martedì 21 settembre 2010

Alcune semplici riflessioni.....

In quanto laici nati dopo la riforma liturgica che ha adottato il nuovo Messale del 1969 non possiamo essere considerati nostalgici di una Chiesa e di una liturgia del passato.

Non abbiamo mai visto la Messa antica, nessuno ce ne aveva mai parlato, sapevamo soltanto che prima la Messa era in latino ed il sacerdote “dava le spalle” ai fedeli. Ci raccontavano anche che nella Chiesa c’era stato un grande evento: il Concilio Vaticano II, che aveva dato un nuovo volto alla Chiesa. Un evento che aveva portato una “nuova primavera”, una “nuova Pentecoste”, un “nuovo inizio” nella Chiesa, che si era finalmente aperta al mondo, per accogliere le sfide della modernità con la medicina del dialogo e della misericordia. Grandi speranze si accendevano nei cuori, con la fiducia di un futuro radioso e progressivo.

I nostri genitori e nonni ci raccontavano delle Chiese piene di fedeli, di devozioni ormai in disuso; le nostre città o paesi ricche di segni di fede testimoniano ancora l’intensa vita spirituale delle generazioni passate.

Anno dopo anno abbiamo visto invece le Chiese sempre più vuote, nonostante le iniziative pastorali sempre più “fantasiose” per attirare i giovani. Ma ci dicevano che siamo “pochi ma buoni”, più maturi e adulti nella fede di quanto non fossero le vecchine di un tempo che “biasciavano” rosari in latino e ascoltavano la Messa senza capire nulla o quasi.

Lo stato della situazione di crisi della fede emerge in modo chiaro quando ci si confronta con le sfide del nostro tempo: non basta definirsi cattolico per condividere le stesse idee, infatti sul piano dell’etica - per limitarsi a questo - non si fatica a trovare nelle parrocchie chi è a favore dell’aborto, dell’eutanasia, dei contraccettivi, dei rapporti prematrimoniali, ecc. in nome della libertà di coscienza. Tutto ciò tra i cattolici praticanti, anzi, anche tra i catechisti e i ministri straordinari dell’Eucarestia (forse anche tra qualche sacerdote!).

Sul piano liturgico, noi laici siamo ormai abituati a tutte le stravaganze, dalla neve sparata in Chiesa nella notte di Natale, ai cartelloni e pecorine di lana portate dai bambini all’offertorio, alla confusione in Chiesa, al movimentato scambio della pace, agli applausi, ai canti sulla Madonna che ripetono “avere un uomo e non averlo” (sic!), insomma a tutto quello che la “creatività” di tanti sacerdoti e laici che, in buona fede, si affannano per rendere piacevole e attrattivo il momento della Messa.

Proprio in questi giorni, durante il viaggio nel Regno Unito, Benedetto XVI ha affermato che una Chiesa che cerca soprattutto di essere attrattiva sarebbe già su una strada sbagliata. Perché la chiesa non lavora per sé, non lavora per aumentare i propri numeri, così il proprio potere. La Chiesa è al servizio di un Altro, serve non per sé, per essere un corpo forte, ma serve per rendere accessibile l’annuncio di Gesù Cristo, le grandi verità, le grandi forze di amore di riconciliazione che è apparso in questa figura e che viene sempre dalla presenza di Gesù Cristo. In questo senso la Chiesa non cerca la propria attrattività ma deve essere trasparente per Gesù Cristo. E nella misura nella quale non sta per se stesso, come corpo forte e potente nel mondo, ma si fa semplicemente voce di un Altro, diventa realmente trasparenza per la grande figura di Cristo e le grandi verità che ha portato nell’umanità, la forza dell’amore. La chiesa non dovrebbe considerare se stessa ma aiutare a considerare l’Altro, e essa stessa vedere e parlare di un Altro».

La Santa Messa ben celebrata forma, plasma, purifica e santifica il cuore dei fedeli, perché agisce un Altro, che con la Sua grazia previene, suscita e santifica, soprattutto quando trova accoglienza e apertura di cuore. Ecco ciò che è attrattivo.

Anche noi siamo stati attratti dalla Messa antica, che da tre anni, per volontà del Papa - e quindi dello Spirito Santo -, è stata ridonata a tutta la Chiesa, come un tesoro che per quarant’anni era rimasto nascosto e riservato a pochissimi, i cui frutti spirituali nelle anime sono enormi. Non è una Messa per elìtes intellettuali, è una Messa per tutti, per tutti quelli che vi sono attirati dal Padre.

Ciò che stupisce è constatare il pregiudizio che, in qualche caso, sfiora l’avversione verso la forma straordinaria del medesimo Rito Romano, il cui Messale è definito dal Papa “venerabile e antico”, con “pari dignità” rispetto al nuovo Messale, da parte soprattutto dei sacerdoti e anche di molti Vescovi.

Addolora molto vedere che nella Chiesa si dà spazio a tutti i carismi e a tutti i movimenti meno che alla “Messa di sempre”. A chiedere questa Messa sembra di commettere un peccato.

I nostri Pastori non dovrebbero avere cura e sollecitudine per il bene e la salvezza delle anime? Se lo Spirito Santo soffia e muove come vuole, perché ostacolarLo?

Forse la novità della Chiesa di questo nostro tempo è proprio il recupero della Messa “antica”. Forse è uno dei rimedi per uscire dalla crisi, che non deriva soltanto dalla secolarizzazione proveniente dal mondo, ma anche da una crisi interna alla Chiesa. Le vere riforme partono dall’azione della luce di Cristo, che trasforma interiormente, per diventare luce per il mondo, come sono i santi.

Bisogna dunque aprirsi ai segni dei tempi e alla novità dello Spirito!




L.C.

lunedì 20 settembre 2010

S. Matthei Apostoli et Evangelistae ~ II. classis

Officium in festa S. Matthei Apostoli et Evangelistae ~ II. classis

LAUDES: http://divinumofficium.com/cgi-bin/horas/officium.pl

VESPRERA: http://divinumofficium.com/cgi-bin/horas/officium.pl

domenica 19 settembre 2010

Chiesa di Santa Cristina a Pimonte

Chiesa di Santa Cristina a Pimonte
Via della Chiesa di Santa Cristina n. 2 - 59100 PRATO (Tel. 0574 59 53 92)

Calendario delle celebrazioni
della Sancta Missa “Vetus Ordo”

secondo il Motu Proprio “Summorum Pontificum”
di Sua Santità Benedetto XVI


Le Sante Messe vengono celebrate di Domenica alle ore 10,00

Anno 2010


24 Ottobre - XXII dopo Pentecoste
21 Novembre - XXIV dopo Pentecost
19 Dicembre - IV d’Avvento

Anno 2011

30 Gennaio - IV dopo l’Epifania
20 Febbraio - Settuagesima
27 Marzo - III di Quaresima
10 Aprile - V di Quaresima
22 Maggio - IV dopo Pasqua
12 Giugno - Pentecoste

sabato 18 settembre 2010

Officium Dominica XVII Post Pentecosten.

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venerdì 17 settembre 2010

Abbiamo un sacerdote disponibile a celebrare

Il nostro gruppo ha finalmente un sacerdote nella nostra diocesi di Pistoia, che è disponibile a celebrare la Messa in Latino. Ringraziamo il Signore, e preghiamo perchè ci siano anche altri sacerdoti che celebrano in latino.

Che il Signore per intercessione della Beata Vergine Maria sostenga e aiuti questi sacerdoti!

17 settembre 2010

martedì 14 settembre 2010

In Exaltatione Sanctae crucis

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lunedì 13 settembre 2010

LE DODICI PROMESSE DI GESÙ AI DEVOTI DEL SUO SACRO CUORE



Gesù a Santa Margherita Maria Alacoque

1. Darò loro tutte le grazie necessarie al loro stato.

2. Metterò la pace nelle loro famiglie.

3. Li consolerò in tutte le loro pene.

4. Sarò loro rifugio sicuro durante la vita e soprattutto alla loro morte.

5. Spargerò abbondanti benedizioni su tutte le loro imprese.

6. I peccatori troveranno nel mio Cuore la fonte e l'oceano infinito della misericordia.

7. Le anime tiepide diventeranno ferventi.

8. Le anime ferventi si eleveranno a grande perfezione.

9. Benedirò le case dove l'immagine del mio Sacro Cuore sarà esposta e onorata.

10. Darò ai sacerdoti il dono di toccare i cuori più induriti.

11. Le persone che propagheranno questa devozione avranno il loro nome scritto nel mio Cuore, dove non sarà mai cancellato.

12. Io prometto nell'eccesso della misericordia del mio Cuore che il mio amore onnipotente concederà a tutti quelli che si comunicheranno il primo venerdì del mese per nove mesi consecutivi la grazia della penitenza finale. Essi non moriranno in mia disgrazia, né senza ricevere i Sacramenti, e il mio Cuore sarà loro rifugio sicuro in quell'ora estrema.

litanie al Sacro Cuore di Gesù

Kyrie, elèison - Kyrie elèison
Christe, elèison - Christe elèison
Kyrie, elèison - Kyrie elèison
Christe, àudi nos - Christe, àudi nos
Christe, exàudi nos - Christe, exàudi nos
Pàter de caelis, Deus - miserère nobis
Fìli Redèmptor mundi, Deus - ...
Spìritus Sàncte, Deus -
Sancta Trìnitas, ùnus Deus -
Cor Iesu, Fili Patris aetèrni -
Cor Iesu, in sìnu Vìrginis Màtris a Spìritu Sancto formàtum -
Cor Iesu, Verbo Dei substantiàliter unìtum
Cor Iesu, maiestàtis infinìtae -
Cor Iesu, tèmplum Dei sanctum -
Cor Iesu, tabernàculum Altìssimi -
Cor Iesu, domus Dei et pòrta caeli -
Cor Iesu, fòrnax àrdens charitàtis -
Cor Iesu, iustìtiae et amòris receptàculum -
Cor Iesu, bonitàte et amore plenum -
Cor Iesu, virtùtum òmnium abìssus -
Cor Iesu, òmni làude dignìssimus -
Cor Iesu, rex et centrum òmnium còrdium -
Cor Iesu, in quo sunt òmnes thesàuri sapiéntiae et sciéntiae -
Cor Iesu, in quo hàbitat òmnis plenitùdo divinitàtis -
Cor Iesu, in quo Pater sibi bene complàcuit -
Cor Iesu, de cùius plenitùdine òmnes nos accepìmus -
Cor Iesu, desidèrium còllium aeternòrum -
Cor Iesu, pàtiens et mùltae misericòrdiae -
Cor Iesu, dìves in òmnes qui invòcant te -
Cor Iesu, fons vitae et sanctitàtis -
Cor Iesu, propitiàtio pro peccatis nostris -
Cor Iesu, saturàtum oppròbriis -
Cor Iesu, attrìtum pròpter scèlera nostra -
Cor Iesu, ùsque ad mortem oboediens factum -
Cor Iesu, lancea perforàtum -
Cor Iesu, fons totìus consolatiònis -
Cor Iesu, vita et resurrèctio nostra -
Cor Iesu, pax et reconciliàtio nostra -
Cor Iesu, vìctima peccatòrum -
Cor Iesu, sàlus in te speràntium -
Cor Iesu, spes in te morièntium -
Cor Iesu, delìciae sanctòrum òmnium
- miserère nobis
Àgnus Dei, qui tòllis peccàta mùndi - pàrce nobis, Dòmine
Àgnus Dei, qui tòllis peccàta mùndi - exàudi nos, Dòmine
Àgnus Dei, qui tòllis peccàta mùndi - miserère nobis.

domenica 12 settembre 2010

Incontro sul motu proprio "Summorum Pontificum" a Prato

Martedì 14 settembre, alle ore 21,15 a Prato nella Parrocchia dello Spirito Santo, via Silvestri, 21 importante incontro sul motu proprio "Summorum Pontificum" nel terzo anniversario della sua promulgazione. Relatore don Enrico Bini.

sabato 11 settembre 2010

CLAUDIO CRESCIMANNO, La riforma della riforma liturgica. Ipotesi per un ‘nuovo’ rito della Messa sulle tracce del pensiero di Joseph Ratzinger

Prefazione di S.E.R. Mons. Ranjith Segretario Emerito della Congregazione per il Culto Divino e Arcivescovo di Colombo, Edizioni Fede & Cultura, 2009, pp. 340, € 24,00.

