico. I vari repertori ne sono eloquente testimonianza. Tuttavia, dopo un primo inizio di fedele applicazione secondo i criteri liturgici e in comunione con la Chiesa, si è intrapresa la via di una creatività continua, talvolta eccessiva, senza più considerazione dei principi liturgici e della necessaria verifica e approvazione dell’autorità della Chiesa. In tal modo sembra che oggi chiunque possa comporre musica e testi per la liturgia e ogni comunità e gruppo esegue un ventaglio incontrollabile di canti, che, sia per la palese inabilità del testo o della musica o della loro funzione rituale, sia per la mancanza di un esplicito riconoscimento e assunzione da parte dell’autorità della Chiesa, non possono dirsi pro-priamente liturgici. Così le celebrazioni subiscono una larga invasione quasi ovunque di testi e musiche di compo-sizione privata, che non godono perciò della grazia specifica della liturgia e non possono quindi mi-rare pienamente al fine della Musica sacra, che è la glo-ria di Dio e la santi-ficazione dei fedeli(SC 112).

Mentre l’eucologia, il lezio-nario e le sequenze rituali sono ancora fissate dalla Chiesa, i canti sono per lo più alla mercé di compositori, maestri di coro, gruppi o singoli fedeli committenti. In tal modo il settore del canto non soggiace più al controllo della Chiesa, né può dirsi espressione della sua pre-ghiera, essendo ormai diven-tato appannaggio di un comu-nità o di una spiritualità sociologicamente più o meno estesa. In questo stato di cose i fedeli rischiano di non rico-noscere più quali siano i canti liturgici, propri della Chiesa, ed essere, in questo settore, travolti dai gusti e dai contenuti di alcuni, di quelli cioè che volta a volta gestiscono le liturgie. Si deve pure constatare che è prevalsa la tendenza a ‘cantare nella liturgia’ anziché ‘cantare la liturgia’. Questa scelta, infatti, offre maggior libertà creativa. èevidente che a queste condizioni non può affermarsi e aver stabilità una raccolta valida di canti liturgici, comune al popolo di Dio nella sua globalità, né possono risuonare le voci dei fedeli (SC 118). Anche il repertorio nazionale diluisce nella concessione di poter ricorrere agli altri repertori, regionali, diocesani, parrocchiali, ecc.

Su questa strada si può arrivare alla situazione dell’antica gnosi, quando si fece la scelta radicale di eliminare dalla liturgia ogni composizione umana, inficiata di concetti gnostici, e di usare soltanto il salterio, quale testo sicuro per il canto liturgico. Tale situazione – dopo una ulteriore riduzione di sequenze e tropi in eccesso all’epoca del Concilio Tridentino – è giunta fino al Vaticano II.

II

Vi è poi un secondo versante. Nella ‘pastorale’ liturgica postconciliare si è operata di fatto una scelta di parte: si è considerato solo il canto popolare religioso (SC 118) tacendo quasi totalmente sul canto gregoriano e sulla polifonia classica (SC 116). Anche la pubblicazione del Graduale simplex, ad uso delle chiese minori (SC 117) “allo scopo di ottenere più efficacemente una partecipazione attiva di tutto il popolo nelle sacre azioni celebrate in canto” (SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Graduale semplice ad uso delle chiese minori, 3 settembre 1967, in Enchiridion Vaticanum, EDB, vol. 2°, n. 1677), - libro liturgico di nuova creazione - non ha sortito nessun significativo e stabile ricorso all’uso del canto gregoriano nelle normali assemblee parrocchiali.

Il silenzio sul gregoriano e la polifonia classica ha privato i riti di un patrimonio liturgico, artistico e spirituale gran-dioso, ha ristretto negli effimeri confini del presente e ha tagliato le radici con la tradizione dei secoli. Le nuove generazioni si sono così trovate a realizzare il prodotto recente delle ultime ‘trovate’ e il loro orizzonte è costretto all’asfissia dell’istante mo-mentaneo e del locale. La loro stessa creatività, priva dell’ossigeno della Tradizione secolare e universale della Chiesa, ne è rattrappita e si chiude davanti a loro la possibilità di un esercizio musicale a servizio della liturgia di alto profilo artistico e di profonda spiritualità. Non può essere normale, né onorevole per la Chiesa che i giovani scoprano il gregoriano e la grande musica polifonica in ambienti profani, come in scuole e concerti, mentre il grembo originale che ha generato tale esperienza offre un livello ormai basso e sterile. La Chiesa Madre e Maestra avrebbe così perduto la sua capacita di educatrice e di guida verso le alte vette dello spirito?