Sconto su: http://www.theseuslibri.it
PREFAZIONE

Il Card. Joseph Ratzinger parlando della riforma liturgica postconciliare disse: “Il risultato [di codesta riforma] non è stato una rianimazione, ma una devastazione […]. Al posto della liturgia frutto di uno sviluppo continuo, è stata messa una liturgia fabbricata. Si è usciti dal processo vivente di crescita e di sviluppo per entrare nella fabbricazione. Non si è più voluto il divenire e la maturazione organica di Dio che vive attraverso i secoli e lo si è sostituito a mo‟ di produzione tecnica, con una fabbricazione banale del momento” (“Prefazione” in Klaus Gamber, La réforme liturgique en question, ed. Sainte Madeleine, Le Barroux, 1992).
Sono parole forti ma, credo, davvero oggettive di ciò che veramente accadde nella liturgia durante gli anni immediatamente susseguenti alle riforme introdotte dai riformatori del Consilium ad Exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia; in modo particolare nei confronti della Liturgia Eucaristica.
I Riformatori erano sicuramente ben intenzionati nella loro ricerca e nel loro lavoro, ma hanno lasciato degli spazi per interpretazioni larghe di qualche loro orientamento che, in alcuni ambienti, favorì uno slittamento pericoloso verso un‟anarchia liturgica.
Per di più qualcuno interpretò i suddetti orientamenti come conseguenza delle aperture del Concilio e della sua Costituzione Sacrosanctum Concilium. Questa posizione è discutibile. Ma non si può negare che qualche cambiamento liturgico introdotto in certi ambienti era infatti frutto di un cosiddetto “Spirito del Concilio” che glorificava “tutto ciò che è nuovo”.
ANTI SPIRITO DEL CONCILIO
Parlando di quest‟ultimo fenomeno il Cardinale disse: “Già durante le sedute e poi via via sempre più nel periodo successivo si contrappose un sedicente „spirito del Concilio‟ che in realtà è un vero „anti-spirito‟. Secondo questo pernicioso anti-spirito – Konzils-Ungeist per dirlo in tedesco – tutto ciò che è „nuovo‟ [o presunto tale: quante antiche eresie sono riapparse in questi anni, presentate come novità!], sarebbe sempre e comunque migliore di ciò che c‟è stato, o c‟è. È l‟anti-spirito del Concilio secondo il quale la storia della Chiesa sarebbe da iniziare dal Vaticano II, visto come una specie di punto zero” (Rapporto sulla fede, Edizioni San Paolo, 1985, p. 33).
Questo senso di esagerata passione per fare tutto ex novo, di guardare al passato con un certo senso di dispetto e di sorpassare le stesse indicazioni del Concilio, interpretandole a modo proprio, ha condizionato molti ambienti nella Chiesa man mano che il Concilio progrediva e poi nel tempo immediatamente successivo. A causa di questa tendenza alcuni elementi della liturgia Eucaristica stessa hanno subito accentuazioni sbilanciate. Per esempio: l‟aspetto conviviale dell‟Eucaristia a scapito della sua natura essenzialmente sacrificale; l‟aspetto assembleare e antropocentrico a scapito di quello cristocentrico e trascendentale; l‟aspetto del sacerdozio comune di tutti a scapito del ruolo insostituibile del sacerdozio ministeriale.
I riformatori, poi, accentuarono il concetto delle due mense – quella della Parola e quella dell‟Eucaristia – equiparando in qualche modo la presenza reale ed integrale di Cristo nelle specie Eucaristiche con la dinamicità della Parola proclamata. Ma la natura di queste due presenze non è da mettere a paragone, e una tale equiparazione non è neanche fedele alla dottrina ecclesiale sull‟Eucaristia.
Inoltre, un eccessivo e comunque ingenuo zelo per l‟ecumenismo li entusiasmò e condusse ad eliminare alcuni aspetti della liturgia, considerati “difficili” per i fratelli separati, e ad introdurre altri considerati “accomodanti”. Su questo punto qualche affermazione fatta dal Segretario del Consilium mostra tristemente come, anche a quel livello, tale spirito di apertura comportasse un problema. In una presentazione del padre Annibale Bugnini apparsa su “L‟Osservatore Romano” del 19 marzo 1965 si parla del “desiderio […] di scartare [dal nuovo rito] ogni pietra che potesse costituire anche solo l‟ombra di un rischio di inciampo o di dispiacere […] per i fratelli separati”. E, in un altro momento, che “la riforma liturgica ha fatto un notevole passo avanti e si è avvicinata alle forme liturgiche della Chiesa luterana” (“L‟Osservatore Romano”, 13 ottobre 1967). La Sacrosanctum Concilium, il documento conciliare che doveva essere l‟ispirazione centrale di questa riforma, non aveva dato nessuna disposizione esplicita per questo ultimo orientamento. Difatti, il documento conciliare sull‟Ecumenismo Unitatis Redintegratio, parlando dell‟eventuale possibilità della comune celebrazione eucaristica con i fratelli separati, mette una condizione: “Superatis ostaculis perfectam communionem ecclesiasticam impedientibus” – “superati gli ostacoli che impediscono la perfetta comunione ecclesiastica” (UR, 4). Tale indicazione, come si vede, dimostra la necessità di essere cauti e prudenti, per non cadere in un falso ottimismo, o ingenuità ecumenica, che avrebbe avuto effetti negativi sulla fede cattolica. Senza una comune intesa nella fede, cosa che richiede tanto impegno e tempo di riflessione come anche preghiera, una liturgia condivisa non è possibile, perché, come dice il famoso assioma lex orandi lex credendi, la fede e la preghiera sono intimamente collegate. La posizione del padre Bugnini sopra citata già non corrispondeva ad una apertura congrua da parte dei fratelli separati verso la fede Eucaristica del Concilio, poiché quando Papa Paolo VI scrisse la Lettera Enciclica Mysterium Fidei, chiarendo alcune ambiguità dottrinali sorte sulla questione della “transubstantiatio”, in alcuni ambienti protestanti e tra alcuni teologi cattolici sorsero delle polemiche. Il Papa spiegava il motivo di quell‟Enciclica, anche allo scopo di comunicare, con apostolica autorità, il suo pensiero, perché “la speranza, suscitata dal Concilio, di una nuova luce di pietà Eucaristica che investe tutta la Chiesa” sembrava essere “frustrata e inaridita dai semi già sparsi di false opinioni” (MF, 13).
Si percepisce in quell‟Enciclica pubblicata il 30 settembre 1965, appena tre mesi prima della fine del Concilio e meno di due anni dopo la pubblicazione della Sacrosanctum Concilium, un intenso senso di preoccupazione del Santo Padre su ciò che stava accadendo.
RIFORMA AFFRETTATA?
Tale situazione non è sorta solo a causa di un‟esagerata fretta per adeguare la liturgia cattolica alle liturgie dei “fratelli separati”, ma anche per un certo imprudente spirito di avventurismo teologico, di orientamenti ecclesiali parziali, di uno spirito di libertà poco equilibrato e di una decentralizzazione esagerata delle responsabilità della Santa Sede verso gli episcopati locali e quelle Commissioni o Uffici liturgici locali gestiti spesso da persone impreparate quanto a senso liturgico, magari da qualche laico che non celebrava la liturgia. Questa politica di permettere troppe decisioni alle Conferenze dei Vescovi, alle Commissioni liturgiche locali, o agli Ordinari in materia liturgica e soprattutto la facoltà concessa liberamente per le sperimentazioni liturgiche, non ha dato sempre un esito felice. Difatti, man mano che gli anni passavano la Santa Sede con altri Documenti controllava la situazione originalmente troppo fluida.
Che inizialmente il lavoro del Consilium per la realizzazione delle riforme Conciliari non fosse bene gestito, diventa chiaro quando si leggono i diari del Cardinale Ferdinando Antonelli, membro dello stesso. In una delle note scritte, lui descrive così il lavoro della Commissione liturgica: “Non sono entusiasta dei lavori. Mi dispiace del come è stata cambiata la Commissione: un raggruppamento di persone, molto incompetenti, più ancora avanzata nelle linee delle novità. Discussioni molto affrettate. Discussioni a base di impressioni; votazioni caotiche […] direzione debole […]. Mi dispiace che questioni, forse non tanto gravi in sé, ma gravide di conseguenze, vengano discusse e risolte da un organo che funziona così. La Commissione o il Consilium è composto da 42 membri: ieri sera eravamo 13, neanche un terzo”. (Nicola Giampietro, Il Cardinale Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, Studia Anselmiana 121, Roma 1998, pp. 228-229). In un altro passo egli scrive: “Ieri l‟altro, 23 luglio 1968 parlando con Mons. Giovanni Benelli, Sostituto della Segreteria di Stato, mostrai le mie preoccupazioni sulla riforma liturgica che diventa sempre più caotica e aberrante. Notavo in particolare:
1. la legge liturgica che fino al Concilio era una cosa sacra, per molti non esiste più. Ciascuno si ritiene autorizzato a fare quel che vuole e molti giovani fanno così;
2. la messa soprattutto è il punto doloroso. Si vanno diffondendo le messe in casa, in piccoli gruppi, in connessione con refezioni comuni: la cena;
3. ora comincia l‟azione disgregatrice intorno alla Confessione;
4. facevo notare che parte di responsabilità di questo stato di cose è da mettersi in relazione con il sistema degli esperimenti. Il Papa ha concesso al Consilium la facoltà di permettere gli esperimenti. Il Consilium usa larghissimamente di questa facoltà. Un esperimento fatto in uno o pochi ambienti chiusi (un monastero, una parrocchia funzionale) e per un tempo limitatissimo, può andare ed è utile, ma, concesso largamente e senza limiti stretti di tempi è la via aperta per l‟anarchia;
5. nel Consilium ci sono pochi Vescovi che abbiano una preparazione liturgica specifica, pochissimi che siano veri teologi” (Ibidem, p. 257).
I testi sopra citati sono solo una piccola parte dei commenti del Cardinale Antonelli sullo spirito che dominava l‟ambiente di lavoro ed il livello della consapevolezza pastorale-teologica e la metodologia seguita dallo stesso Consilium nel loro approccio alla riforma. Essendo stato un illustre membro di quella Commissione, anzi essendo stato un prelato che aveva lavorato nel processo della riforma liturgica Piana fin dai tempi di Papa Pio XII, conosceva bene ciò che doveva accadere e anche ciò che, purtroppo, non andava nel senso giusto.

RADICI FILOSOFICHE
Naturalmente tutto questo non fu un‟invenzione ex-novo da parte del Consilium o dei liturgisti di allora, ma una naturale conseguenza di uno spirito di umanesimo esagerato che invadeva la società secolare e così anche l‟ambiente teologico liturgico della Chiesa, gli inizi del quale si trovavano già, nel lontano passato, in quella definizione cartesiana della verità dell‟esistenza umana: “Cogito, ergo sum”. Nella stessa filosofia il mutamento fu tremendo. Portato avanti in seguito anche dallo stesso Lutero, per questa tendenza Dio diventa “Dio-per-noi” (für uns) non più “Dio-in-sé” (für sich). La teologia cattolica dell‟epoca in questo senso fu sfidata da una grande tentazione soggettivista, ma allo stesso tempo godeva di quella sicurezza della fede nelle verità rivelate da Dio la quale costituiva il patrimonio dottrinale della Chiesa. Così si sapeva che non è l‟uomo che sta al centro della scoperta di Dio, ma Dio stesso, è lui che fa il primo passo. Difatti, il primo versetto della Bibbia ci fa gustare la bellezza risplendente di questa fede: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1, 1). È lì che tutto inizia. È Dio che crea. Non esiste niente prima di lui. L‟uomo viene dopo, ed è la sua creatura, non il contrario. È questa la fede che anche Giovanni proclama: “Ciò che era fin dal principio ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita poiché la vita si è fatta visibile, noi l‟abbiamo veduta e di ciò noi rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre e si è resa visibile a noi” (1Gv 1, 1-3). È il Figlio che ha rivelato il Padre ed è in Lui che lo hanno visto, toccato e contemplato. Dio, in Gesù si è rivelato non solo Creatore, ma anche Salvatore. Non siamo noi uomini che lo abbiamo scoperto, tanto meno creato.
Per questo la liturgia non è, e non deve essere sottoposta ad un mero soggettivismo umano. Non è l‟uomo al centro della Liturgia, ma il Signore. Come Papa Pio XII nella sua Enciclica magistrale Mediator Dei insegnava: “La Sacra Liturgia è pertanto il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre, come Capo della Chiesa, ed è il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo e, per mezzo di Lui, all'Eterno Padre: è, per dirla in breve, il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra” (Cfr. testo latino in AAS, 39, 1947, pp. 528-529). Perciò la liturgia ha una dimensione essenzialmente divina e discendente per cui ciò che succede trascende le nostre azioni visibili. La dimensione ascendente della liturgia diventa un nostro adeguarsi all‟actio divina e lascia ben poco spazio alla nostra creatività; l‟essenziale consiste nel nostro lasciarci assorbire nell‟azione e dall‟azione di Cristo Sommo Sacerdote. In questo senso ciò che dovrebbe succedere in ogni riforma teologica, o liturgica, non è la sottomissione della fede e della disciplina alle nostre manipolazioni o creatività personali o comunitarie, ma il suscitare in noi un‟approfondita ed aggiornata scoperta delle verità oggettive già rivelate e delle tradizioni liturgiche già maturate nella storia. La riforma liturgica e, per questo, qualsiasi riforma, non può essere la rottura di un cammino storico per dar luogo ad un nuovo inizio. La stessa parola “riforma” connota questa verità e si distingue dalla parola “rivoluzione”. Ma quale fu l‟atteggiamento che veramente animò molti riformatori conciliari, riforma o rivoluzione? Il Cardinale Ratzinger risponde che “in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l‟edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l‟edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti” (Joseph Ratzinger, La mia vita, Edizioni San Paolo, 1997, p. 114). Così parzialmente, la riforma conciliare subì alcuni influssi:
a) filosofico-teologici dell‟Illuminismo e dei suoi corollari che accentuavano un certo tipo di antropocentrismo, il quale strada facendo influì anche sullo stesso movimento liturgico del XIX e XX secolo;
b) un certo romanticismo accentuato che sottolineò alcuni elementi liturgici cosiddetti dei primi cristiani;
c) un diffuso spirito di innovazione, per cui si volle fare tutto in un modo nuovo, libero ed ecumenicamente aperto.
La Mediator Dei fu un tentativo di Papa Pio XII di regolare in qualche modo il movimento liturgico antecedente ed indirizzarlo in modo positivo. La Sacrosanctum Concilium fu il punto culminante di ciò che i Pontefici, a partire da Pio X, avevano indicato come orientamento per una riforma effettiva della liturgia nella Chiesa. Erano documenti grandiosi e coglievano l‟essenza di quel processo di riforma nei punti più validi. Ma ci si domanda, ora, se ciò che accadde negli anni successivi abbia portato, in un‟ottica di continuità, i frutti auspicati da tale impegno Pontificio.

RIFORMA DELLA RIFORMA?
Vedendo i risultati di questa riforma, segnati anche da “ombre”, non sono poche le voci che auspicavano una “riforma della riforma”. L‟allora Cardinale Joseph Ratzinger, in un convegno tenuto nel luglio 2001 a Fontgombault (Francia), disse: “Però in questo progresso reale che il movimento liturgico portò – il quale ci guidò verso il Vaticano II, e la Sacrosanctum Concilium – vi era anche un pericolo: il disprezzo del Medioevo come anche della teologia scolastica. A partire da questo momento iniziò una separazione di vie […]. Mi pare che già verso gli inizi degli anni cinquanta e certamente dopo il Concilio, i rischi inerenti e anche visibili del movimento liturgico divennero una grande tentazione, un pericolo serio per la Chiesa […] perché i liturgisti avevano acquisito una autorità de facto: abbiamo sempre meno riconosciuta l‟autorità della Chiesa e l‟esperto diventava l‟autorità. Questo passaggio dell‟autorità agli esperti trasformò tutto e questi furono a loro volta influenzati da una esegesi profondamente condizionata da opinioni protestanti” (AA.VV, Autour de la Question Liturgique, Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Abbaye Notre-Dame, 2001, pp. 175-176).
Il Cardinale Ratzinger vide tre problemi di approccio liturgico per il nuovo Messale: primo, la necessità di assicurare l‟ecclesialità della liturgia, che non doveva lasciare spazio a delle alternative e ad una creatività libera; secondo, il pericolo di usare un linguaggio adattato a diverse sfumature, come l‟uguaglianza assoluta tra i sessi (linguaggio inclusivo); terzo la questione della direzione del sacerdote (cfr. Ibid., pp. 180-181). Ed è significativo che Papa Benedetto XVI da Cardinale, in diversi momenti, auspicasse una riforma della riforma per ricuperare accenti importanti ormai perduti della liturgia e poter camminare verso una vera riforma della Chiesa. Il suo pensiero sulla liturgia, per quanto riguarda la sua origine, natura e sviluppo come anche le carenze della riforma postconciliare, viene esposto con magistrale lucidità nelle sue opere, come anche nei suoi interventi degli ultimi anni. Basti solo leggere L‟Introduzione allo spirito della liturgia (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001) per essere convinti soprattutto del suo desiderio di intraprendere un‟ulteriore riforma della riforma che egli sembra proporre in quasi tutti gli argomenti trattati. Difatti nella premessa a questo libro l‟allora Cardinal Ratzinger parla della necessità di prendere, rapidamente, le misure necessarie per porre fine agli influssi dannosi dei diversi errati tentativi di restauro o di ricostruzione della Liturgia (cfr. p. 6).
Diventato Pastore Supremo Universale della Chiesa, Papa Benedetto XVI iniziò a dare vari segni della sua volontà per portare la liturgia della Chiesa verso un rinnovamento approfondito e più conciliare, nel senso che essa deve essere liberata da quei cambiamenti introdotti dai riformatori sotto l‟influsso di un certo tipo di liberalismo o meglio da una mentalità condizionata da quell‟anti-spirito del Concilio, di cui parlò nella sua intervista con il giornalista italiano Vittorio Messori (Rapporto sulla Fede, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005, p. 33).
Ricordiamo alcune prassi e atteggiamenti liturgici che egli ha cominciato a reintrodurre nella sua liturgia, ad esempio: il ritorno del Crocifisso e delle sette candele sull‟altare e il situarsi nelle sue celebrazioni verso il Crocifisso, il reimpiego dei paramenti liturgici antichi romani, l‟abbandono quasi totale delle danze e delle attività non liturgiche nelle celebrazioni, l‟uso frequente e più intenso del latino e del canto gregoriano, e, ultimamente il ricevere la Santa Comunione sulla lingua e in ginocchio. D‟altronde il fatto di permettere l‟uso libero dei libri liturgici tridentini, presentandoli anche come un possibile mezzo di arricchimento della liturgia, (cfr. la Lettera di accompagnamento all‟episcopato Mondiale) conferma ulteriormente questa volontà del Papa verso una riforma della riforma.
Il Santo Padre, mentre apprezza il cammino genuino della riforma postconciliare, attraverso i suoi scritti, soprattutto l‟Esortazione postsinodale Sacramentum Caritatis, e i suoi gesti, richiama la Chiesa ad una profonda riscoperta della liturgia cercando di arricchirla anche con il recupero del contenuto e delle forme tradizionali ad essa intimamente legate.
In questo verso il cammino della riforma va spinto ancora in avanti, non nel senso di un distacco o di una rottura totale con il passato, ma nella continuità della millenaria tradizione della Chiesa. L‟ermeneutica della continuità deve essere la chiave di qualsiasi apertura verso il futuro per evitare il rischio di incorrere in una spirale di “caduta libera”. Le tendenze postmoderne nella teologia, come anche nella liturgia, già dimostrano l‟imprudenza di questo tuffarsi nel buio. Da una parte, non bisogna lasciarsi imprigionare nel passato per evitare che l‟organismo complesso della Liturgia possa cessare di vivere. E dall‟altra parte non si può abbandonare l‟eredità storica della Chiesa e stabilire tutto ex novo perché un tale atteggiamento sarebbe come togliere la terra da sotto i propri piedi. Ed è qui che la linea di Papa Benedetto XVI assume un valore immenso. Come si potrà procedere in questa riforma? Questa è una domanda legittima e di vitale importanza. Esiste già un dibattito su una possibile metodologia della riforma della riforma. Alcuni propongono un ritorno alla liturgia tridentina, con qualche piccolo ritocco, mentre altri insistono su cambiamenti da apportare alla riforma già effettuata. Altri ancora vogliono progressi nella direzione già presa, progressi che potranno facilitare l‟ecumenismo e nuove aperture nella Chiesa. Ancora altri vogliono mantenere lo status quo attuale.
Considerando tutto questo, lo studio intrapreso da Don Claudio Crescimanno, Ipotesi di “riforma della riforma”, basato sul pensiero del Cardinale Joseph Ratzinger, può essere considerato un valido contributo e stimolo per una riflessione e discussione comune in materia. L‟autore, giustamente, inizia la sua riflessione presentando il pensiero del Papa sul vero significato dell‟Eucaristia, quello del sacrificio di Cristo, oscurato ed indebolito dai teologi e liturgisti nell‟epoca postconciliare con l‟accentuare la dimensione conviviale e assembleare. Dopo un dettagliato studio dell‟evoluzione dell‟attuale forma della Messa, l‟autore presenta un‟analisi critica sul ruolo esercitato dalle diverse forze riformatrici nell‟era immediatamente precedente e dopo il Concilio ed il cammino intrapreso dai riformatori nella preparazione dei diversi Messali postconciliari. Segue poi un‟ipotesi per una riforma della riforma del Messale, ove l‟autore suggerisce l‟integrazione nel Messale tradizionale di alcuni elementi della recente riforma liturgicamente validi. Don Claudio accetta che le sue proposte siano un “modesto contributo al dibattito in atto” (p. 170), sapendo già che forse non saranno tanto gradite per gli specialisti in materia. Ma afferma che “al di là dei circoli degli specialisti o della sterile contrapposizione tra fazioni” esiste una porzione non trascurabile di popolo cristiano fatta di piccole comunità coraggiose nella fede, fervorose nella preghiera e fedeli al Magistero, e affida il suo libro proprio a loro. Don Claudio sembra essere spinto verso questa ipotesi di riforma anche da un forte senso di orientamento pastorale, conscio della suprema lex in tutto questo – la salus animarum.
Parlando della salus animarum possiamo affermare che la liturgia è quel singolare momento in cui ogni singolo fedele come anche la comunità stessa radunata in preghiera, viene a “toccare” con i propri sensi, mente e cuore, l‟augusta presenza del Signore in mezzo alla loro vita, così fragile e limitata, il momento dell‟incontro con Dio, l‟Emmanuele. Non c‟è altro momento così grandioso come questo. Nella liturgia, e specificamente nella celebrazione Eucaristica, i cieli aprono le loro porte e la gloriosa presenza dell‟Agnello immolato, accompagnato dagli angeli e i cori celesti, discende sull‟altare unendo a sé e al suo perenne atto sacrificale ciò che si celebra per la salvezza degli uomini. Nessun altro momento è così importante per la Chiesa come quello in cui si celebra la liturgia, stimolo insostituibile della fede e della testimonianza cristiana. Per questo, non può essere veritiera ogni pretesa egoistica di poter manipolare, cambiare, o magari eliminare ciò che abbiamo ricevuto, o poter sottomettere alle teorie scientifiche umane o alla pedanteria delle scienze liturgiche, la trascendente nobiltà, dignità e la sacralità ed il senso del mistero della liturgia. Nessun liturgista o teologo ha la scienza o il diritto di pretendere che egli abbia il potere di decidere come la Chiesa deve essere unita in comunione di preghiera con il suo eterno Sposo Gesù. Ciò avviene in modo misterioso e sacro al di fuori delle nostre categorie scientifiche. Questo fu asserito sia dal Concilio di Trento che dal Concilio Vaticano II.
In questo senso i nostri sforzi sono solo al servizio della comunione. Questo servizio viene regolato secondo l‟azione dello Spirito, nella millenaria storia della Chiesa, e spesso ha origine nella devozionalità dei suoi membri, anche i più umili e semplici. Le parole di San Giovanni Crisostomo ci spiegano ciò che deve segnare il nostro atteggiamento davanti a questo grande mistero: “Quando vedi il Signore sacrificato e giacente, e il sacerdote che presiede il sacrificio e prega, e tutti arrossati di quel sangue prezioso, credi ancora di essere tra gli uomini e di stare sulla terra? Ma non ti senti subito trasportato nei cieli e spoglio di ogni pensiero della carne, con l‟anima nuda e con la mente pura, contempli le cose celesti?” (Giovanni Crisostomo, De Sacerdote, III, 4, Sch. 272, 142-144).

+ Albert Malcolm Ranjith
Segretario emerito
della Congregazione per il Culto Divino
e la Disciplina dei Sacramenti
Arcivescovo di Colombo

mercoledì 8 settembre 2010

Il progressismo - Trattato del Cardinal Giuseppe Siri

Viviamo nell’epoca delle «parole». Per vincere battaglie civili (e non solo queste) si coniano parole e detti icastici, riassuntivi (slogans). Per abbattere uomini si impiega qualche termine o classifica, che le circostanze suggeriscono atti allo scopo di demolire. Per anestetizzare cittadini e fedeli si coniano parole. Ciò che stupisce è il fatto per il quale gli uomini, invece di lasciarsi abbattere da autentiche spade, si lascino abbattere da sole parole. Perciò i termini, gli slogans, le classifiche di moda vanno vagliati, capiti, eventualmente smascherati. Comincio pertanto a pubblicare delle note chiarificatrici. Spero che il nostro clero vorrà leggersele bene, per evitare una sorte ingloriosa. Cominciamo dal termine più in voga, usato come un fendente o come una protezione per il proprio operato: «progressismo». Di tanta gente si dice che è o non è «progressista». Vediamoci chiaro e, se ci fosse da restituire un termine alla esatta ...

... funzione, non coartata, come è serena e dolce la nostra italica parlata, non bisogna ricusare quel merito.
Elenchiamo pertanto i casi più frequenti nei quali si usa il termine «progressista». Porgiamo uno specchio perché ognuno ci si guardi.

1. Essere indipendenti dalla logica teologica


Molte volte il «progressismo» significa questo, o, piuttosto quando ci si attribuisce una tale indipendenza, ci si gloria di essere «progressista». Vediamo dunque che vuol significare. Le conclusioni a poi.
Che è questo «disimpegno totale dalla logica teologica»?

Logica teologica è l’insieme di queste norme, applicando le quali si può documentatamente arrivare ad affermare come rivelata od anche come semplicemente certa una proposizione.
Queste norme, costituenti la logica teologica, in realtà si riducono (parliamo, si badi bene, della «logica», non della Rivelazione) ad un principio: il magistero infallibile della Chiesa. Infatti è al magistero infallibile della Chiesa, sia solenne, sia ordinario, che è affidata la certa autentica interpretazione sia della Scrittura che della divina tradizione. Ed è logico. Infatti, se Dio avesse consegnato agli uomini una quantità di rotoli scritti o di nastri magnetici per far udire la viva parola e si fosse fermato lì, ad un certo punto niente avrebbe funzionato, si sarebbe trovato modo di far dire alla divina Parola tutto quello che si vuole, il contrario di quel che si vuole, il contraddittorio di quel che si vuole e non si vuole, all’infinito. La verità salvifica non avrebbe potuto funzionare tra gli uomini. Le prove? Le abbiamo sotto gli occhi e ci appelliamo solo a due.
La prima è che con una natura immensamente nitida, la storia umana ha avuto in continuazione filosofie torbide, il contrario, il contradditorio di esse. La dimostrazione di quello che sa fare l’uomo nel suo pensiero, lasciato a se stesso ed agli stimoli del proprio io o delle proprie tenebre, la dà la storia della filosofia ed ancor meglio la filosofia della storia della filosofia.