* * *

Occorre ritornare al Concilio vero e integrale. Una normale corale di parrocchia non può assolvere il suo servizio riducendo le sue prestazioni musicali all’esecuzione della solo musica d’uso in una estenuante girandola di continue variazioni. Essa deve essere capace di proporre all’assemblea cristiana il canto gregoriano nelle sue principali espressioni, sia quello sillabico della cantillatio e dei salmi, sia quello melismatico degli inni e degli altri testi liturgici. Il novus Ordo Missae è stato riformato in totale continuità con l’Ordo precedente. Infatti rimangono inalterati nel testo e nella loro posizione rituale i canti classici dell’ordinario: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Essi quindi possono e devono poter essere riproposti secondo le modalità gregoriane e polifoniche di sempre. Nessuna parte del rito precedente è stata tolta, ma tutto coincide e questo perché nella mente della Chiesa non si doveva in nulla sacrificare il patrimonio musicale dei secoli codificato nel Graduale Romano, che deve essere tenuto “in sommo onore nella Chiesa per le sue meravigliose espressioni d’arte e di pietà” e deve conservare “integro il suo valore” (SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Graduale semplice ad uso delle chiese minori, 3 settembre 1967, in Enchiridion Vaticanum, EDB, vol. 2°, n. 1677). Il Graduale simplex poi offre possibilità più semplici - adatte ai vari tempi liturgici e alle principali solennità e feste e ai comuni dei Santi - per i canti del proprio: ingresso, salmo responsoriale, presentazione delle offerte, comunione. Non è necessario allora ricorrere alla forma precedente del Messale per ricuperare il canto sacro classico, ma esso è in piena conformità col Messale riformato dal Vaticano II. Questo fatto, nonostante i continui richiami del Magistero della Chiesa, è stato disatteso per decenni e ancor oggi con grande sospetto ci si apre a questa prospettiva.

In questo più vasto orizzonte le Messe gregoriane e quelle polifoniche potranno debitamente continuare a impreziosire la celebrazione liturgica e, da loro formati, i nostri contemporanei potranno procedere ad una autentica creatività, che, fondata sui principi perenni della musica sacra - la santità, la bontà delle forme e l’universalità (Pio X, Motu proprio sulla musica sacra, n. 2) - potrà ancora produrre splendidi frutti e geniali espressioni religiose. La composizione equilibrata tra antico e moderno, dunque, deve ispirare la ricerca e la prassi liturgica, senza elidere alcuno dei due termini.

Che nella Commemorazione di Tutti Fedeli Defunti (2 nov.) si esegua la Messa da requiem gregoriana nella sua completezza, oppure che in talune feste della Madonna si esegua la Missa cum jubilo e in altre occasioni la Missa de Angelis e in altre ancora si ricorra ad una valida Messa polifonica, non può costituire motivo di meraviglia e di contesa nella comunità cristiana. Se questo succede è perché l’interpretazione distorta del Concilio è diventata mentalità comune. Per le grandi composizioni polifoniche si dovrà tuttavia tener sempre presente il principio: “è da condannare come abuso gravissimo, che nelle funzioni ecclesiastiche la liturgia apparisca secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della liturgia e sua umile ancella” (Pio X, Motu proprio “Tra le sollecitudini” sulla musica sacra, n. 23). Occorre perciò che il solenne principio conciliare - “La Musica sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica, sia esprimendo più dolcemente la preghiera o favorendo l’unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri” (SC 112) - sia debitamente osservato. Ma siccome il testo liturgico (soprattutto nelle lingue volgari) potrebbe essere rivestito con una musica inadatta e anche banale, giustificata non in base alla sua qualità musicale, ma soltanto per il fatto che rispetta e assume in modo integro il testo previsto dalla liturgia, ecco che l’indicazione di S. Pio X ritorna sempre attuale: “Il canto gregoriano fu sempre considerato come il supremo modello della musica sacra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme”(Pio X, Motu proprio “Tra le sollecitudini” sulla musica sacra, II n. 3).