La seconda sta nella sedicente larga produzione teologica d’oggi, dove proprio per l’oblio della logica si afferma il contrario di tutto, non esclusa la morte di Dio.
Il disegno divino nella istituzione del Magistero, al quale è collegato tutto quanto sta nell’opera della salvezza, si leva chiaro e necessario dal turbinio delle sfrenate cose umane.
Quello che oggi accade è la dimostrazione ab absurdo della verità e necessità del magistero ecclesiastico!
Il magistero ecclesiastico canonizza altri strumenti che diventano così «mezzi» per raggiungere nella certezza la verità teologica. Essi sono: i Padri, i Dottori, i Teologi, la Liturgia... purché siano consenzienti ed abbiano avuto la approvazione esplicita o implicita della Chiesa. Tale approvazione rende acquisita al Magistero stesso la verità espressa da altre fonti. Nessun Teologo, nessuna schiera di Teologi o Dottori, senza questa approvazione sicura del Magistero, conta qualcosa nella affermazione teologica. Tutt’al più, se risponderà alle ordinarie regole di un metodo scientifico, potrà condurre a formulare una ipotesi di lavoro.
Quelli che abbiamo chiamati «mezzi» di riflesso del magistero ecclesiastico costituiscono con lo stesso la «logica» della Teologia.
Questa logica è abbandonata da troppi. Ed è per questo che si leggono riviste e libri i quali contraddicono tranquillamente a quanto il Concilio di Trento ha definito, accettano modi di pensare che sono espressamente condannati nella enciclica Pascendi di s. Pio X, nonché nel suo Decreto Lamentabili; fanno le riabilitazioni di Loisy; mettono in dubbio il valore storico dei Libri storici della Sacra Scrittura, elevano a criterio le teorie distruttrici del protestante Bultman, sentono con indifferenza le proposizioni di qualche scrittore d’oltralpe, anche se toccano il centro della rivelazione divina, ossia la divinità di Cristo.
Naturalmente trattati senza freno i princìpi, si ha quel che si vuole della morale e della disciplina ecclesiastica.
Sotto questo fondamentale angolo di visuale il progressismo consiste nel trattare come relativa la verità rivelata, nel cambiarla il più presto possibile, nel dare agli uomini una libertà della quale in breve non sapranno che farsi, di fronte all’Assoluto.
Ridotto a questa frontiera il «progressismo» coincide col «relativismo» e all’uomo, «adorato», non si lascia più nulla, neppure delle sue speranze!
Naturalmente non tutte le persone etichettate come progressisti sanno queste cose. Ma esse accettano le conseguenze e le logiche deduzioni di quello che ignorano. Se hanno una colpa — questo lo giudichi Dio! — questa consiste nel non domandare il perché di quello in cui si fanatizzano.
In ogni modo l’oblio della logica teologica funge, anche se non conosciuta, da lasciapassare per le altre manifestazioni delle quali dobbiamo discorrere.
Tutto quello che abbiamo sfornato attraverso catechismi di vane lingue, dei quali fu pieno l’aere e che potrebbe venire sfornato in catechismi futuri, significherebbe la lenta distruzione della Fede e l’inganno più colpevole perpetrato ai danni dei piccoli che crescono.
Ne si può tacere la conseguenza ultima di un abbandono della logica teologica: l’assenza della certezza nei fedeli. Alla parola di Dio si può e si deve credere; nessuno può essere condizionato, se non ha giuste e appropriate conferme, dalle opinioni dei teologi. Ricordo il mio grande maestro di Teologia, il tedesco padre Lennerz S.J., che ripeteva sempre c con ragione: «Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti!».

2. Il «sociologismo»

Tutti quelli che amano essere chiamati progressisti fanno l’occhiolino al sociologismo anche se non sanno che cosa sia.
Esso consiste nel trasferire il fine della vita, il Paradiso, al quale tendere, la molla direttiva delle azioni, dal Cielo alla Terra. Pertanto non è il caso di occuparsi della salute eterna, bensì del benessere terreno, concentrare tutto nel dare tale benessere e godimento egualmente a tutti in questo mondo.
La manifestazione esterna di questo sociologismo è fare l’agitatore, il demagogo, il rivendicatore di beni fuggevoli, il consenziente a tutte le manifestazioni che esprimano la foga di questa tendenza.
Questo costituisce la più comune ed espressiva nota del progressismo. Sia ben chiaro che noi dobbiamo essere con la giustizia e che l’ordine della carità ci impone di avere come primi nell’oggetto dell’amore i bisognosi. Ma si tratta di altra cosa, perchè il sociologismo non si cura della salvezza eterna dei poveri ed usa tutti i metodi, anche immorali, che giudica bene o male favorevoli al benessere terreno, cercando di fatto di mandarli all’inferno.
Siamo anche qui ben lontani dal credere che tutto quello che si tinge di sociale o di rosso sia sociologismo e che i moltissimi attori di questa scena siano sociologisti coscienti della apostasia insita nel sociologismo. Diciamo solo che in realtà accettano le conseguenze di una concezione materialistica del mondo. Forse non lo sanno, forse sono semplicemente degli imitatori, forse seguono il vento credendo che esso spiri da quella parte; forse credono di far la parte degli stupidi, forse temono soltanto di essere etichettati per conservatori. Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole!
Forse si tratta di un modo per ingraziarsi qualche potente, per fare strada e, quel che è più ovvio, per fare soldi: se ne predica il dovere verso gli altri e intanto si intascano. Gli esempi abbondano! La sociologia pratica è diventata certamente una industria ed anche qui gli esempi non mancano.
Le massime del sociologismo avendo qualche — solo qualche — contatto con la dottrina cristiana della giustizia e della carità, pur involvendo altri ideali che tutte le verità cristiane acerbamente smentiscono, sono piuttosto semplici, sbrigative, atte al comizio, al facile consenso, al certo applauso, quasi visive, traducibili in termini di spesa quotidiana e pertanto rappresentano una via brevissima per stare al passo coi tempi!
Ma si sa dove vanno i tempi?
Questa terribile domanda, con quello che coinvolge, non se la rivolgono. Le esperienze dove sono arrivate, dove si sono fermate? E' proprio necessario rinnegare il Cielo, la carità verso tutti, per portare benessere ai nostri simili? E' proprio necessario essere rivoltosi, travolgere dighe, distruggere sacre tradizioni per rendersi utili ai nostri simili?
Ma, infine, nel Santuario, al quale siamo legati da sacre promesse, tutto questo è progresso, o non piuttosto congiura per strappare agli uomini l’ultimo lembo dell’umana dignità e della speranza eterna?

3. La nuova storiografia

Per i colti il progressismo ha un modo suo di rivelarsi a proposito di storia; sono progressista se giustifico Giordano Bruno, sono conservatore se lodo l’austero san Pier Damiani. Tutto qui!
Ripetiamo che si parla di storiografia nell’area della produzione, che vorrebbe chiamarsi «cattolica». Dell’altro qui non ci interessiamo.
La parte maggiore della produzione — ci sono, è vero, nobili e importanti eccezioni — pare obbedisca, per essere in sintonia col progresso, ai seguenti canoni:
— la società ecclesiastica è la prima causa dei guai, che hanno colpito i popoli;
— la Chiesa — detta per l’occasione postcostantiniana — avrebbe fatto con continui voltafaccia alleanza coi potentati di questo mondo per mantenersi una posizione di privilegio e di comodità;
— le intenzioni impure, le più recondite e malevole, vengono attribuite a personaggi fino a ieri ritenuti degni di ammirazione. Per questo sistema di giudizio alcuni Papi sono stati quasi radiati dalla Storia, non si sa con quale motivazione;
— tutta la storia ecclesiastica fino al 1972 è stata panegirica, unilaterale, concepita con costante pregiudizio laudatorio, mentre non è che un accumulo di pleonasmi i quali hanno alterato il volto di Cristo. Questa conclusione — tutti lo vedono — costituisce il fondamento per distruggere il più possibile nella Chiesa e ridurla ad un meschino ricalco del Protestantesimo. San Tommaso Moro, martire, è stato messo addirittura sul piano di Lutero;
— le vite dei Santi vanno riportate a dimensioni «umane» con difetti, peccati, persino delitti, mentre gli aspetti soprannaturali tendono ad essere relegati nel solaio dei miti;
— il valore della Tradizione e delle tradizioni è del tutto irriso, con evidente oltraggio alla obiettività storica, perché, se non sempre, le tradizioni che attraversano senza inquinamenti i secoli hanno sempre una causa che le ha generate.
Si potrebbe continuare.
Ma non si può tacere il rovescio della medaglia: i personaggi vengono magnificati perché si sono rivoltati, perché hanno messo a posto la legittima Autorità, perché hanno avuto il coraggio di distruggere quello che altri hanno edificato, hanno rivendicato la «libertà» dell’uomo con la indipendenza del loro pensiero, incurante della verità. Gli eretici diventano vittime, mezzi galantuomini... qualcuno ha osato parlare di una canonizzazione di Lutero. È condannevole chi ha difeso la libertà della Chiesa, la libertà della scuola cattolica, che ha imposto ai renitenti la disciplina ecclesiastica. Tutti sanno la sorte riservata a coloro che ancora osano salvaguardarla!
Si capisce benissimo la logica interna di questo andazzo della storiografia: la santità, la penitenza, la vera povertà, il distacco dal mondo hanno sempre dato fastidio e continuano a darlo dalle tombe, come se queste non potessero mai essere chiuse.
È difficile sia accolto nel club progressista chi dice bene del passato!

4. La Bibbia va interpretata solo e liberamente dai biblisti. È questo un caposaldo d’obbligo del progressismo.
Siamo arrivati ad una questione, o meglio ad una affermazione veramente nodale in tutta la storia del progressismo ecclesiastico moderno.
Bisogna rifarsi ai fatti, i quali non cominciarono precisamente in quella seconda seduta del Vaticano secondo, nella prima sessione, nella quale taluni gioirono, credendo che due interventi niente affatto felici avessero posto una buona volta la scure alla radice della divina tradizione ed avessero spianato la via alla conversione verso il Protestantesimo.
Quei due interventi, consci o no di portare l’afflato di male intenzionate persone, avevano dei precedenti. Eravamo presenti in mezzo a tutti gli avvenimenti e siamo ben sicuri di quello che diciamo. Da tempo, e molti atti di Pio XII ne fanno fede, il bacillo di volere interpretare la Sacra Scrittura in modo «privato» detto scientifico era entrato, pur non osando entrare nella editoria di divulgazione per la stretta vigilanza degli Imprimatur. La storia è dunque assai vecchia, ma solo negli ultimi tempi è diventata di portata comune. Eccone i punti.
— La filologia, la archeologia, le ricerche linguistiche, i procedimenti comparati (ad usum delphini), ma soprattutto le svariate opinioni di tutti gli scrittori specialmente d’oltralpe, ai quali generalmente si fa credenza solo citandone il nome e il titolo (mai o quasi mai chiedendo le ragioni e vagliandole), costituiscono il vero, unico modo de facto di interpretare la Bibbia.
Non importa si pronunci una parola; la pronunciamo Noi: questo è libero esame, perché sostituisce il «placitum» privato al primo vero mezzo stabilito da Dio per la interpretazione della sua natura: il Magistero. La parola «libero esame» viene accuratamente taciuta e continuamente applicata.
— Il complesso sopra citato, a parte che è la ripetizione di teorie propinate nel secolo scorso e sulle quali le scuole cattoliche hanno riso per più di mezzo secolo, è soggetto ad un flusso e riflusso, ad un susseguirsi di affermazioni e di smentite, ad una produzione di fantasia, che da solo non può essere, in cosa tanto grave, vera garanzia.
— La ermeneutica cattolica ha sempre insegnato che la prima interpretazione delle Scritture, comparata con le Scritture e con la divina tradizione, riceve la autentica garanzia di certezza dal Magistero.
Se la scioltezza di interpretazione della Bibbia da ogni vincolo precostituito da Dio stesso si chiama «progresso», ciò significa che tale progresso porta con sé alla eresia ed alla apostasia. Come è ben sovente accaduto sotto gli occhi di tutti. Ogni elemento è utile alla più adeguata interpretazione della Bibbia, certo! Ma il primo, condizionante tutti gli altri, è quello che ha determinato Iddio. Niente di più logico e di più ovvio.
Non è compito di questa lettera vedere le conseguenze pratiche di tutto ciò. La materia biblica non è in fin dei conti una materia esoterica, nella quale solo gli iniziati possono entrare con perfetta riverenza e grande circospezione. Qualunque uomo, pratico di pensiero e di logica, messo dinanzi ad una protasi (putacaso una locuzione siriaca) ed una apodosi (p.e. la interpretazione di un passo di Matteo) quando la prima gli è spiegata (e non occorre molto; spesso basta un dizionario), è in grado di vedere se è valevole il rapporto di causa, di effetto affermato tra i due termini. Non è il caso di assumere la sufficienza che il buon don Ferrante assumeva quando dissertava sulle strane parole «sostanza» ed «accidente» cavandone la inesistenza della peste. Il che non era vero!
Insistiamo sull’argomento perché proprio qui sta un centro di tutto il fenomeno che va sotto il nome di «progressismo».

5. Le allegre «teologie»

Pare che un buon progressista si debba mettere qui in fila.
Ecco il fatto: si sta costruendo una teologia per ogni cosa, a proposito e a sproposito: del lavoro, dell’uomo (antropologia), della tecnica, delle comunicazioni sociali, della comunità, della morte di Dio (?), della speranza, della liberazione e della rivoluzione... Quasi tutte queste voci sono decorate di notevoli volumi. Non c’è alcun dubbio che tale proliferazione è una delle più grandi caratteristiche del progressismo. Vediamo di capirci.
Queste sono vere «teologie», anzitutto?
È «teologia» quella in cui le affermazioni sono dimostrate dalle fonti teologiche. Quando le affermazioni vengono basandosi sui criteri di qualunque manifestazione saggistica, non abbiamo Teologia. Avremo tutto quello che si vuole, vero o falso, ma certo non avremo Teologia. Queste teologie, salvo in qualche parte e taluna soltanto, non sono affatto «Teologia». Noi dobbiamo protestare contro l’abuso di un termine che la fatica dei secoli ha reso venerandi e assolutamente proprio.
In secondo luogo dovremmo porci la domanda se queste teologie contengono verità. Non è nell’intento e nell’assunto di questa nota occuparci del merito, ossia dei «contenuti» di queste teologie o sedicenti teologie. Ci limitiamo solo a fissarne alcuni caratteri comuni.
— Lo schema di queste teologie segue gli stati d’animo che si vivono nel nostro tormentato secolo e pertanto hanno più un carattere di rivelazione della nostra situazione concreta che un vero contenuto oggettivo e permanente.
— Difatti puntano su assiomi cari a qualche pensatore dell’Ottocento o del Novecento. Vanno secondo il vento che tira. Il «sociologismo», del quale abbiamo già parlato e che tiene il campo, derivando da un principio messo dal cristianissimo e devoto Mounier, di fatto si ispira al marxismo, del quale la povera gente ha già esaurito la esperienza che non ha invece ancora illuminato i suoi più o meno stanchi assertori.
Sarebbe forse questa la «Nova Theologia»? Risentiamo ancora oggi con perfetta vivezza una voce potente, modulata magnificamente in modo oratorio, che nel Vaticano secondo si levò per chiedere — con altre cose — una «Nova Theologia». Non potevamo vedere dal nostro posto il Padre al quale apparteneva quella magnifica voce. Sono passati più di dieci anni e non sono riuscito a capire che cosa l’Oratore intendesse propriamente per «Nova Theologia». Se le varie teologie delle quali abbiamo parlato, denominandole «allegre», sono una risposta alla domanda, bisogna dichiararsi al tutto insoddisfatti.
Ma sotto il fatto, presentato come un fenomeno «caratterizzante il progressismo», c’è ben altro e ben più importante.
C’è la valutazione negativa di tutta la Teologia fino al 1962.
E questo è grave. Infatti.
La Teologia ha condotto per tanti secoli questo grande lavoro.
Ha preso da tutte le Fonti autentiche il pensiero della rivelazione divina e, senza forzature o deformazioni (parliamo del filone, non dei cantanti extra chorum), le ha messe insieme pazientemente, riducendole in formule accessibili all’indagine del nostro pensiero. Lavoro paziente di ricerca, di accostamento, di sintesi. A tutto ha dato un ordine che fosse più scorrevole per la logica dell’apprendimento umano. Niente ha accolto che non fosse secondo la mente delle Fonti. Questo lavoro immenso e prezioso si chiama «istituzionalizzazione». Tutto quello che documentatamente raccolto ha cercato di penetrare, aiutandosi coi princìpi del buon senso umano, nella misura in cui era consono alle Fonti o addirittura derivato da esse, tutto questo costituisce la parte «speculativa» della Teologia, senza della quale la parte sopra descritta (positiva) non aprirebbe sufficientemente il suo significato alla intelligenza umana. Intendiamoci bene: non ha accolto le filosofie transeunti, ma il buon senso umano, quello assunto da Dio stesso nell’atto di calare la Sua Rivelazione nelle forme concettuali a noi solite.
Ed ecco la finale interessante: tutto questo, per la serietà del procedimento, ossia del metodo, non permette di fare quello che si vuole, quello che comoda, quello che mette a vento secondo le mode transeunti. Per questo la Teologia speculativa è venuta a noia; meglio è dilettarsi sulle «variazioni» estranee al metodo.
Tutto ciò è in odio alla Teologia. Non dunque «Nova Theologia», ma «anatematizzata Teologia».
La Teologia, occupandosi del pensiero da Dio comunicato agli uomini, ha da camminare fino alla fine dei tempi e solo così compirà la sua missione. Vi sono in essa filoni ancora inesplorati, che possono dare ansa al genio di molti santi Tommasi d’Aquino. Ben vengano, ma sarà una cosa seria!
La questione sarà chiarita da quanto stiamo per dire al numero seguente.

6. Accogliere ed imparentarsi quanto è possibile con tutte le varie filosofie

Altro appannaggio che assicura la qualifica ambita di «progressista». Un principio decantato in tutti i modi dal progressismo è quello di accogliere tutto il pensiero via via fluente, cercare di adeguare a quello il messaggio cristiano e, se occorre, fare secondo quello, via via, una reinterpretazione della rivelazione divina.
Chi non accede a questo punto di vista è un trito conservatore, un vecchio inutile rudere, al quale nessuna persona colta crederà più.
Abbiamo detto il fatto in forma assolutamente cruda; molti, che amano essere progressisti, un punto di vista del genere amano presentarlo in dosi variabili, anche omeopatiche, si da permettere sempre una tempestiva ritirata strategica.
Guardiamo bene in faccia questa faccenda.
— Il pensiero umano cambia, si dice. Meglio: cambia il pensiero accademico a seconda degli idoli del momento. Fuori della professione filosofica ed intellettuale etichettata, continua a vivere bene o male il buon senso umano. È vero però che gli strumenti della cultura si orientano secondo i placita di moda e così influenzano molti spiriti e molti avvenimenti, come accade nel nostro tempo per i metodi hegeliano e freudiano dopo che i loro autori sono sconosciuti ai più e sono, comunque, morti.
— Accettare qualunque pensiero umano, spesso contraddittorio, significa qualcosa di più che cambiare testa, ma significa soprattutto non credere alla esistenza della verità. Se questa oggi è bianca, domani è nera, vuol dire che non esiste.
La conseguenza logica è patente: se si deve aggiustare sempre la Parola di Dio a seconda di questo cangiante scenario, si accetta che non esiste la verità, la Rivelazione, Dio. La consequenzialità è tremenda, ma non la si sfugge. Lo stesso vale per la reinterpretazione del dogma.
Il progressismo qui accetta il relativismo. Che cosa può più difendere nella Fede? È distrutto tutto. Non eresia, ma anche apostasia!
Con tutto questo non si esclude affatto che le diverse e contraddittorie manifestazioni del pensiero possano avere qualche parte od aspetto immune dalla sua interna logica distruttiva e pertanto accettabile, che taluni aspetti vengano illuminati, che talune stimolazioni siano afferenti. Tanto meno si esclude che il messaggio evangelico vada presentato in modo comprensibile agli uomini del proprio tempo, usando con la dovuta cautela il suo linguaggio ed i suoi mezzi espressivi.
La parentela tra il progressismo ed il relativismo, ossia il modernismo condannato, è una parentela troppo vergognosa per gloriarsene.

7. Il rifiuto della apologetica

Siamo sempre nel bagaglio che autorizza ad essere progressisti.
Le premesse della Fede (apologetica) non si dimostrano più. La ragione? È stata già detta e scende logica dalle sue premesse: abbiamo visto che il progressismo accetta il relativismo (anche quando smentisce, nei suoi più pavidi e i meno aperti cultori). Abbiamo visto che per questo non esiste verità obiettiva. Dobbiamo dedurne che la questione della Fede è una mera questione di fede
devozionale, insufflata dal sentimento (modernismo); che c’è dunque da dimostrare? Niente.
Difatti in campo biblico si mette in dubbio o il testo qualunque o il significato che la Chiesa (Magistero) gli ha sempre attribuito, si mette in dubbio la storicità dei Vangeli, della Resurrezione di Cristo... Non occorre dimostrare queste cose. La Fede viene bene e la si tiene; è inutile cercare degli elementi di prova.
Non vale che nessun libro storico della antichità abbia dimostrazioni di critica esterna e interna, quale hanno i libri della Bibbia. Queste cose non servono più.
Abbiamo visto e vediamo tuttora tanta gente tornare a Dio, solo perché è possibile dare una dimostrazione scientifica, poniamo dello Evangelo di Matteo. Ma bisogna rinnegare anche questa onesta capacità che il Vangelo di Matteo — come gli altri — ha di farsi precedere dalla più rigorosa documentazione della sua autenticità. Questo è il progressismo. Molti anni innanzi non riuscivamo a capire perché uno scrittore di non troppa vaglia non volesse sentir parlare di «apologetica»; ora abbiamo capito. Ma non che lui lo sapesse, non era da tanto; era manovrato da chi tacendo lo sapeva.
Molti che nella più perfetta buona fede hanno dato un certo ordine nuovo alle materie teologiche da studiare, ordine al quale mai abbiamo consentito, non sapevano di eseguire un comando del modernismo latente sotto la cenere.
Il silenzio in fatto di apologetica, che si sente tutto intorno, le meraviglie sincere espresse a chi ritiene sempre necessaria la apologetica, il fingere di ignorare la sequela logica dei «perché» della mente degli uomini, indica fin dove è entrato il modernismo anche in uomini integerrimi ed onesti.
Si guardi bene e, soprattutto, si lasci da parte l’inutile erudizione, usando la propria testa, e si vedrà che tutto il progressismo è venato di modernismo. Forse il rifiuto della apologetica ne è la manifestazione più rivelatrice. Citare, sì; ragionare, no! Perché la ragione e il suo valore non può venire accolta dal modernista. Ci voleva poi tanto a capirlo?

8. La riabilitazione degli eretici

Qui c’è la larghezza di cuore del progressismo.
Abbiamo già ricordato al n. 3 la trovata di chi ha proposto la canonizzazione di Lutero. Ma c’è altro: i colpiti dagli anatemi del passato riscuotono una notevole simpatia ed hanno molti avvocati difensori, per lo meno in cerca di attenuanti. Giordano Bruno, ad esempio, in talune riviste riemerge dalle ceneri con l’aria di dire «mi avete fatto aspettare quattro secoli, ma ce l’ho fatta». Gli scritti di autori protestanti, che dovrebbero essere all’Indice in forza del canone 1399, sono citati abitualmente al posto di sant’Agostino e di san Tommaso. L’euforia più entusiasta accoglie tutti quelli che sono stati colpiti da censure canoniche, mai come oggi, meritate.
Ma è normale tutto questo?
I figli che elogiano in casa quelli che hanno fatto andare in rovina i vecchi, che tengono bordone coi persecutori dei propri parenti, si chiamano «degeneri».
Evidentemente la capacità logica di distinguere tra la divina istituzione della Chiesa e gli uomini che la conducono fa al tutto difetto.
Ma l’intendimento sotterraneo non è poi tanto invisibile. Si innalzano le presunte vittime del magistero ecclesiastico, per colpire il magistero ecclesiastico; si magnificano i distruttori della disciplina ecclesiastica per umiliare quella Gerarchia, che tutela la stessa disciplina. Agli eretici ed ai ribelli consiglieremmo di non fidarsi troppo di tali contorti amici.
Molti errori si affermano, si difendono, si divulgano, non tanto per se stessi, ma solo per far dispetto a qualcuno. Essi sono semplicemente lo sfogo delle più bambinesche passioni umane.
Tutto fa brodo e, elogiando un po’ i ribelli, sostenendo un po’ gli sbandati, rivoltando le cose a modo proprio, si fanno le vendette, si manifestano le invidie, si rendono noti i disappunti di quelli che credono di non esser potuti «arrivare»; soprattutto, nella gran fiera, si fanno meglio i propri comodi. I peggiori!
Le condanne ci sono, eccome, ma sono, in via storica, per coloro che nel passato hanno tenuto duro e fatto il loro dovere e per quelli che oggi, rendendosi conto della confusione e del regresso spirituale, vorrebbero fermarne le cause.
Si direbbe che i Santi appartengano al passato e gli eretici al futuro: è un pericoloso paradosso.