Alla luce di queste parole il canto gregoriano allora non è soltanto un corpus prezioso di canti accanto ad altri generi di musica sacra, ma, secondo la mente della Chiesa latina, ne è il referente e la base interiore che deve costituire l’anima per ogni musica autenticamente sacra e liturgica. Dobbiamo convenire che oggi nella realtà quotidiana delle nostre parrocchie non è facile impostare questo ragionamento. Tuttavia se si vuole una vera ed efficace verifica nel campo della musica liturgica si deve serenamente affrontare quello che in realtà è il pensiero ufficiale della Chiesa e il tenore dei suoi documenti.






fonte: www.zenit.org

Messaggio di Benedetto XVI alla Settimana liturgica nazionale

Messaggio di Benedetto XVI alla Settimana liturgica nazionale: la liturgia non è ciò che fa l’uomo, ma quello che fa Dio con la sua mirabile e gratuita condiscendenza (Trieste, 22-26 AGOSTO 2011)

Si è inaugurata ieri pomeriggio a Trieste la 62ma edizione della Settimana Liturgica Nazionale Italiana, promossa dal Centro di Azione Liturgica (Cal) sul tema: Dio educa il suo popolo. La liturgia, sorgente inesauribile di catechesi.
Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio che il Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone ha inviato - a nome del Santo Padre - a S.E. Mons. Felice di Molfetta, Vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano e Presidente del Centro di Azione Liturgica, e che è stato letto ieri all’apertura dei lavori:




MESSAGGIO DEL CARD. TARCISIO BERTONE
10 agosto 2011

A Sua Eccellenza Reverendissima
Mons. FELICE DI MOLFETTA
Vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano
Eccellenza Reverendissima,

sono lieto di trasmettere il cordiale saluto del Santo Padre a Lei e ai partecipanti alla 62a Settimana Liturgica Nazionale, che si svolgerà dal 22 al 26 agosto a Trieste. Il tema dell’incontro - "Dio educa il suo popolo. La liturgia, sorgente inesauribile di catechesi" – si colloca nella prospettiva degli Orientamenti pastorali della Chiesa in Italia per il decennio 2010-2020, tesi ad affrontare l’attuale emergenza educativa, e intende mettere "inequivocabilmente in luce il primato di Dio… prima di tutto Dio" (J. Ratzinger, Teologia della liturgia, Opera Omnia, XI, p. 5), la sua assoluta priorità nel ruolo educativo della liturgia.

La Chiesa, specialmente quando celebra i divini misteri, si riconosce e si manifesta quale realtà che non può essere ridotta al solo aspetto terreno e organizzativo. In essi deve apparire chiaramente che il cuore pulsante della comunità è da riconoscersi oltre gli angusti e pur necessari confini della ritualità, perché la liturgia non è ciò che fa l’uomo, ma quello che fa Dio con la sua mirabile e gratuita condiscendenza. Questo primato di Dio nell’azione liturgica era stato evidenziato dal Servo di Dio Paolo VI alla chiusura del secondo periodo del Concilio Vaticano II mentre annunciava la proclamazione della Costituzione Sacrosanctum Concilium: "In questo fatto ravvisiamo che è stato rispettato il giusto ordine dei valori e dei doveri: in questo modo abbiamo riconosciuto che il posto d’onore va riservato a Dio; che noi come primo dovere siamo tenuti ad innalzare preghiere a Dio; che la sacra Liturgia è la fonte primaria di quel divino scambio nel quale ci viene comunicata la vita di Dio, è la prima scuola del nostro animo, è il primo dono che da noi deve essere fatto al popolo cristiano…" (Paolo VI, Discorso per la chiusura del secondo periodo, 4 dicembre 1963, AAS [1964], 34).

La liturgia, oltre ad esprimere la priorità assoluta di Dio, manifesta il suo essere "Dio-con-noi", perché "all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva." (Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, 1). In tal senso, Dio è il grande educatore del suo popolo, la guida amorevole, sapiente, instancabile nella e attraverso la liturgia, azione di Dio nell’oggi della Chiesa.

A partire da questo aspetto fondativo, la 62a Settimana Liturgica Nazionale è chiamata a riflettere sulla dimensione educativa dell’azione liturgica, in quanto "scuola permanente di formazione attorno al Signore risorto, luogo educativo e rivelativo in cui la fede prende forma e viene trasmessa" (Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 39). A tale proposito, è necessario approfondire sempre meglio il rapporto tra catechesi e liturgia, rifiutando, tuttavia, ogni indebita strumentalizzazione della liturgia a scopi "catechistici". Al riguardo, la vivente tradizione patristica della Chiesa ci insegna che la stessa celebrazione liturgica, senza perdere la sua specificità, possiede sempre un’importante dimensione catechetica (cfr Sacrosanctum Concilium, 33). Infatti, in quanto "prima e per di più necessaria sorgente dalla quale i fedeli possano attingere uno spirito veramente cristiano" (ibidem, 14), la liturgia può essere chiamata catechesi permanente della Chiesa, sorgente inesauribile di catechesi, preziosa catechesi in atto (cfr Conferenza Episcopale Italiana, Il rinnovamento della catechesi, 7 febbraio 1970, 113). Essa, in quanto esperienza integrata di catechesi, celebrazione, vita, esprime inoltre l’accompagnamento materno della Chiesa, contribuendo così a sviluppare la crescita della vita cristiana del credente e alla maturazione della sua coscienza.

Il Santo Padre Benedetto XVI assicura volentieri la sua preghiera affinché la 62a Settimana Liturgica Nazionale sia fruttuosa per i partecipanti e per l’intera Chiesa che è in Italia. Egli auspica che l’importante Convegno, come pure le iniziative promosse dal Centro di Azione Liturgica, si pongano sempre più a servizio del genuino senso della liturgia, favorendo una solida formazione teologico-pastorale in piena consonanza con il Magistero e la vivente tradizione della Chiesa. A tal fine, il Sommo Pontefice invoca su tutti i partecipanti la materna protezione di Maria Santissima e imparte di cuore a Vostra Eccellenza, all’Arcivescovo di Trieste, ai Vescovi e ai sacerdoti presenti, ai relatori e a tutti i congressisti una speciale Benedizione Apostolica.

Con un fraterno saluto e augurio, profitto della circostanza per confermarmi

dell’Eccellenza Vostra Reverendissima
dev.mo nel Signore

Tarcisio Card. Bertone
Segretario di Stato di Sua Santità

Bollettino Ufficiale Santa Sede

lunedì 22 agosto 2011

In due milioni sfidano il relativismo


























di Massimo Introvigne

22-08-2011


Una «festa della fede» - così l'ha chiamata il Papa ripartendo domenica 21 agosto dall'aeroporto di Madrid-Barajas - con due milioni d'invitati. Un richiamo alla Spagna, «grande nazione» per la sua storia al servizio della fede, a «progredire senza rinunciare alla sua anima profondamente religiosa e cattolica». Ma soprattutto una sfida lanciata al relativismo, denunciato in tutti gli interventi del Pontefice come la fonte avvelenata delle «frontiere che il peccato innalza tra i popoli e le generazioni».


Fin dalla prima giornata della GMG, come sa chi la ha seguita su La Bussola Quotidiana, Benedetto XVI ha proposto lo schema concettuale della sua visita spagnola: le molteplici crisi contemporanee, compresa quella economica e del lavoro, hanno come radice comune il relativismo. La GMG è una risposta seria ed efficace al relativismo in quanto aiuta i giovani a proclamare con coraggio che esiste la verità, dunque esistono le diverse verità: filosofiche, morali, religiose, fino all'incontro con Gesù Cristo, in cui la verità si fa persona.


Nella seconda giornata il Papa ha mostrato che si può percorrere questo itinerario, che è uno, sia a partire dalla ragione, con l'esperienza di una educazione e di una università capaci di affermare il primato della verità e di aprirsi alla fede, sia a partire dalla fede - che diventa testimonianza radicale di donazione a Cristo nella vita religiosa, e sequela del Signore sofferente nella Via Crucis - che, illuminando la nozione stessa di verità, incontra e feconda la ragione.


Sabato 20 agosto la terza giornata di Benedetto XVI a Madrid ha presentato due nuovi esempi di testimonianza radicale per la verità, quello della scelta del sacerdozio e del seminario in una società secolarizzata e anticristiana, e quello del servizio agli handicappati non solo fisici ma mentali, della cui piena dignità di persone una cultura ostile alla vita oggi dubita. La giornata si è aperta con la Messa celebrata per i seminaristi nella cattedrale di Santa Marìa la Real de la Almudena. Come aveva fatto il 19 agosto con le giovani religiose, il Papa ha sottolineato nell'omelia come la testimonianza radicale dell'offerta di sé, del celibato, dell'obbedienza alla Chiesa dei seminaristi proclami al mondo che la vera libertà non consiste nel fare quello che si vuole ma nell'essere docili alla verità, che esiste e che si può conoscere.