9. L’antigiuridicismo

Chi lo afferma è sempre stimato vero progressista.
Non tutti hanno il coraggio di dire che ogni legge dovrebbe essere abolita, ma moltissimi lo pensano e non vogliono rendersi conto che la legge è l’unico strumento per tenere in ordine e col minimo loro danno degli uomini liberi. L’affermazione sta proprio all’estremo confine della ragionevolezza.
La mania è come un vento del deserto, che brucia tutto e lo si trova dappertutto, anche sotto mentite spoglie. Enumeriamo le più ovvie applicazioni, alle quali un numero enorme di persone per bene abbocca, mentre potrebbe in tempo utile evitare delle dannose conseguenze.
Ovunque si vogliono le Assemblee: esse indichino, esse decidano. La ragione? Il numero diluisce e fa scomparire — così credono — uno che comandi, il regolamento che limiti. Autorità e regolamenti sono strumenti — oltre tutto — anche giuridici.
Poiché non pochi capiscono come vanno a finire le Assemblee cercano di restringere ed usare qualcosa che rassomigli ad una «assemblea ridotta» con qualche regolamento e con un responsabile. Si, parliamo di «responsabili», perché il terrore di macchiarsi di giudiricismo è tale che non si vuole più sentir chiamarsi «presidente», termine troppo giuridico, e ci si salva con una semplice variazione lessicale.
Altra forma è l’uso maldestro della «base». Diciamo maldestro perché il termine può essere usato anche in senso buono. Ma l’uso più ricorrente è quello in cui il timore del temutissimo giuridicismo è tale da far paventare le «responsabilità» (termine giuridico, oltreché morale) e pertanto tutto si scarica sulla «base».
Non diciamo affatto che i termini, qui proposti come esempio della posizione avversa al giuridicismo, siano cattivi. Tutt’altro! Diciamo solo che mascherano sulla bocca di taluni una debolezza.
Per parlare chiaro diciamo che mascherano facilmente una «ipocrisia». Molti — e lo si osserva nei gruppuscoli, anche minori — temono di dirsi «capo» o «presidente», ma aspirano in ogni modo, anche violento, a fare i «tiranni».
La verità è tutta qui: gli uomini liberi si tengono a freno, in modo da realizzare una compatibile vita sociale solo in due modi: «la violenza o la legge». Ricordiamo che la paura è un riflesso della violenza.
Non si vuole la legge? Si sceglie la violenza?
E questo sarebbe progresso? Ma si sa quello che si dice e si scrive?
Quando fu pubblicato — alla macchia — un abbozzo di «Legge Fondamentale» per il futuro Codice di Diritto Canonico, fu il finimondo, anche e soprattutto in taluni ambienti cattolici. La ragione non era tanto il fatto che quell’abbozzo metteva insieme poco opportunamente elementi di diritto divino ed elementi di diritto umano (il che sarebbe stato buon motivo per criticare), ma solo perché era una «Legge». Si preferivano dei predicozzi.
La contestazione entro la Chiesa fu tutta qui od almeno originariamente qui. E nasceva da una mancanza di logica, come appare dal sopra detto e dal fatto che alla legge si sostituisce la forza. E pensare che a gridare più forte era gente adusa a cantare a Lodi e a Vespro l’inno alla «divina» libertà dell’uomo, o meglio della «persona umana»!
Ecco dove si arriva a forza di svuotare la Teologia e dileggiare il vecchio catechismo dalle idee chiare e precise!

10. La crociata antitrionfalistica

Chi è antitrionfalista, nessuno lo dubita, è progressista.
È la principale caratteristica esterna — ma non solo esterna — del progressismo tra i cristiani.
La parola trionfalismo, davanti alla quale tante persone sentono tremare le vene e i polsi o dalla quale si sentono spinti a far imprese giganti di ripulitura, fa d’ogni erba fascio.
Vediamo questo fascio.
L’autorità dà noia. Ne devono scomparire i segni esterni, perché muoia essa stessa di esaurimento. Essa ha bisogno di segni visibili, dato che il valore morale per il quale ordina e comanda non lo si vede e non lo si tocca. Quando cerca semplicemente di far sì che gli altrui s’accorgano di essa e del suo dovere, fa del trionfalismo.
La Fede, i Sacramenti, il divin sacrificio si manifestano attraverso atti semplici ed anche dimessi. Hanno bisogno, i fedeli, di essere aiutati a vedere quello che è reale, ma che non si vede con gli occhi della carne. Ebbene, se si fa qualcosa di esteriore che indichi la grandezza delle cose divine, la maestà di Dio, la infinita importanza del santo sacrificio ed in genere del culto divino, si fa del trionfalismo: bisogna stroncare. Ma, se si rivela la voglia di ballare a suon di ritmo durante le azioni liturgiche, non si ha trionfalismo e tutto si può fare.
Se al Tempio si dà un decoro per aiutare gli uomini a rendersi conto della grandezza di Dio, della vita, del suo fine; se si domanda per esso di tenere lontane le stranezze che disturbano, che disambientano il raccoglimento e che aiutano la devozione, si fa del trionfalismo. Spoliazione sempre!
Se si porta rispetto al Papa, a quanto denota esternamente la Sua suprema potestà, necessaria alla Chiesa, e pertanto alla salute, si fa del trionfalismo. Bisogna umiliare, avvilire, possibilmente deturpare e lordare: quella sarebbe la vera Fede vissuta.
Chi ha pronunciato per primo la disgraziata parola «trionfalismo» non ha riflettuto che dava modo di fare una sintesi di tutti gli appetiti psicologici, patologici, distruttori che potessero trovarsi tra i fedeli e tra gli uomini di Chiesa.
Il terrore del trionfalismo fa sì che tutto starebbe bene solo nella Gehenna. Non è solo questione di gusti.
Il terrore del trionfalismo — questa parola ha quasi tanto potere di agire sugli spiritelli quanto un termine qualificativo vociferato nella politica italiana — ha delle sottospecie che si notano nel conformismo col quale si accettano e osservano — non le leggi liturgiche emesse dalla legittima Autorità — ma le mode introdotte col criterio del pugno in faccia.
Il progressismo ha aspetti che interessano il piano culturale e questo pone limiti di numero e di qualità, ma, quando mette in moto la macchina antitrionfalistica, raccoglie gente come nei paesi le bande dei suonatori.

11. La indisciplina endemica

Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. Per tale motivo abbiamo usato la parola «endemica». Chi dimostra questo in modo sbarazzino ha diritto al titolo.
Guardiamo bene in faccia la triste realtà; essa sembra avere tali coordinate, tali ritmi da doversi ritenere che risponda ad un piano diabolicamente congegnato. C’è infatti una tale logica nella successione degli atti o manifestazioni di questa indisciplina che bisogna pensare ad un disegno preciso ed intelligente.
In un primo momento si è gettata una confusione nel campo delle idee. Ricordo la reazione isterica di un personaggio del quale un dipendente era stato multato da altri di «neomodernismo»! A ragione!
In un secondo momento, dopo aver gettato la confusione nella Fede, fondamento di tutto, si è aggredita la morale, per rendere nulla la norma e lasciare libertà di espressione ad ogni atto umano.
A questo punto si sono attaccati gli elementi esterni che «tenevano insieme la compagine ecclesiastica del clero»: abito, seminari, studi, con una confusione estrosissima di iniziative culturali innumerevoli.
Poi si è immessa la idea sociologistica del paradiso in terra al posto del Ciclo, della rivoluzione permanente invece della pace e si è dato un valore simbolico agli atti di culto verso un Signore ormai confinato nelle nebbie.
Si è discusso del celibato sacerdotale, anche da maestri, ignorando che la Chiesa non era stata più in grado — almeno questo! — di migliorare e fare avanzare i popoli dove il celibato era abolito. Ultimo e permanente ritrovato: discutere su cose certe, come se non lo fossero, e non lo fossero da Gesù Cristo.
Non tutti sono arrivati in fondo, molti sono arroccati senza aver una idea delle conseguenze sugli stati intermedi, altri hanno di pan passo saltato tutto e tutti. Al di sotto resta ancora il popolo, che è buono e al quale pensa Dio evidentemente. Si moltiplicano gli slogans, non si insegna il catechismo; si parla di pastorale e si disertano gradatamente tutti i ministeri; si parla della Parola di Dio e si insegna tranquillamente che è quasi tutta una fiaba, si disserta della vicinanza con Dio e si irride o la si tratta come se fosse risibile la santissima Eucarestia. Almeno in pratica. Tutto questo è progresso!

12. La bassa quota

Fin qui, non lo nego, ho raccolto le posizioni mentali e pratiche alle quali si fa l’onore di attribuire il termine «progressismo». Si tratta di quelle piuttosto intellettuali. E l’ho fatto coscientemente, perché il rimanente, specie per mezzo della comunicazione sociale, discende da quello che in un modo o nell’altro sta al piano superiore della esperienza intellettuale.
Ma c’è un «modo di agire» più semplice, più «pop», che forma il loggione per il palcoscenico descritto sopra, che costituisce il codazzo confuso e sparpagliato del corteo. In tale codazzo stanno tutti coloro che leggono a vanvera o credono di capire o non hanno senso critico per giudicare. Va da sé che la maggior parte delle cose pubblicate in campo cattolico cercano di tingersi secondo quello che piace al «progressismo». Ed ecco.
Nel clero la tessera del progressismo è l’abito, borghese naturalmente, o camuffato in modo tale da crearne la impressione. La norma italiana permette il clergyman, ma ha chiaramente detto che l’abito «normale» è la talare. Forma e colore: due cose che per l’Italia sono ben poco rispettate. Chi porta la talare sta fuori del progresso. Invece la talare, «difesa dalla norma di Legge come abito normale», permette di non perdersi mai nella massa, di restare in evidenza, di costituire una testimonianza di sacralità e di coraggio. Su questo punto credo dovrò ritornare. Infatti in questo momento il pericolo più grave per il clero è quello di scomparire. Sta scomparendo, perché tutto ormai non s’accorge nel mondo ufficiale, della cultura, della politica, dell’arte che ci siamo anche noi. Tra noi si arriva anche al punto di proclamare che non c’è più il «cristianesimo». Forse che non è indicativo il Referendum sul divorzio? Ho la impressione che quasi nessuno si sia provato a studiare il nesso tra l’esito del Referendum e l’abito del prete, tra il Referendum e la pratica distruzione in gran parte d’Italia della Azione Cattolica. So benissimo che il popolo ha ancora la Fede nel fondo del suo cuore e la rinverdisce ad ogni spinta, ma tutto il livore anticlericale e massonico che si è impadronito di quasi tutti i mezzi di espressione fa credere il contrario, agisce come se la Chiesa fosse morta (il che è tutt’altro che vero!); ma sono molti di casa nostra che danno mano a tutto questo.
Amare la promiscuità, tinteggiarsi di mondanità, discutere la legittima Autorità e Cristo che l’ha costituita, costituisce benemerenza progressista.
Andare a Taizé invece che a Lourdes o a Roma costituisce progressismo, mentre si va ad uno dei più grandi equivoci religiosi del secolo.
Animare gruppi «detti magari di spiritualità» (parola della quale si potrebbe dire come «montes a movendo, tanquam lucus a lucendo e canonicus a canendo»), nei quali ci si infischia soprattutto del parroco e del Vescovo e del Papa, costituisce una delle più soddisfacenti esercitazioni del progressismo. Invitare persone discusse, dubbie nella Fede, dubbie nella disciplina, permette l’acquisire il sorriso compiacente di quanti amano classificarsi progressisti.
Soprattutto: chi parla più tra costoro di santità, di ascetica, di mortificazione, di dedizioni senza plausi sospetti? Chi accetta la povertà, quella alla quale ci lega il nostro dovere, non ostentata, ma praticata? Nella Diocesi di Genova si sono salvati Altari e Tabernacoli, ma si deve lavorare molto per riportare tutto e tutti al vero culto della SS. Eucarestia. Quanto si parla della santissima Vergine? Recentemente si sono dette pubblicamente delle bestemmie autentiche contro la santissima Madre del Signore e nostra e — che si sappia — nessuno di quelli che le hanno ascoltate ha reagito.
Al posto delle Associazioni possono sorgere gruppi, che non impegnano nessuno, per parlare ai quali non occorre prepararsi, ma dei quali è sufficiente accarezzare le debolezze, magari ammannendo discussioni sul sesso.
Dove è andato a finire per taluni il discorso sulla purezza e sulla modestia? Non se ne parla perché, orribile a dirsi, si ha ‘vergogna di Dio’ .
Ecco il progressismo «pop», da pochi soldi, ma dalle molte colpe.
Questo discorso non è affatto finito, perché si rivolge ad un fatto che tenta di mettere al posto del sacrificio, richiestoci da Dio, il nostro comodo, il nostro piacere, la nostra anarchica indipendenza. La via dell’inferno.

Conclusione

Abbiamo parlato del «progressismo», non del «progresso». Il primo cammina a grandi passi, quando non c’è già arrivato, verso la eresia, lo scisma, l’apostasia, la scollatura di tutto. Il secondo va rispettato come è sempre stato rispettato, nelle sue leggi fisiologiche, che rinnovano l’organismo, ma non lo alterano, né lo distruggono. La parola «progresso» va difesa dalla contaminazione con la parola «progressismo». Questo è una accolta di perversioni, di errori e di viltà; quello è un segno di vita degli spiriti migliori. Ho scritto perché il clero sia illuminato. Le note sull’argomento continueranno.