Il seminarista si prepara a mettere al centro della sua missione sacerdotale l'Eucarestia, dove - ha detto il Papa - «il corpo spezzato e il sangue versato di Cristo, cioè la sua libertà offerta, si sono convertiti attraverso i segni eucaristici nella nuova fonte della libertà redenta degli uomini. In Lui abbiamo la promessa di una redenzione definitiva e la speranza certa dei beni futuri. Attraverso Cristo sappiamo che non siamo dei viandanti verso l’abisso, verso il silenzio del nulla o della morte, ma siamo dei pellegrini verso una terra promessa, verso di Lui, che è la nostra meta e anche la nostra origine».


Ma questa preparazione richiede che i seminari, troppo spesso coinvolti anch'essi nella crisi generale, siano davvero fedeli al loro mandato. Quelli trascorsi in seminario «devono essere anni di silenzio interiore, di orazione costante, di studio assiduo e di prudente inserimento nell’azione e nelle strutture pastorali della Chiesa». Tutti noi sacerdoti, ha detto il Pontefice, «dobbiamo esser santi per non creare una contraddizione fra il segno che siamo e la realtà che vogliamo significare».


I tempi sono particolarmente difficili? È vero. Ma «nessuno sceglie il contesto, né i destinatari della propria missione. Ogni epoca ha i suoi problemi, ma Dio offre in ogni tempo la grazia opportuna per farsene carico e superarli con amore e realismo». E - con parole in cui una parte della stampa ha voluto vedere anche una risposta indiretta alle gazzarre anticlericali contro la visita del Papa in Spagna - Benedetto XVI ha invitato i seminaristi a non lasciarsi «intimorire da un ambiente nel quale si pretende di escludere Dio e nel quale il potere, il possedere o il piacere sono spesso i principali criteri sui quali si regge l’esistenza. Può darsi che vi disprezzino, come si suole fare verso coloro che richiamano mete più alte o smascherano gli idoli dinanzi ai quali oggi molti si prostrano. Sarà allora che una vita profondamente radicata in Cristo si rivelerà realmente come una novità, attraendo con forza coloro che veramente cercano Dio, la verità e la giustizia».


Al termine della Messa con i seminaristi il Papa ha annunciato che il patrono del clero secolare spagnolo, san Giovanni d'Avila (1499-1569) - da non confondersi con san Giovanni della Croce (1542-1591) -, sarà presto proclamato Dottore della Chiesa. Sarà così onorato un grande predicatore stimato dall'imperatore Carlo V (1500-1558), che gli affidò l'omelia ai funerali dell'amatissima moglie Isabella del Portogallo (1503-1539), ricordando ancora una volta il legame fra la gloria della Spagna e le sue radici cristiane. Ma in epoca di crisi economica è anche significativo che la Chiesa attiri l'attenzione su un maestro spirituale che non mancò mai d'insistere - a costo anche d'incomprensioni e difficoltà con la gerarchia ecclesiastica del suo tempo - sull'austerità e sulla sobrietà della vita, di cui anche i più ricchi devono dare l'esempio specie in tempi di generale difficoltà.


Visitando la Fondazione «Istituto San José», dove i religiosi dell'Ordine Ospedaliero di san Giovanni di Dio (1495-1550), i cosiddetti Fatebenefratelli, nel solco dell'opera del loro confratello milanese attivo in Spagna san Benedetto Menni (1841-1914), si prendono cura di handicappati e malati di mente, il Pontefice ha ricordato che una testimonianza speciale per la verità è quella che riafferma, in un mondo tentato dall'eutanasia, che nessuna vita è inutile. Opere come questa, ha detto il Papa, testimoniano
«della dignità di ogni vita umana, creata a immagine di Dio. Nessuna afflizione è capace di cancellare questa impronta divina incisa nel più profondo dell’uomo. E non solo: dal momento in cui il Figlio di Dio volle abbracciare liberamente il dolore e la morte, l’immagine di Dio si offre a noi anche nel volto di chi soffre. Questa speciale predilezione del Signore per colui che soffre ci porta a guardare l’altro con occhi limpidi, per dargli, oltre alle cose esterne di cui necessita, lo sguardo amorevole di cui ha bisogno».