Il progressismo - del Cardinal Giuseppe Siri [Dalla «Rivista Diocesana Genovese», gennaio 1975, pp. 22-36]

lunedì 6 settembre 2010

LA LITURGIA TRADIZIONALE

Pensieri dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI

“Va qui ricordato quanto osservò il Cardinale Newman: nel corso della sua storia la Chiesa non ha mai abolito o proibito forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa. […]
In molti luoghi persistono e si perpetuano difficoltà perché alcuni vescovi, preti e fedeli considerano questo attaccamento alla vecchia liturgia come un elemento di divisione che non può non disturbare la comunità ecclesiale […]. Qual è la ragione profonda di questa sfiducia e del rifiuto di perpetuare le antiche forme liturgiche? […]
Esaminiamo ora l'altro argomento, quello secondo cui l'esistenza di due riti è un
ostacolo all'unità. Occorre qui distinguere fra l'aspetto teologico e quello pratico. Dal punto di vista teoretico e fondamentale occorre rendersi conto che sono sempre esistite molte forme del rito latino e che esse sono gradualmente cadute in disuso in seguito alla maggiore coesione delle culture secolari europee. Fino al Concilio, a fianco del Rito Romano sono esistiti quello Ambrosiano, quello Mozarabico di Toledo, quello di Braga, quello di Chartreux, quello dei Certosini, quello dei Domenicani, il più noto di tutti, e forse altri di cui non ho conoscenza. Nessuno si è mai scandalizzato che i Domenicani, spesso presenti nelle nostre parrocchie, non celebrassero come i preti secolari ma seguissero un rito proprio. Non abbiamo mai avuto alcun dubbio che il loro rito fosse cattolico al pari di quello romano ed eravamo fieri della ricchezza di tante diverse tradizioni. Inoltre si può dire questo: che viene spesso ampliata la libertà che il nuovo Ordo Missae lascia alla creatività, e che la differenza fra liturgie che si celebrano secondo i nuovi libri, così come vengono di fatto messe in pratica e celebrate nei diversi luoghi, è spesso più grande di quella tra l'antica e la nuova liturgia […].
Dobbiamo essere capaci di persuadere i vescovi che la presenza dell'antica liturgia non turba né rompe l'unità delle loro diocesi, ma è invece un dono destinato a rafforzare il Corpo di Cristo, del quale siamo tutti i servitori. Così, miei cari amici,vorrei esortarvi a non perdere la pazienza, a continuare ad essere fiduciosi e ad attingere dalla liturgia la forza per rendere testimonianza al Signore in questo nostro tempo. […]
Non è stato il Concilio a riformare i libri liturgici, esso ne ha ordinato la revisione e, a questo fine, ha fissato alcuni principi fondamentali. In primo luogo il Concilio ha dato una definizione di che cos'è la liturgia e questa definizione fornisce un metro di giudizio per ogni celebrazione liturgica. Se si ignorano queste regole essenziali e si accantonano le «normae generales» formulate nei numeri 34-36 della Costituzione De Sacra Liturgia, allora sì che si disubbidisce al Concilio! [...] Cosi il Concilio ha ordinato una riforma dei libri liturgici, ma non ha proibito i libri precedenti. […]
Nella «Costituzione sulla Sacra Liturgia» non si parla di celebrazione verso l'altare o verso il popolo; in tema di lingua si dice che il latino deve essere mantenuto pur dando un più ampio spazio al vernacolo «specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e nei canti» (SL, n. 36, 2).
[…]In una parte dei liturgisti moderni c'è purtroppo la tendenza a sviluppare i princìpi del Concilio in una sola direzione, rovesciando così gli intendimenti stessi del Concilio.
[...] C'è poi una pericolosa tendenza a minimizzare il carattere sacrificale della Messa e ad indurre alla sparizione del mistero e del sacro con il pretesto - un pretesto asserito imperativo - che in questo modo ci si fa comprendere meglio. Infine si percepisce la tendenza a frammentare la liturgia, mettendo arbitrariamente in rilievo il suo carattere comunitario. […] Le diverse comunità che sono sorte grazie al documento pontificio hanno dato alla Chiesa un gran numero di vocazioni sacerdotali e religiose che con zelo, in letizia e in stretta unione con il Papa, hanno offerto il loro servizio alla Chiesa in questo nostro attuale periodo storico”, Joseph Ratzinger
A dieci anni dal Motu proprio Ecclesia Dei, Roma 24 ottobre 1998. Conferenza, tenuta presso l'Hotel Ergife, in occasione delle celebrazioni per i dieci anni del Motu proprio "Ecclesia Dei", traduzione dall'originale francese tratta dal Notiziario n. 126-127 di UNA VOCE, Associazione per la salvaguardia della liturgia latino-gregoriana, pp. 4-7.
"Per una retta presa di coscienza in materia liturgica è importante che venga meno l'atteggiamento di sufficienza per la forma liturgica in vigore fino al 1970. Chi oggi
sostiene la continuazione di questa liturgia o partecipa direttamente a celebrazioni di questa natura, viene messo all'indice; ogni tolleranza viene meno a questo riguardo.
Nella storia non è mai accaduto niente del genere; così è l'intero passato della Chiesa a essere disprezzato. Come si può confidare nel suo presente se le cose stanno così? Non capisco nemmeno, ad essere franco, perché tanta soggezione, da parte di molti confratelli vescovi, nei confronti di questa intolleranza, che pare essere un tributo obbligato allo spirito dei tempi, e che pare contrastare, senza un motivo comprensibile, il processo di necessaria riconciliazione all'interno della Chiesa", Joseph Ratzinger, da Dio e il mondo, Edizioni Paoline, 2001, p. 380.
* * *
È precisamente quest’«opera di Cristo» il vero contenuto della liturgia […] divenuto
estraneo al pensiero moderno, tanto che trent’anni dopo il concilio anche fra i liturgisti cattolici è oggetto di un punto interrogativo. Chi parla oggi ancora di “divino sacrificio eucaristico”? Certo, le discussioni attorno alla nozione di sacrificio sono ridivenute sorprendentemente vive tanto in ambito cattolico che protestante.
[…]
Restano ancora vive alcune vecchie posizioni illuministe con i loro pregiudizi verso
la magia e il paganesimi [del sacrificio]. Così poco tempo fa Stefan Orth, in un ampio panorama della bibliografia recente consacrata al tema del sacrificio, ha creduto di poter concludere la sua ricerca, con la seguente constatazione: «Oggi infatti molti cattolici sottoscrivono essi stessi la sentenza e le conclusioni cui pervenne Martin Lutero, per il quale parlare di sacrificio era “il più grande e più spaventoso abominio” nonché una “maledetta empietà”». […]
Non ho certo bisogno di dire che io non appartengo a questi “numerosi cattolici” che, con Lutero, considerano come il più spaventoso abominio e una maledetta empietà il fatto che si parli di sacrificio della Messa. Si capisce dunque perché il redattore [Orth] abbia rinunziato a citare il mio libro sullo spirito della liturgia, nel quale si analizza nei particolari la nozione di sacrificio. Ma la sua diagnosi resta tale da sgomentare. È vera? Io non conosco questi numerosi cattolici i quali ritengono una maledetta empietà l’intendere l’Eucarestia come sacrificio. [Ma certo] una parte non trascurabile di liturgisti sembra praticamente giunta al risultato di dare sostanzialmente ragione a Lutero contro [il concilio di] Trento nella disputa del XVI secolo. […] È soltanto partendo da lì, dalla squalificazione pratica di Trento che si può intendere l’esasperazione che accompagna la lotta contro la possibilità di celebrare ancora, dopo la riforma liturgica, la Messa secondo il messale del 1962.
Questa possibilità rappresenta la più forte contraddizione e perciò la meno tollerabile per l’opinione che ritiene che la fede nell’Eucarestia formulata da Trento abbia perduto la sua validità […].
Il nuovo illuminismo oltrepassa però di gran lunga Lutero: mentre questi prendeva ancora alla lettera le parole dell’istituzione [eucaristica] e le poneva, come norma normatrice, a fondamento dei suoi tentativi di riforma, oggi, dopo tanto tempo, le ipotesi formulate dalla critica storica sono sulla via di provocare un’ampia erosione dei testi stessi. Dietro le parole dell’Ultima Cena, che appaiono come un prodotto della costruzione liturgica della comunità, si cerca un Gesù storico, il quale naturalmente non poteva aver pensato al dono del suo corpo e del suo sangue, né aver inteso la sua crocefissione come sacrificio espiatorio. […] Ritorniamo al nostro quesito fondamentale: è giusto qualificare l’Eucarestia come Divin Sacrificio o è questa una maledetta empietà? […] La Scrittura e la Tradizione formano un tutto inseparabile, ed è questo che Lutero […] non ha potuto vedere. [..] Nella citata rivista bibliografica, Stefan Orth afferma che il fatto che dopo il vaticano II, si sia evitata la nozione di sacrificio, ha indotto a “pensare il culto divino soprattutto a partire dalla festa di Pasqua in relazione alle parole dell’Ultima Cena”. […] Ma ciò che soprattutto sorprende nella formulazione di Orth è l’opposizione che viene introdotta fra l’idea di sacrificio e la Pasqua. […]
Se cito questa strana opposizione fra la Pasqua e il sacrificio, è perché essa rappresenta l’architrave anche di un libro recentemente pubblicato dalla Fraternità Pio X, nel quale si pretende ch’esista una rottura dogmatica fra la nuova liturgia di Paolo VI e la tradizione liturgica precedente. La rottura è vista precisamente nel fatto che s’interpreta ormai tutto, presumibilmente, a partire da questo «mistero pasquale» invece che come sacrificio redentivo d’espiazione operato da Cristo. La categoria del «mistero pasquale» sarebbe insomma l’anima della riforma liturgica e questo parrebbe precisamente la prova della rottura rispetto alla tradizione classica della Chiesa. È chiaro che vi sono degli autori, i quali prestano il fianco ad un tale malinteso. Ma che si tratti di un malinteso, è del tutto evidente per chi osservi le cose più da vicino. In effetti l’espressione «mistero pasquale» rinvia chiaramente ai fatti avvenuti nei giorni che vanno dal Giovedì Santo fino al mattino di Pasqua: l’Ultima Cena come anticipazione della croce, il dramma del Golgota e la resurrezione del Signore. Nelle parole «mistero pasquale», tutti questi episodi sono letti sinteticamente come un unico avvenimento, unitario, come «l’opera di Cristo» così come noi all’inizio abbiamo sentito dire dal concilio. […]
La teologia della Pasqua è una teologia della Redenzione, una liturgia del sacrificio espiatorio. Il Pastore è divenuto agnello. L’immagine dell’agnello, che fa la sua apparizione nella storia d’Isacco, dell’agnello che s’impiglia nei cespugli e che viene offerto in riscatto per il figlio, è divenuta una verità: il Signore di fa agnello, si lascia legare, sacrificare, per liberarci. […] Tutto questo è divenuto estremamente estraneo al modo di pensare contemporaneo. […]
Così la crisi della liturgia investe delle concezioni che sono centrali per l’uomo: per superarla, non basta banalizzare la liturgia e trasformarla in un semplice raduno o in un pasto fraterno. […] Questo è il sacrificio cristiano: i molti-un solo corpo in Cristo […]. Chi ha inteso questo, non sarà più del parere che parlare di sacrificio della Messa è per lo meno fortemente ambiguo e anche un abominevole orrore. […]
La reazione dei Gesù contro i mercanti del tempio era in pratica un attacco contro l’immolazione di animali ivi presentati, dunque un attacco alla forma esistente di culto, di sacrificio in generale. È per questo che le autorità giudaiche competenti gli domandano a buon diritto com’egli giustifichi un tal gesto, che doveva considerarsi equivalente a un attacco alla legge di Mosè e alle sacre prescrizioni dell’Alleanza. E Gesù risponde “Distruggete (sciogliete) questo tempio; e in tre giorni lo riedificherò” (Giov. 2, 19). […] Gesù, secondo Giovanni, fu crocifisso esattamente nel momento in cui gli agnelli pasquali venivano immolati nel tempio. Nel momento in cui il Figlio si costituisce egli stesso quale agnello, cioè a dire si dona liberamente al Padre e anche a noi, egli pone fine alle antiche prescrizioni cultuali che non potevano essere che un segno di una realtà autentica. […]
Un sacrificio di lode […] il sacrificio della preghiera non deve essere puramente discorsivo, bensì la trasmutazione del nostro essere nel logos, l’unione con lui. […]
La nostra conformità a Dio […] ecco cosa significa il «sacrificio della Messa». […] Se il canone romano menziona Abele, Abramo, Melchisedec, includendo fra di loro coloro che celebrano l’Eucarestia, ciò è nella convinzione che in essi, nei grandi offerenti, è Cristo che travalica i tempi. […] La teologia della Patristica quale troviamo nel canone, non nega l’inutilità e l’insufficienza dei sacrifici pre-cristiani; il canone include del resto, assieme alle figure di Abele e di Melchisedec, anche i “santi pagani”, essi medesimi entro il mistero di Cristo. […]
Trento non si è ingannato, collocato com’era sulle solide fondamenta della Chiesa. Esso resta un criterio affidabile. […] Ma questa comprensione rinnovata e approfondita [di Trento] possa, grazie in particolare alla mediazione delle chiese orientali, rendersi accessibile ai cristiani protestanti. Una cosa dev’essere chiara: la liturgia non deve essere un terreno per sperimentare ipotesi teologiche. Troppo rapidamente in questi ultimi decenni, le concezioni di alcuni periti sono entrate nella pratica liturgica, aggirando spesso l’autorità ecclesiale, attraverso commissioni che si assicurano la diffusione di un consenso momentaneo a livello internazionale e di emanare praticamente delle leggi per l’azione liturgica.
[Invece bisogna] servire colui che è il vero soggetto della liturgia: Gesù Cristo. La liturgia non è l’espressione della coscienza di una comunità, del resto sparsa e mutevole. Essa è la rivelazione accolta nella fede e nella preghiera, Josef Ratzinger, da La teologia della liturgia, Abbazia di Fontgombault, 22-24 luglio 2001.
* * *
Oggi sembra assurda una “celebrazione verso la parete” o “un mostrare le spalle al popolo” (p. 75). Ma con la celebrazione versus populum ”si è introdotta una clericalizzazione quale non si era mai data in precedenza. Ora, infatti, il sacerdote … diventa vero e proprio punto di riferimento di tutta la celebrazione. Tutto termina su di lui. … L’attenzione è sempre meno rivolta a Dio…
Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in sé. Essa non è più – nella sua forma – aperta in avanti e verso l’alto, ma si chiude in se stessa. L’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era “celebrazione verso la parete”, non significava che il sacerdote “volgeva le spalle al popolo”: egli non era poi considerato così importante.
Difatti, come nella sinagoga si guardava tutti insieme verso Gerusalemme, così qui ci si rivolgeva insieme “verso il Signore” Per usare l’espressione di uno dei padri della costituzione liturgica del concilio Vaticano II, J.A. Jungmann, si tratta piuttosto di uno stesso orientamento del sacerdote e del popolo, che sapevano di camminare insieme verso il Signore. Essi non si chiudono in cerchio, non si guardano reciprocamente, ma, come popolo di Dio in cammino, sono in partenza verso l’oriente, verso il Cristo che avanza e ci viene incontro.” (p. 76)” - ““Con disgusto di molti liturgisti nel 1978 avevo sostenuto che non è affatto detto che tutto il canone deve essere pronunciato a voce alta. Dopo averci riflettuto, vorrei ripeterlo ancora una volta con forza, nella speranza che dopo vent’anni questa tesi possa trovare un po’ più di comprensione. Nel frattempo i liturgisti tedeschi, nella preoccupazione di riformare il messale, hanno essi stessi dichiarato espressamente che proprio il punto più alto della celebrazione eucaristica, il canone, è divenuto il loro vero punto di crisi.
A partire dalla riforma si è cercato di fargli fronte anzitutto con l’invenzione continua
di nuove preghiere eucaristiche, precipitando così ulteriormente nel banale. La
moltiplicazione delle parole non aiuta…. Non è affatto vero che la recitazione ad alta voce, ininterrotta, della preghiera eucaristica sia la condizione per la partecipazione di tutti a questo atto centrale della celebrazione eucaristica. La mia proposta di allora era: da una parte l’educazione liturgica deve far sì che i fedeli conoscano il significato essenziale e l’indirizzo fondamentale del canone; dall’altra, le prime parole delle singole preghiere dovrebbero essere pronunciate a voce alta come un invito a tutta la comunità, così che, poi, la preghiera silenziosa di ciascuno faccia propria l’intonazione e possa portare la dimensione personale in quella comunitaria, quella comunitaria nella dimensione personale” (pp. 210-11).Josef Ratzinger da Introduzione allo spirito della liturgia,Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2001.
* * *

domenica 5 settembre 2010

Incontro sul motu proprio "Summorum Pontificum" a Prato il 14 settembre alle ore 21,15

Parrocchia dello Spirito Santo
Via G. Silvestri, 21 - Prato
Carissimi,

tre anni fa, il Papa Benedetto XVI con il motu proprio "Summorum Pontificum". liberalizzava la celebrazione della Messa in rito romano antico detta di S. Pio V. Dal primo giorno della entrata in vigore del documento, questa parrocchia è stata una delle prime in Italia ad attuare le sapienti indicazioni dell'insegnamento pontificio.
Molti di voi hanno partecipato qualche volta alla celebrazione domenicale delle ore 17, riportando un grande frutto spirituale, per la sacralità e la bellezza dei riti celebrati, durante tutto il corso dell'anno liturgico.
Per questo intendiamo ricordare il terzo anniversario di questo grandioso avvenimento, che ha segnato un giorno luminoso per la Santa Chiesa, con un incontro di riflessione e di bilancio del cammino intrapreso:


Martedì 14 settembre alle ore 21,15, nei locali della parrocchia.


Sicuro della vostra partecipazione, vi assicuro la mia preghiera e la mia stima nel Signore


don Enrico Bini

giovedì 2 settembre 2010

mercoledì 1 settembre 2010

Aggiornamento

Da molti mesi attendiamo di poter avere la celebrazione della S. Messa nella forma Straordinaria del Rito Romano, secondo il Motu Proprio Summorum Pontificum, anche nella nostra città.

Sua Ecc. il nostro Vescovo, Mons. Mansueto Bianchi, si sta adoperando per trovare un sacerdote che voglia celebrare con l'antico Messale.

Aspettiamo con fiducia e nella preghiera che il tesoro spirituale costituito dall'antica Liturgia Romana possa essere offerto anche ai fedeli pistoiesi.

Vesperas in Nativitate Beatae Mariae Virginis ~ Duplex II. classis

Ad Vesperas

Incipit
V. Deus in adjutorium meum intende.
R. Domine, ad adjuvandum me festina.
V. Glória Patri, et Fílio, * et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, * et in saecula saeculórum. Amen
Alleluia

Psalmi {ex Proprio Sanctorum}
Ant. Nativitas gloriosae Virginis Mariae * ex semine Abrahae, ortae de tribu Juda, clara ex stirpe David

Psalmus 109 [1]

109:1 Dixit Dóminus Dómino meo: * sede a dextris meis:
109:2 Donec ponam inimícos tuos, * scabéllum pedum tuórum.
109:3 Virgam virtútis tuæ emíttet Dóminus ex Sion: * domináre in médio inimicórum tuórum.
109:4 Tecum princípium in die virtútis tuæ in splendóribus sanctórum: * ex útero ante lucíferum génui te.
109:5 Jurávit Dóminus, et non poenitébit eum: * Tu es sacérdos in ætérnum secúndum órdinem Melchísedech.
109:6 Dóminus a dextris tuis, * confrégit in die iræ suæ reges.
109:7 Judicábit in natiónibus, implébit ruínas: * conquassábit cápita in terra multórum.
109:8 De torrénte in via bibet: * proptérea exaltábit caput.
V. Glória Patri, et Fílio, * et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, * et in saecula saeculórum. Amen

Ant. Nativitas gloriosae Virginis Mariae * ex semine Abrahae, ortae de tribu Juda, clara ex stirpe David


Ant. Nativitas est hodie * sanctae Mariae Virginis cujus vita inclyta cunctas illustrat ecclesias

Psalmus 112 [2]
112:1 Laudáte, púeri, Dóminum: * laudáte nomen Dómini.
112:2 Sit nomen Dómini benedíctum, * ex hoc nunc, et usque in sæculum.
112:3 A solis ortu usque ad occásum, * laudábile nomen Dómini.
112:4 Excélsus super omnes gentes Dóminus, * et super cælos glória ejus.
112:5 Quis sicut Dóminus, Deus noster, qui in altis hábitat, * et humília réspicit in cælo et in terra?
112:6 Súscitans a terra ínopem, * et de stércore érigens páuperem:
112:7 Ut cóllocet eum cum princípibus, * cum princípibus pópuli sui.
112:8 Qui habitáre facit stérilem in domo, * matrem filiórum lætántem.
V. Glória Patri, et Fílio, * et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, * et in saecula saeculórum. Amen

Ant. Nativitas est hodie * sanctae Mariae Virginis cujus vita inclyta cunctas illustrat ecclesias

Ant.
Regali ex progenie * Maria exorta refulget: cujus precibus nos adjuvari mente et spiritu devotissime poscimus

Psalmus 121 [3]
121:1 Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: * In domum Dómini íbimus.
121:2 Stantes erant pedes nostri, * in átriis tuis, Jerúsalem.
121:3 Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas: * cujus participátio ejus in idípsum.
121:4 Illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini: * testimónium Israël ad confiténdum nómini Dómini.
121:5 Quia illic sedérunt sedes in judício, * sedes super domum David.
121:6 Rogáte quæ ad pacem sunt Jerúsalem: * et abundántia diligéntibus te:
121:7 Fiat pax in virtúte tua: * et abundántia in túrribus tuis.
121:8 Propter fratres meos, et próximos meos, * loquébar pacem de te:
121:9 Propter domum Dómini, Dei nostri, * quæsívi bona tibi.
V. Glória Patri, et Fílio, * et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, * et in saecula saeculórum. Amen

Ant. Regali ex progenie * Maria exorta refulget: cujus precibus nos adjuvari mente et spiritu devotissime poscimus


Ant. Corde et animo * Christo canamus gloriam in hac sacra solemnitate praecelsae Genitricis Dei Mariae

Psalmus 126 [4]
126:1 Nisi Dóminus ædificáverit domum, * in vanum laboravérunt qui ædíficant eam.
126:2 Nisi Dóminus custodíerit civitátem, * frustra vígilat qui custódit eam.
126:3 Vanum est vobis ante lucem súrgere: * súrgite postquam sedéritis, qui manducátis panem dolóris.
126:4 Cum déderit diléctis suis somnum: * ecce heréditas Dómini fílii: merces, fructus ventris.
126:5 Sicut sagíttæ in manu poténtis: * ita fílii excussórum.
126:6 Beátus vir, qui implévit desidérium suum ex ipsis: * non confundétur cum loquétur inimícis suis in porta.
V. Glória Patri, et Fílio, * et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, * et in saecula saeculórum. Amen

Ant. Corde et animo * Christo canamus gloriam in hac sacra solemnitate praecelsae Genitricis Dei Mariae

Ant. Cum jucunditate * Nativitatem beatae Mariae celebremus, ut ipsa pro nobis intercedat ad Dominum Jesum Christum

Psalmus 147 [5]
147:1 Lauda, Jerúsalem, Dóminum: * lauda Deum tuum, Sion.
147:2 Quóniam confortávit seras portárum tuárum: * benedíxit fíliis tuis in te.
147:3 Qui pósuit fines tuos pacem: * et ádipe fruménti sátiat te.
147:4 Qui emíttit elóquium suum terræ: * velóciter currit sermo ejus.
147:5 Qui dat nivem sicut lanam: * nébulam sicut cínerem spargit.
147:6 Mittit crystállum suam sicut buccéllas: * ante fáciem frígoris ejus quis sustinébit?
147:7 Emíttet verbum suum, et liquefáciet ea: * flabit spíritus ejus, et fluent aquæ.
147:8 Qui annúntiat verbum suum Jacob: * justítias, et judícia sua Israël.
147:9 Non fecit táliter omni natióni: * et judícia sua non manifestávit eis.
V. Glória Patri, et Fílio, * et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, * et in saecula saeculórum. Amen

Ant. Cum jucunditate * Nativitatem beatae Mariae celebremus, ut ipsa pro nobis intercedat ad Dominum Jesum Christum

Capitulum


Ab initio et ante saecula creata sum, et usque ad futurum saeculum non desinam, et in habitatione sancta coram ipso ministravi.
R. Deo gratias

Hymnus

Ave maris stella
Dei Mater alma,
Atque semper Virgo,
Felix coeli porta.

Sumens illud Ave
Gabrielis ore,
Funda nos in pace,
Mutans Hevae nomen.

Solve vincla reis,
Profer lumen caecis,
Mala nostra pelle,
Bona cuncta posce.

Monstra te esse matrem,
Sumat per te preces,
Qui pro nobis natus,
Tulit esse tuus.

Virgo singularis,
Inter omnes mitis,
Nos culpis solutos
Mites fac et castos.

Vitam praesta puram,
Iter para tutum,
Ut videntes Jesum,
Semper collaetemur.

Sit laus Deo Patri,
Summo Christo decus,
Spiritui sancto,
Tribus honor unus.
Amen.

V. Nativitas est hodie sanctae Mariae Virginis.
R. Cujus vita inclyta cunctas illustrat ecclesias.

Canticum Magnificat


Ant. Nativitas tua, * Dei Genitrix Virgo, gaudium annuntiavit universo mundo: ex te enim ortus est sol justitiae, Christus Deus noster: qui solvens maledictionem, dedit benedictionem, et confundens mortem, donavit nobis vitam sempiternam

Magníficat * ánima mea Dóminum.
1:47 Et exsultávit spíritus meus: * in Deo, salutári meo.
1:48 Quia respéxit humilitátem ancíllæ suæ: * ecce enim ex hoc beátam me dicent omnes generatiónes.
1:49 Quia fecit mihi magna, qui potens est: * et sanctum nomen ejus.
1:50 Et misericórdia ejus, a progénie in progénies: * timéntibus eum.
1:51 Fecit poténtiam in bráchio suo: * dispérsit supérbos mente cordis sui.
1:52 Depósuit poténtes de sede: * et exaltávit húmiles.
1:53 Esuriéntes implévit bonis: * et dívites dimísit inánes.
1:54 Suscépit Israël púerum suum: * recordátus misericórdiæ suæ.
1:55 Sicut locútus est ad patres nostros: * Ábraham, et sémini ejus in sæcula.
V. Glória Patri, et Fílio, * et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, * et in saecula saeculórum. Amen

Ant. Nativitas tua, * Dei Genitrix Virgo, gaudium annuntiavit universo mundo: ex te enim ortus est sol justitiae, Christus Deus noster: qui solvens maledictionem, dedit benedictionem, et confundens mortem, donavit nobis vitam sempiternam.

V. Domine exaudi orationem meam
R. Et clamor meus ad te veniat
Oremus
Famulis tuis, quaesumus Domine, caelestis gratiae munus impertire: ut quibus beatae Virginis partus exstitit salutis exordium, Nativitatis ejus votiva solemnitas pacis tribuat incrementum.
Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum.
R. Amen.

V. Domine exaudi orationem meam
R. Et clamor meus ad te veniat
V. Benedicamus Domino
R. Deo gratias
V. Fidelium animae per misericordiam Dei requiescant in pace.
R. Amen.