L'incontro con la sofferenza - e tanto più con giovani sofferenti o handicappati - è, oggi più che mai, una sfida. «Quando il dolore appare nell’orizzonte di una vita giovane, rimaniamo sconcertati e forse ci chiediamo: può continuare ad essere grande la vita quando irrompe in essa la sofferenza? A tale riguardo, nella mia enciclica sulla speranza cristiana, dicevo: "La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente (…) Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente, è una società crudele e disumana" (Spe salvi, 38)». Nella «nostra società, nella quale troppo spesso si pone in dubbio la dignità inestimabile della vita, di ogni vita» il servizio alla sofferenza è un'altra sfida al relativismo, un'altra testimonianza eloquente e persuasiva per la verità, in questo caso la verità sulla persona umana e sulla vita, il cui valore non dipende dalla buona salute fisica o mentale.


Animato da queste testimonianze - di chi sceglie il sacerdozio, di chi dedica la vita a servire i portatori di handicap o i malati di mente - come potrà il giovane della GMG dire a sua volta no al relativismo, decidere di vivere nella verità e per la verità? Era questo il tema preparato per la veglia di preghiera del 20 agosto - di fronte a due milioni di giovani - all'aeroporto dei Quattro Venti.


La prima verità da testimoniare, ha scritto il Papa nel discorso destinato ai tantissimi giovani della veglia - non pronunciato a causa della pioggia battente ma distribuito alla stampa e pubblicato sul sito Internet della Santa Sede - è che non siamo frutto del caso ma di un progetto di amore di Dio. «Questa è la grande verità della nostra vita e che dà senso a tutto il resto. Non siamo frutto del caso o dell’irrazionalità, ma all’origine della nostra esistenza c’è un progetto d’amore di Dio». Il vero coraggio sta nel non accettare le monete false del relativismo, nel non accontentarsi di niente di meno della verità. «Cari giovani - ha esortato il Pontefice - non conformatevi con qualcosa che sia meno della Verità e dell’Amore, non conformatevi con qualcuno che sia meno di Cristo».


I frutti saranno immediatamente visibili e sperimentabili. «Se rimarrete nell’amore di Cristo, radicati nella fede, incontrerete, anche in mezzo a contrarietà e sofferenze, la fonte della gioia e dell’allegria. La fede non si oppone ai vostri ideali più alti, al contrario, li eleva e li perfeziona».


Benedetto XVI ha denunciato ancora una volta il relativismo come radice della crisi contemporanea, come velo che impedisce di comprendere il senso del dolore e delle prove e di affidarsi a Cristo che solo può aiutarci a superarle. «Precisamente oggi, in cui la cultura relativista dominante rinuncia alla ricerca della verità e disprezza la ricerca della verità, che è l’aspirazione più alta dello spirito umano, dobbiamo proporre con coraggio e umiltà il valore universale di Cristo, come salvatore di tutti gli uomini e fonte di speranza per la nostra vita. Egli, che prese su di sé le nostre afflizioni, conosce bene il mistero del dolore umano e mostra la sua presenza piena di amore in tutti coloro che soffrono. E questi, a loro volta, uniti alla passione di Cristo, partecipano molto da vicino alla sua opera di redenzione».


E l'appello alla verità, ha aggiunto il Papa, vale sia per chi è chiamato a testimoniarla nella vita sacerdotale e religiosa, sia per chi ha come vocazione l'incontro con le verità oggi scomode e contestate della famiglia e del matrimonio. Molti dei giovani della GMG scopriranno, o hanno già scoperto, che «sono chiamati dal Signore al matrimonio, nel quale un uomo e una donna, formando una sola carne (cfr Gn 2,24), si realizzano in una profonda vita di comunione. È un orizzonte luminoso ed esigente al tempo stesso. Un progetto di amore vero che si rinnova e si approfondisce ogni giorno condividendo gioie e difficoltà, e che si caratterizza per un dono della totalità della persona. Per questo, riconoscere la bellezza e la bontà del matrimonio, significa essere coscienti che solo un contesto di fedeltà e indissolubilità, come pure di apertura al dono divino della vita, è quello adeguato alla grandezza e dignità dell’amore matrimoniale».


Ma come faranno i giovani della GMG a trasformare un mondo che sembra inondato e sommerso dal relativismo? Nell'omelia della Messa del 21 agosto il Papa ha risposto - prendendo spunto dal Vangelo della domenica - che tutto si gioca sul tipo di rapporto che ciascun giovane riuscirà a stabilire con la verità fatta persona, Gesù Cristo. Si tratta allora, anzitutto, di non sbagliare immagine di Cristo: «chi è Lui veramente?». Nel capitolo 16 del Vangelo di Matteo «vediamo descritti due modi distinti di conoscere Cristo. Il primo consisterebbe in una conoscenza esterna, caratterizzata dall’opinione corrente [...] [dove] si considera Cristo come un personaggio religioso in più di quelli già conosciuti».


Il secondo modo di conoscenza invece «va al di là dei semplici dati empirici o storici, ed è capace di cogliere il mistero della persona di Cristo nella sua profondità». Possiamo chiamare questo modo di conoscere Cristo «fede».


«Però la fede non è frutto dello sforzo umano, della sua ragione, bensì è un dono di Dio: "Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne, né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli". Ha la sua origine nell’iniziativa di Dio, che ci rivela la sua intimità e ci invita a partecipare della sua stessa vita divina».


Questo secondo modo di conoscere è davvero diverso dal primo. Chi dà credito all'opinione corrente considera Cristo non «la» verità ma «una» verità fra altre che sarebbero tutte più o meno sullo stesso piano, cioè rimane chiuso nella gabbia del relativismo. Da questa gabbia esce invece chi si persuade che «la fede non dà solo alcune informazioni sull’identità di Cristo, bensì suppone una relazione personale con Lui, l’adesione di tutta la persona, con la propria intelligenza, volontà e sentimenti alla manifestazione che Dio fa di se stesso». Oggi è difficile superare il relativismo sulla base di un semplice processo intellettuale. «Così, la domanda "Ma voi, chi dite che io sia?" in fondo sta provocando i discepoli a prendere una decisione personale in relazione a Lui. Fede e sequela di Cristo sono in stretto rapporto. E, dato che suppone la sequela del Maestro, la fede deve consolidarsi e crescere, farsi più profonda e matura, nella misura in cui si intensifica e rafforza la relazione con Gesù, la intimità con Lui».


Ai giovani della GMG il Papa ricorda che «anche oggi Cristo si rivolge a voi con la stessa domanda che fece agli apostoli: "Ma voi, chi dite che io sia?". Rispondetegli con generosità e audacia, come corrisponde a un cuore giovane qual è il vostro. Ditegli: Gesù, io so che Tu sei il Figlio di Dio, che hai dato la tua vita per me. Voglio seguirti con fedeltà e lasciarmi guidare dalla tua parola. Tu mi conosci e mi ami. Io mi fido di te e metto la mia intera vita nelle tue mani. Voglio che Tu sia la forza che mi sostiene, la gioia che mai mi abbandona».


Ancora, una generica adesione a Cristo non sarebbe sufficiente. Gesù stesso ha indicato il luogo dove, dopo l'Ascensione, è possibile incontrarlo nella storia. Questo luogo è la Chiesa. Non ce ne sono altri. «Nella sua risposta alla confessione di Pietro, Gesù parla della Chiesa: "E io a te dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa"». Anche la risposta esatta alla domanda su che cosa sia la Chiesa è decisiva, per non ricadere nel relativismo, per cui la Chiesa sarebbe solo una fra tante istituzioni ugualmente autorevoli - o ugualmente poco autorevoli. Ma «la Chiesa non è una semplice istituzione umana, come qualsiasi altra, ma è strettamente unita a Dio. Lo stesso Cristo si riferisce ad essa come alla "sua" Chiesa. Non è possibile separare Cristo dalla Chiesa, come non si può separare la testa dal corpo (cfr 1Cor 12,12). La Chiesa non vive di se stessa, bensì del Signore. Egli è presente in mezzo ad essa, e le dà vita, alimento e forza». E la vera Chiesa si trova dove c'è il «Successore di Pietro», dove c'è la catena ininterrotta della «fede che ci è stata trasmessa dagli Apostoli».


Dunque «seguire Gesù nella fede è camminare con Lui nella comunione della Chiesa. Non si può seguire Gesù da soli. Chi cede alla tentazione di andare "per conto suo" o di vivere la fede secondo la mentalità individualista, che predomina nella società, corre il rischio di non incontrare mai Gesù Cristo, o di finire seguendo un’immagine falsa di Lui». E l'amore alla Chiesa si dimostra nella «partecipazione all’Eucarestia di ogni domenica, il frequente accostarsi al sacramento della riconciliazione e il coltivare la preghiera e la meditazione della Parola di Dio».


Dalla fede vissuta nella Chiesa nascono la testimonianza e la missione, che sono per tutti e sono indispensabili. «Da questa amicizia con Gesù nascerà anche la spinta che conduce a dare testimonianza della fede negli ambienti più diversi, incluso dove vi è rifiuto o indifferenza. Non è possibile incontrare Cristo e non farlo conoscere agli altri. Quindi, non conservate Cristo per voi stessi! Comunicate agli altri la gioia della vostra fede. Il mondo ha bisogno della testimonianza della vostra fede, ha bisogno certamente di Dio». Nonostante tutto, vi è ancora «una moltitudine di giovani che aspirano a cose più grandi e, scorgendo nei propri cuori la possibilità di valori più autentici, non si lasciano sedurre dalle false promesse di uno stile di vita senza Dio».


Come tutte le belle cose, anche la GMG è finita. Porterà frutto se i milioni di giovani che sono stati a Madrid sapranno trovare il coraggio - davvero rompendo la cappa della dittatura del relativismo - di continuare a vivere come se la GMG fosse ancora in corso, e di parlarne ai loro amici rimasti a casa. Ai volontari, così decisivi per la riuscita della GMG, il Papa ha detto: «Nel tornare ora alla vostra vita ordinaria, vi incoraggio a conservare nel vostro cuore questa gioiosa esperienza e a crescere ogni giorno di più nel dono di voi stessi a Dio e agli uomini. E’ possibile che in molti di voi si sia manifestata timida o con forza una domanda molto semplice: Che cosa vuole Dio da me? Qual è il suo disegno sulla mia vita? Cristo mi chiama a seguirlo più da vicino? Non potrei spendere tutta la mia vita nella missione di annunciare al mondo la grandezza del suo amore attraverso il sacerdozio, la vita consacrata o il matrimonio? Se è sorta questa inquietudine, lasciatevi guidare dal Signore e offritevi volontariamente al servizio di Colui che "non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti" (Mc 10,45). La vostra vita raggiungerà una pienezza insospettata. Forse qualcuno sta pensando: il Papa è venuto a ringraziarci e ora sta chiedendo. Sì, è così. Questa è la missione del Papa, Successore di Pietro».


Lasciando la Spagna, all'aeroporto di Madrid, il Pontefice si è rivolto ancora ai giovani, invitandoli «adesso a diffondere in ogni angolo del mondo la gioiosa e profonda esperienza di fede vissuta in questo nobile Paese. Trasmettete la vostra gioia specialmente a coloro che avrebbero voluto venire ma non hanno potuto farlo per diversi motivi, a quanti hanno pregato per voi e a coloro ai quali la celebrazione della Giornata ha toccato il cuore. Con la vostra vicinanza e testimonianza, aiutate i vostri amici e compagni a scoprire che amare Cristo è vivere in pienezza».


E a tutti i partecipanti a queste indimenticabili giornate, «cari amici - ha detto Benedetto XVI nell'Angelus del 21 agosto, congedandosi dall'immenso popolo della GMG, che è stato con la sua presenza una smentita vivente a tanti luoghi comuni sulla presunta lontananza dei giovani dalla Chiesa e dal Pontefice -, ora ritornerete nei vostri luoghi di dimora abituale. I vostri amici vorranno sapere che cosa è cambiato in voi dopo essere stati in questa nobile Città con il Papa e centinaia di migliaia di giovani di tutto il mondo: che cosa direte loro? Vi invito a dare un’audace testimonianza di vita cristiana davanti agli altri. Così sarete lievito di nuovi cristiani e farete sì che la Chiesa riemerga con vigore nel cuore di molti». La GMG non è finita. Comincia oggi.